La vocazione del territorio di Montalcino a produrre vini di grande qualità è nota da secoli e toccò il suo culmine nella seconda metà dell’Ottocento, quando una piccola pattuglia di produttori, tra cui il grande Clemente Santi, si mise in evidenza ottenendo numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali nei diversi concorsi enologici che spopolavano già all’epoca.
Le vicissitudini intervenute nella prima metà del secolo successivo, tuttavia, portarono alla decadenza del settore e solo pochissimi produttori tennero viva l’attività vitivinicola fra le due guerre.
Dopo la Seconda guerra mondiale, Montalcino era un borgo rurale di oltre 10mila abitanti (oggi sono 5mila), con un’economia basata sull’agricoltura mezzadrile e sulle attività boschive. La produzione vinicola di qualità era appannaggio esclusivo di qualche blasonata azienda, mentre la parte restante del settore mostrava uno scarso valore commerciale. Ben più rilevante, anche dal punto di vista economico, era il comparto olivicolo. Nel frattempo, le campagne soffrivano per lo spopolamento: i contadini emigravano verso Siena e Firenze, oppure all’estero. Le infrastrutture erano minime, le strade sterrate, il turismo inesistente. Non è un mistero che, fino a metà degli anni Sessanta, il comune di Montalcino fosse tra i territori con il reddito più basso d’Italia.
Eppure, proprio allora iniziò a rifiorire l’attività vitivinicola, con la lungimiranza di proiettarsi nel futuro, seguendo le regole di produzione dettate dal disciplinare della Doc Brunello di Montalcino, approvata nel 1966 e riconosciuta come Docg nel 1980.
Tra gli anni Settanta e Ottanta, grazie alla crescente reputazione del Brunello, avvenne la trasformazione da area marginale a distretto produttivo d’eccellenza, con un progressivo aumento del valore fondiario, dell’occupazione e dell’indotto turistico.
Numerosi a quell’epoca erano i viticoltori per passione, come Domenico “Delfo” Berni, di professione impiegato amministrativo, che nel 1970 acquista un podere in collina, poco distante dalle mura del borgo di Montalcino, e impianta i primi vigneti, con l’obiettivo di produrre una piccola quantità di vino per sé e per una ristretta cerchia di amici. Il luogo era già conosciuto fin dal 1363 con il nome di “Contrada El Petroso” per l’abbondanza di pietre. Prende così vita l’azienda Pietroso, che assume il nome del toponimo. Con la vendemmia 1978 si imbottiglia il primo Brunello di Montalcino.
Nel 1992 una nuova svolta, quando Gianni Pignattai, nipote di Delfo, appassionatosi all’attività vitivinicola, inizia a lavorare in azienda, assumendone più tardi il controllo, dopo la scomparsa del nonno, di cui accoglie l’eredità morale e imprenditoriale. Pietroso mantiene negli anni la forma, la filosofia e il carattere di un’impresa familiare. Oggi ad affiancare Gianni ci sono la moglie Cecilia Brandini e i figli Andrea e Gloria, ciascuno con un ruolo attivo e specifico in azienda.

Gianni Pignattai (a destra) e Cecilia Brandini con Antonello Maietta
La superficie vitata nel frattempo è cresciuta, pur mantenendo la dimensione “a misura di famiglia”. Sono poco più di sei ettari, suddivisi in cinque areali: Pietroso, la vigna storica; Fornello, dove è nata la prima Riserva; Colombaiolo, impiantato nel 1998; Montosoli, probabilmente il cru più prestigioso di Montalcino; Petroso, a poca distanza dal nucleo storico e vitato per ultimo, nel 2019. I poderi, coltivati esclusivamente a Sangiovese, l’unica varietà ammessa dal disciplinare, godono di esposizioni diverse, ad altitudini fra i 300 e i 500 metri, beneficiando di condizioni ambientali e climatiche differenti, in grado quindi di leggere le annate con una spiccata originalità.
La produzione media annuale si aggira intorno alle 35.000 bottiglie, suddivise quasi in parti uguali tra Rosso di Montalcino – non un vino cadetto, ma la via di accesso alla filosofia aziendale – e Brunello di Montalcino, tra cui una Riserva, prodotta per la prima volta nel 2010 e poi solo nelle migliori annate. Di recente la gamma si è arricchita di un vino dedicato al fondatore (meno di 2mila bottiglie), chiamato Berni Domenico, la cui firma campeggia in etichetta.
L’eleganza e la piacevolezza di beva sono gli elementi che accomunano tutti i vini, pur nei loro differenti tratti specifici.

Sotto la lente mettiamo il Brunello di Montalcino della vendemmia 2018, quella del quarantesimo anniversario della prima edizione commercializzata.
Le uve sono raccolte manualmente in cassette nella prima settimana di ottobre. La fermentazione è condotta con soli lieviti indigeni e la macerazione sulle bucce si protrae per circa venti giorni in tini di acciaio e legno alla temperatura controllata intorno ai 30 °C. Il vino riposa per sei mesi in tonneau di rovere francese e per altri ventiquattro in botti di rovere di Slavonia e Austria, prima di affrontare almeno un anno di affinamento in bottiglia.
Una livrea di colore rubino luminoso, solcata da venature granato, anticipa un ricco ventaglio olfattivo di amarena candita, arancia sanguinella, confettura di mora e violetta appassita, seguito da tratti speziati di cardamomo, pepe nero, anice stellato e refoli balsamici in chiusura. Il sorso è caldo e vellutato, rifinito da tannini docili, ma ben presenti, che danno equilibrio a una sontuosa dotazione calorica. Indugia a lungo sul palato, lasciando un ricordo duraturo.
Servito a una temperatura intorno ai 18 °C accompagna alla perfezione cacciagione, selvaggina, carni rosse in umido, oppure formaggi stagionati, come il pecorino della vicina Pienza.
Brunello di Montalcino Quarantennale Docg 2018 – Pietroso
Sangiovese 100% – 14,5% vol.
In apertura, e all’interno, foto di Ilaria Santomanco