Roma, città dalle immense risorse storiche e culturali, possiede anche l’insospettabile peculiarità di essere il comune agricolo più vasto d’Europa. Un’estensione di oltre 60mila ettari destinati a un’eterogenea e qualificata varietà di prodotti della terra, utilizzati molto spesso in ambito locale, in grado di creare un rilevante valore economico per il comprensorio.
All’interno dei confini amministrativi della Capitale gli appassionati di vino trovano un valido elenco di produttori, al cui vertice, per qualità, autorevolezza e storicità, si colloca senza dubbio la Tenuta di Fiorano. Ci si arriva comodamente dal centro di Roma percorrendo la via Appia Nuova in direzione Castel Gandolfo, costeggiando nell’ultimo tratto il perimetro dell’aeroporto di Ciampino, prima di svoltare in via di Fioranello e giungere a destinazione. Siamo nel quadrante nord-ovest del cosiddetto “Vulcano laziale”, un areale particolarmente vocato per la coltivazione della vite.
La Tenuta è da secoli di proprietà della famiglia Boncompagni Ludovisi, che oltre ai diciotto titoli nobiliari vanta nel proprio albero genealogico anche due papi, tra cui Gregorio XIII, artefice del calendario gregoriano.
La storia di Fiorano non sarebbe stata la stessa senza l’arrivo del giovanissimo Principe Alberico Boncompagni Ludovisi alla guida, negli anni Quaranta, indicato espressamente dal padre Francesco per quell’incarico impegnativo. Come consulente fu chiamato il dottor Giuseppe Palieri, un’autorità in materia, per adeguare il parco viticolo, con una base ampelografica diversa dalle consuetudini locali, e migliorare il vino che già si produceva.
Grazie ai suoi suggerimenti furono introdotti Cabernet e Merlot in proporzioni paritarie da destinare alla produzione di un taglio bordolese di alto profilo. Si optò invece per Malvasia di Candia e Sémillon, vinificate separatamente, per ottenere due vini bianchi in purezza.
A metà degli anni Cinquanta subentrò nella conduzione enologica Tancredi Biondi Santi, che mantenne l’incarico fino al 1970. A lui si deve l’impronta stilistica del nuovo corso di Fiorano, che trovò l’immediato consenso della proprietà e del mercato. Per testimoniare la fiducia di cui godeva, si narra che il principe Alberico assaggiò per la prima volta il Brunello di Montalcino da lui prodotto nella Tenuta del Greppo soltanto dieci anni dopo l’inizio della loro collaborazione. Ciò significa che la reputazione dell’enologo toscano, prima ancora del suo vino, era stata più che sufficiente a garantire la stima reciproca.
Grazie ai racconti di Luigi Veronelli, che intrattenne con il principe Alberico una solida amicizia e un fitto rapporto epistolare, sappiamo che tra gli anni Ottanta e Novanta la produzione complessiva delle tre referenze di Fiorano (Rosso, Bianco e Sémillon) non superava le 2500 bottiglie.
Ad alimentare il mito contribuì la drastica e incomprensibile decisione di Alberico di estirpare il vigneto nel 1998, malgrado il successo del vino, chiudendo così, all’età di ottant’anni, un capitolo da lui stesso avviato. Quando tutto sembrava perduto, risultò provvidenziale la visita a Fiorano, qualche mese dopo, di Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi, accompagnato dal papà Paolo, cugino di Alberico.

Principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi
Probabilmente l’entusiasmo manifestato da Alessandrojacopo, unito ai suoi modi signorili e garbati, fece breccia su Alberico e lo indusse a rivedere i suoi piani: concesse al giovane i diritti sui vigneti originari, ma soprattutto gli elargì preziosi consigli sulle varietà da reimpiantare. Per il vino rosso suggerì la collaudata impostazione del taglio bordolese, mentre per il bianco si orientò curiosamente su un blend paritario di Grechetto e Viognier, varietà non ancora presenti in loco. Restò in sospeso il destino del Sémillon, quasi a voler dire: “Per adesso iniziate con questi, poi si vedrà”. La sua morte, avvenuta nel 2005, gli impedirà di assistere al completamento del progetto e di gioire per i successi del suo giovane erede.
L’azienda, che consta di circa duecento ettari, di cui soltanto dodici vitati, è tuttora guidata dal Principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi. I vigneti sono condotti in regime di agricoltura biologica, una scelta dettata da motivazioni etiche e mai sbandierata con clamore. Si producono mediamente 40mila bottiglie, equamente distribuite su quattro tipologie.
La gamma prevede due declinazioni di Fiorano: il rosso si rifà al tradizionale uvaggio bordolese, con il Cabernet Sauvignon incrementato al 65% e un saldo di Merlot per la parte restante, mente il bianco corrisponde integralmente ai suggerimenti di Alberico, ossia un blend paritario di Grechetto e Viognier. Da un’idea di Alessandrojacopo sono nati negli anni, come nella tradizione di Bordeaux, due cosiddetti second vin che portano il nome del toponimo: Fioranello. Il bianco è realizzato con le stesse uve del Fiorano e nelle medesime proporzioni; il rosso è un Cabernet Sauvignon in purezza. Dalla vendemmia 2021 è ritornato anche il Sémillon, in una tiratura di duemila bottiglie.

Sotto la lente mettiamo il Fiorano Bianco, frutto di un’accurata selezione tra i filari di Grechetto e Viognier reimpiantati nel 2001. La vinificazione, con lieve permanenza sulle bucce, è condotta in tini di rovere e castagno, dopodiché il vino riposa a lungo sui lieviti in botti di rovere di Slavonia da dieci ettolitri.
Paglierino luminoso con vividi riflessi dorati. Sprigiona un ricco ventaglio olfattivo orientato su eleganti sentori di ginestra, fiori di camomilla, nespola, mandorla fresca e miele di corbezzolo, con lievi cenni di anice stellato e mallo di noce, retaggio di una felice e prolungata evoluzione. Anche al sorso la raffinatezza è protagonista, grazie a una calibrata dotazione calorica che dialoga a lungo con una vibrante sapidità.
Servito alla temperatura di circa 12 °C, accompagna i grandi classici della cucina territoriale, dalla gricia alla cacio e pepe, passando per una succulenta amatriciana. Non disdegna neppure un sontuoso abbacchio alla romana.
Fiorano Bianco 2020 – Tenuta di Fiorano
Grechetto 50%, Viognier 50% – 13,5% vol.
In apertura e all’interno, foto di Ilaria Santomanco