Le lucciole di Pasolini
Ci sono figure che non muoiono mai. Autori, poeti, che hanno raccontato uno spaccato dei nostri tempi devono vivere nella memoria delle generazioni future: il pensiero pasoliniano merita questo. Gli infiniti sguardi con cui ha interpretato e, successivamente, restituito un preciso momento della società vanno ricercati nella complessa struttura dei suoi lavori, e proprio lì si può percepire tutto il suo essere, aperto a esperienze e possibilità espressive senza limiti
Il Pasolini “corsaro” e “luterano” degli anni settanta ha dato un contributo non irrilevante a quell’Italia retorica e populista che ci ritroviamo.
Per questo, a cento anni dalla nascita del poeta, è bene parlarne ancora.
La regressione moralistica e l’annullamento del pensiero razionale nella mera emotività – che egli favorì a piene mani coi suoi ultimi scritti – continuano a produrre i loro effetti deleteri.
Pasolini era soprattutto un poeta che sapeva trovare i metri e le rime.
Lottava perennemente con il linguaggio. Per poter esprimere fino in fondo quello che sentiva e pensava, reinventava la lingua.
Era anche un romanziere. Così poteva raccontare gli ambienti e le persone che frequentava.
Ma affidandosi sempre al suo animo poetico.
Faceva anche cinema, “cinema di poesia” come egli diceva, filmando in modo improvvisato e documentaristico.
Egli era convinto che il poeta dovesse aprirsi all’esperienza senza limiti, dilatando le proprie possibilità espressive. Passava così continuamente dalla parola, sempre metaforica, all’immagine, diretta e immediata. E viceversa.
In questo andirivieni tra generi ed espressioni artistiche, la sua genialità saggistica si accentuò negli ultimi anni prima che il poeta fosse barbaramente assassinato.
Egli integrava, in modo mirabile, archetipi, scenari onirici, miti e tutto quello che gli capitava per le mani, pur di condurre la sua requisitoria con la stessa spietata uniformità e indeterminatezza di quel nuovo potere che voleva denunciare.
Anche gli ultimi articoli di fuoco erano imperniati su peculiari metri e rime: rituali arcaici riattualizzati e riproposti con linguaggio moderno; lamenti funebri recitati dinanzi alla fantomatica salma di un mondo amato nostalgicamente e ritenuto irrimediabilmente vittima di potenze invisibili.
Un esempio emblematico di deriva sentimentale e moralistica è la metafora della “scomparsa delle lucciole” con cui l’intellettuale friulano esalta un mondo contadino mitizzato di contro all’Italia industriale.
Pasolini ne parla nell’articolo apparso sul Corriere della Sera il primo febbraio 1975[1]. Il titolo originario è Il vuoto del potere in Italia. E il pretesto per scriverlo è offerto al poeta da un intervento del critico Franco Fortini su “L’Europeo” del 26 dicembre 1974.
Fortini aveva affermato che “la distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risalisse niente meno che al giornale Il Politecnico, cioè all’immediato dopoguerra”. Pasolini reagì molto polemicamente:
La distinzione tra “fascismi” fatta sul “Politecnico” non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino circa una decina d’anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo “qualcosa”. “Qualcosa” che non c’era e non era prevedibile non solo ai tempi del ‘Politecnico’, ma nemmeno un anno prima che accadesse[2].
Cos’era, dunque, successo dieci anni prima che lo scrittore scrivesse l’articolo? Era accaduto un fenomeno del tutto nuovo a cui egli adesso dice di voler dare “una definizione di carattere poetico-letterario”.
E la ragione di tale scelta è che “ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio)”.
Vediamo di che si tratta:
Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta.) Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”[3].
Come si può facilmente notare, la metafora viene usata in modo del tutto originale.
Non serve a chiarire il pensiero, cioè a renderlo più perspicuo e prontamente comunicabile con il confronto e la similitudine.
Sostituisce del tutto l’analisi sociologica di un fenomeno complesso. E una intuizione fulminante e personalissima viene presentata come frutto di laboriose ricerche sul campo mai avvenute.
Da cui si fanno scaturire critiche civili e politiche tanto impetuose e violente quanto irresponsabili e pervase da elitario distacco.
Come si può facilmente notare, la metafora viene usata in modo del tutto originale. Non serve a chiarire il pensiero, cioè a renderlo più perspicuo e prontamente comunicabile con il confronto e la similitudine. Sostituisce del tutto l’analisi sociologica di un fenomeno complesso. E una intuizione fulminante e personalissima viene presentata come frutto di laboriose ricerche sul campo mai avvenute. Da cui si fanno scaturire critiche civili e politiche tanto impetuose e violente quanto irresponsabili e pervase da elitario distacco.
Nel fare queste osservazioni, non si nega alle opere di Pasolini l’elemento sociologico. Ma un conto è la “sensibilità” sociologica, altro conto è la “ricerca” sociologica come impresa scientifica. Il poeta aveva senz’altro avvertito l’esigenza di capire e raccontare i tumultuosi cambiamenti che avvenivano nel paese. E utilizzava lenti diverse da quelle solite. Si dimenava, infatti, tra letteratura, cinema e teatro per raggiungere il più vasto pubblico. Anche il linguaggio sociologico rientrava nell’armamentario di Pasolini come uno degli strumenti per avere più ascolto. Ma egli trasforma i concetti sociologici in miti, apologhi, visioni apocalittiche.
La “scomparsa delle lucciole” è diventata così nell’immaginario collettivo una delle metafore della “fine del mondo”. Il tempo delle lucciole è un tempo che non c’è più. Un tempo caratterizzato dal mistero, dal mito, dal mondo magico. Per Pasolini è il tempo del suo Friuli, della sua Casarsa, del mondo contadino così come se lo immaginava poeticamente; ma anche il tempo del mondo artigianale, del mondo paleoindustriale, delle borgate sottoproletarie di Roma non ancora contaminate dalla società dei consumi, del Terzo mondo prima che quei paesi si avviassero verso lo sviluppo.
In realtà, la luce delle lucciole non scompare perché le lucciole muoiono e non ci sono più. Quella luce scompare perché si accendono altre luci. Luci più forti che annientano quella debole e intermittente delle lucciole. Sono le luci artificiali della modernità. Comprese quelle dei grattacieli, degli aerei, degli stadi, dei concerti, delle automobili, della televisione: le luci di quella tecnologia che Pasolini vedeva come potenza oppressiva. È questa luce ritenuta dal poeta pervasiva e assorbente a non permettere più di vedere la luce delle lucciole.
In quegli anni, incominciava a crescere la sensibilità per i problemi ecologici. Era, infatti, reale l’impatto ambientale e sociale degli eccessi che si stavano verificando nel corso della Rivoluzione verde. E del tutto giustificato era l’allarme lanciato nel 1972 dal Rapporto sui “Limiti dello sviluppo” commissionato dal Club di Roma. Ma il messaggio apocalittico del poeta friulano era del tutto forviante. E non aiutava a introdurre nel dibattito pubblico un approccio riformista alla questione ecologica per affrontare e risolvere i problemi che emergevano.
Il tecno-fascismo del tempo post-lucciole
La “scomparsa delle lucciole” segna per Pasolini lo spartiacque tra la prima fase del cosiddetto “regime democristiano”, iniziato nell’immediato secondo dopoguerra, e l’altra fase che va dagli anni sessanta in poi. Due fasi che il poeta identifica con due fascismi del tutto diversi, quello della “fase delle lucciole” e quello della “fase della scomparsa delle lucciole”.
Da qui la polemica con Fortini interessato solo a vedere gli elementi di continuità tra il “fascismo fascista” e il “fascismo democristiano”.
A Pasolini preme, invece, mettere in risalto i caratteri del “fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo” sorto con la “scomparsa delle lucciole”. I caratteri di un nuovo regime che vede i leader politici conservare il potere solo formalmente:
Il potere reale procede senza di loro. […] Di tale “potere reale” noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche; non sappiamo raffigurarci quali “forme” esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che lo hanno preso per una semplice “modernizzazione” di tecniche[4].
Per Pasolini la “scomparsa delle lucciole” equivaleva a un “genocidio” culturale definitivo che egli attribuiva all’esistenza di un nuovo “Potere”:
Scrivo “Potere” con la P maiuscola solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale)[5].
Pasolini personifica il Potere con il Palazzo, introducendo così una nuova metafora analoga, benché contrapposta, a quella delle lucciole:
Solo ciò che avviene “dentro il Palazzo” pare degno di attenzione e interesse: tutto il resto è minutaglia, brulichio, informità, seconda qualità… E naturalmente, di quanto accade “dentro il Palazzo”, ciò che veramente importa è la vita dei potenti, di coloro che stanno ai vertici[6].
Chi coglie per primo la pericolosità di tale approccio è il sociologo Franco Ferrarotti che interviene più volte per polemizzare con il poeta. Il decano della sociologia in Italia racconterà il senso di quel confronto in un’intervista di Angelo Angeloni:
Con Pier Paolo Pasolini io ebbi una garbata polemica che partiva dal fatto che egli – a mio giudizio persona intelligentissima, ma “rapida” (io lo chiamavo, senza mancargli di rispetto, “uno scugnizzo scippatore di idee”) – usa il termine “omologazione”: egli si doleva del fatto che dal balcone di una casa che si affaccia su una piazza, una volta si poteva dire, guardando sulla piazza, quello è un meccanico, l’altro è un contadino, ecc. Poi, ad un certo punto, queste persone sono state tutte omologate. Io rispondevo: ha guadagnato terreno l’uguaglianza sociale, con un miglioramento del tenore di vita, per cui anche un muratore, per fare un esempio, va a mangiare in una tavola calda. Egli, invece, da esteta, vedeva tutto questo come un fatto “terribile”. Indubbiamente, per la vecchia idea fascista l’omologazione era un fatto sconvolgente, perché, per esempio, una domestica ad ore comperava ed usava lo stesso collant della signora per cui lavorava[7].
Soprattutto la metafora del “palazzo del potere” preoccupava Ferrarotti perché avrebbe ostacolato la ricerca delle soluzioni politiche ai problemi reali che si volevano sollevare:
Politicamente più grave è l’idea del processo ai potenti e la metafora del “palazzo del potere”, non per caso prontamente ripresa da una legione di divulgatori specializzati nell’impedire la conoscenza dei termini veri dei problemi. In un’epoca in cui il potere opprime in primo luogo rifiutando di agire, dimenticando, lasciando correre, rinunciando ad esercitare le iniziative cui è tenuto, appunto per non essere razionalmente giudicato in base ai risultati conseguiti, Pasolini rinverdisce la nozione cospiratoria, grossolanamente antropomorfica e reazionaria di un potere altamente personalizzato, individuabile con precisione, semplicisticamente affrontabile come interlocutore specifico. Questo significa non avere la più pallida idea intorno alla complessità odierna dei rapporti di influenza e di potere e al carattere essenzialmente impersonale delle grandi forze sociali e tecnico-strutturali coinvolte. La scivolata verso il moralismo è evidente. Il godimento delle menti più sprovvedute è assicurato, ma il livello interpretativo e quindi la possibilità di un’azione politica seria, incisiva sono destinate a soffrirne. C’è un vistoso passo indietro. Le questioni politiche tornano ad essere vissute in termini di magia o di puro scontro personale. Il letterato moralista ha vinto. La lezione di Marx è stata dimenticata o si è rivelata inutile. Anche Marx è stato canonizzato[8].
Il tempo post-lucciole si caratterizza per l’offerta di nuovi oggetti di consumo, edonistici e superflui, che soddisfano bisogni artificiali e inutili. Oggetti e bisogni che configurano un nuovo tipo di umanità e di rapporti sociali. Il mondo è così desacralizzato. Si perde la dimensione religiosa del senso. Prevale “uno sviluppo senza progresso”. Le macchine prevalgono sull’uomo. La televisione diventa una neo-lingua che abolisce la vita plurale delle lingue, dei dialetti. I prodotti televisivi impongono una cultura nazionale massificata. Una cultura che rende superfluo e antiquato il collante storico del cattolicesimo.
L’antiamericanismo
Pasolini accusa gli italiani di essersi abbandonati senza opporre resistenza all’incontrovertibile volere delle multinazionali. Si sarebbero imborghesiti non solo materialmente, ma come filosofia di vita. L’Italia contadina e paleoindustriale rimarrebbe una polaroid sbiadita. Mentre si sarebbe imposto lo stile di vita “americano”: non più fondato su vecchi cardini educativi come la chiesa e la scuola, ma capace di inglobare l’istituzione famiglia, fonte principale di consumo.
L’antiamericanismo del poeta ha molto in comune con alcune pulsioni antimoderniste degli anni venti e trenta. All’Europa tra le due guerre non piaceva il “progresso” americano. Uno dei simboli della modernità statunitense era la sua città costellata di grattacieli, fonte per gli europei di una fascinazione mista ad un netto rifiuto. Per alcuni intellettuali italiani, esponenti di una società più tradizionale, l’avversione a questo nuovo tipo di paesaggio urbano prendeva spesso la forma della condanna non solo estetica, ma morale. Per Emilio Cecchi il grattacielo era espressione dell’orgogliosa e solitaria prepotenza economica statunitense:
è il campanile senza campane di una religione materialista, senza Dio. Rocche baronali della plutocrazia, i grattacieli somigliano in tutto alle rocche medievali dei nobili, armati uno contro l’altro, entro la stessa cerchia di mura, e soltanto uniti contro il Comune, la Res publica[9].
Luigi Barzini Junior, deluso peraltro dalla “volgarità americana nel vestire” e dall’impossibilità di sfoggiare negli Stati Uniti un’eleganza discreta, descriveva i grattacieli di New York come
le creazioni di un sogno mostruoso – simboli dell’ambizione di un popolo[10].
In Europa questi atteggiamenti si sono intensificati nel dopoguerra fino a diventare quasi un’ideologia di massa. Nel 1964, il politologo svizzero Jean Meynaud orientava un nuovo modo di consumare, affermando che
il progresso sociale si caratterizza, in via negativa, come rifiuto dell’americanizzazione[11].
Ma in realtà i cosiddetti modelli alternativi di consumo si sono poco diffusi: più predicati che praticati.
L’idealizzazione dell’Origine
L’idea pasoliniana di mondo contadino è, dunque, quella del “tempo delle lucciole”, che si presenta nella forma regressiva e antistorica dell’idealizzazione dell’Origine. Tale idealizzazione si può vedere con chiarezza in questa peculiare rappresentazione della vita contadina e della campagna:
Per me essa [la campagna] è stata la certezza di una continuità con le origini del mondo umano, e ha valorizzato, fino a dar loro carattere quasi di rito, ogni minimo gesto, ogni parola. Inoltre essa rappresentava ai miei occhi lo spettacolo di un mondo perfetto[12].
Lo psicoanalista Massimo Recalcati chiarisce bene questo punto:
Attingere all’Origine, alla fonte primaria, alla Cosa, alla verità del Mito, alla purezza dei corpi incorrotti dall’alienazione della società dei consumi, non ancora alienati nei sembianti, risalire a un “essere” non ancora, come si esprimeva Artaud, “tradito dal linguaggio”, appare come uno dei motivi fondamentali dell’opera pasoliniana[13].
L’esordio dell’”Emilio” di Rousseau può suonare come una sintesi perfetta del fantasma del poeta friulano:
Tutto, quando esce dalle mani dell’Autore delle cose è bene; tutto degenera nelle mani dell’uomo[14].
Pasolini preserva il mito rousseauiano della vita come assoluto bene – dono originario della natura – e della storia come la sua necessaria degradazione. Ma resta diviso – come in una sorta di contraddizione mai risolta – fra la trascendenza di un desiderio che lo sospinge incessantemente e disperatamente in avanti, strappandolo dalla Cosa originaria, e il rimpianto struggente e melanconico nei confronti di questa perdita irreversibile dell’Origine che lo mantiene costantemente ripiegato all’indietro.
Il “sapere nostalgico”
È il rimpianto delle lucciole. Uno dei lasciti più controversi del pensiero pasoliniano. Un rimpianto che in questo nuovo millennio si è trasformato in quello che lo scrittore Antonio Pascale ha chiamato “sapere nostalgico”. Vediamo di che si tratta:
Ma allora come mai continuiamo a preferire il vecchio al nuovo? Perché lo riteniamo migliore, più sano, più genuino, più sostenibile? La colpa è di un inquinante culturale che fa più danni di un residuo chimico. Si chiama sapere nostalgico ed è la convinzione che tutto quello che è accaduto nel passato abbia un grande valore mentre tutto ciò che è presente è corrotto[15].
Per rendere chiaro il concetto di “sapere nostalgico”, lo scrittore casertano porta come esempio l’incipit del trattato pedagogico-filosofico di Pasolini intitolato “Gennariello”, uscito in quattordici puntate a partire dal 6 marzo 1975 sul settimanale “Il Mondo”:
Benché sia ormai un po’ di tempo che non vengo a Napoli, i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono, appunto, in concreto, e per di più ideologicamente, simpatiche. Essi infatti non sono cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. E questo, per me, è molto importante, anche se so che posso essere sospettato per questo delle cose più terribili… Ma che vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della Repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della Repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della Repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani, alle scenette della televisione della Repubblica italiana. […] Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere. Un giorno mi sono accorto che un napoletano durante un’effusione mi stava sfilando il portafoglio, gliel’ho fatto notare e il nostro affetto è cresciuto[16].
La città partenopea è considerata dal poeta un luogo dove si svolge una sorta di resistenza attiva all’omologazione. E questo perché i napoletani provengono da una cultura antica, mitica. Da qui il loro carattere allegro e affettuoso. Commenta Antonio Pascale:
A Napoli il portafoglio non ve lo ruba un ladro, cioè un individuo soggetto alla legge come tutti, ma un Tuareg, qualcuno che nel tempo non si è mai modificato. Abbiamo perso i Tuareg. Una volta sì che si rubava con affetto”. [17]
Se si riflette un po’, il pensiero nostalgico (“eh, i vecchi tempi”) fa sorridere, ma diventa deleterio se si combina, come purtroppo è avvenuto, con la cattiva informazione, le visioni bucoliche e mistiche dell’agricoltura, l’incompetenza diffusa. Quante opinioni malsane questo cocktail ha prodotto tra i cittadini!
I contadini che Pasolini non vedeva più
Quando Pasolini faceva il “corsaro” e il “luterano”, l’Alleanza nazionale dei contadini, insieme alla Federmezzadri e all’Unione coltivatori italiani promuoveva il processo costituente per dar vita a una nuova organizzazione. Non doveva più chiamarsi “contadina”[18]. Non perché i contadini non ci fossero più. Ma semplicemente perché erano diventati imprenditori. Pasolini avrebbe detto spregiativamente: “imborghesiti”. I contadini invece si sentivano semplicemente “più cresciuti” sul piano sociale, economico e culturale. Certo, si erano ridotti numericamente. Ma questo era stato un bene: con la meccanizzazione, la chimica e la genetica, si produceva molto più cibo con un minore impiego di braccia. Tutta la società se ne avvantaggiava[19].
I contadini erano affascinati dalle innovazioni. Si mostravano assetati di conoscenza. Quante riunioni nelle frazioni dei paesi e nelle contrade di campagna, nelle serate estive in mezzo all’aia e d’inverno nelle case annebbiate di fumo per le sigarette e i camini accesi! I più giovani stavano in prima fila ad ascoltare i tecnici ed erano i primi a fare domande e a parlare dei loro progetti per il futuro. Li osservavano compiaciuti i capipopolo, chiusi nei loro vestiti di velluto: indossavano l’abito della festa quando partecipavano agli incontri. Negli anni cinquanta avevano insegnato agli altri contadini la lezione di Giuseppe Di Vittorio sulla “coppola”. “Vi dovete togliere il vizio della coppola!” dicevano. Nel linguaggio popolare lucano, al termine “vizio” non si attribuisce il significato opposto di “virtù”. “Vizio” è piuttosto sinonimo di “abitudine”. I contadini da sempre ripetevano il gesto di togliersi il copricapo, sia quando volevano essere cortesi nei confronti di un’altra persona, sia in segno di sottomissione. I capipopolo avevano spiegato loro la differenza tra soggezione e subalternità da una parte, civismo e buona educazione dall’altra. E su questa loro funzione educativa avevano edificato la propria reputazione[20].
I giovani della Basilicata interna conoscevano per filo e per segno le occupazioni di terre raccontate e mitizzate dai genitori e dai nonni. Sapevano che nel Metapontino la riforma agraria e le grandi opere irrigue avevano permesso di impiantare il pomodoro galatina che rendeva 150 quintali ad ettaro e il San Marzano con medie di 400 quintali per ettaro. Si erano potuti espandere gli agrumeti. E dopo alcuni anni anche l’uva da tavola, la fragola, l’albicocca, la susina, la pesca e altre colture di pregio. Perché non tentare anche nelle zone interne uno sviluppo analogo? Partecipavano agli incontri i ricercatori dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza: spiegavano come programmare i pascoli e le coltivazioni foraggere così da assicurare una migliore alimentazione agli allevamenti podolici e ovicaprini. Essi avevano appena cominciato a studiare il pascolo naturale e la biodiversità vegetale e animale per diversificare i contenuti qualitativi dei formaggi. Altri scienziati diffondevano il melo e il pero in Val d’Agri. E i giovani agricoltori avevano una gran voglia di sperimentare e innovare.
Ma in questi quarant’anni il pensiero nostalgico ha fatto presa. Ha alimentato un ambientalismo radicale del tutto indifferente ai gravi problemi dell’umanità. Si è bloccata la ricerca scientifica in agricoltura e nell’Unione Europea si persegue l’obiettivo di produrre meno cibo. Ma in questo modo si spingono le popolazioni più povere a mettere a coltura nuovi terreni. Si dice: siccome produrre cibo nell’Ue costa troppo, per i consumatori europei sarebbe più conveniente acquistare prodotti importati. Ma questa considerazione non tiene conto che il costo maggiore dipende dalle più elevate tutele del lavoro e dell’ambiente. Ci vorrebbero clausole sociali e ambientali negli accordi commerciali e d’investimento. Altrimenti importare di più significherebbe avallare, nei paesi con regimi autoritari, sfruttamento del lavoro e disastri ecologici. E non si premierebbero quei paesi poveri o emergenti che si sforzano di rispettare standard minimi di protezione dei lavoratori e dell’ambiente. Eppure, ci sono pratiche agricole sostenibili che non vengono diffuse, come quella di seminare direttamente su terreni non lavorati. Occorrerebbe diversificare le colture e gli agro-ecosistemi. Bisognerebbe finalmente aprire le porte all’applicazione delle biotecnologie in agricoltura. La sicurezza alimentare europea non può fare a meno dell’intensificazione sostenibile: oggi il sapere scientifico consente di farlo. Ma bisogna scrollarsi di dosso il sapere nostalgico, il mito dell’agricoltura di una volta che costringe a tornare all’antico vizio di togliersi la coppola. Per questo occorre fare una disamina approfondita dell’eredità di intellettuali emblematici come Pasolini.
Tratti reazionari di una visione apocalittica
Per il poeta friulano, il passaggio dal tempo delle lucciole a quello post-lucciole si identifica con una “mutazione antropologica della cultura italiana”. Indipendentemente dal ceto sociale di appartenenza, gli italiani avrebbero aderito interamente all’ideologia edonistica. Questa mutazione è descritta in un’intervista rilasciata al “Mondo” l’11 luglio 1974 a cura di Guido Vergani:
La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell’esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle élites), è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità della vita. Le scelte politiche, innestandosi nel vecchio humus culturale, erano una cosa: innestandosi in questo nuovo humus culturale sono un’altra. Un operaio o un contadino marxista degli anni quaranta o cinquanta, nell’ipotesi di una vittoria rivoluzionaria, avrebbe cambiato il mondo in un modo: oggi, nella stessa ipotesi, lo cambierebbe in un altro modo. Non voglio fare profezie: ma non nascondo che sono disperatamente pessimista. Chi ha manipolato e radicalmente (antropologicamente) mutato le grandi masse contadine e operaie italiane è un nuovo potere che mi è difficile definire: ma di cui sono certo è il più violento e totalitario che ci sia mai stato: esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze. Dunque, sotto le scelte coscienti, c’è una scelta coatta, “ormai comune a tutti gli italiani”: la quale ultima non può che deformare le prime[21].
Pasolini fa degli esempi concreti per far comprendere il senso della mutazione avvenuta negli strati sociali popolari. Gli argomenti utilizzati sono francamente reazionari. Elogia la vitalità del garzone del fornaio che fischietta allegramente mentre porta il pane la mattina presto nelle strade di Roma come una nuova versione della resistenza alla violenza della dittatura del sistema dei consumi:
Una volta il fornarino, o cascherino – come lo chiamano qui a Roma – era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicetta uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. […] La condizione contadina o sottoproletaria sapeva esprimere, nelle persone che la vivevano, una certa felicità “reale”. Oggi, questa felicità – con lo Sviluppo – è andata perduta. Ciò significa che lo Sviluppo […] non dà che angoscia. Ora ci sono degli adulti della mia età così aberranti da pensare che sia meglio la serietà (quasi tragica) con cui oggi il cascherino porta il suo pacco avvolto nella plastica, con lunghi capelli e baffetti, che l’allegria “sciocca” di una volta[22].
In un articolo intitolato “Sfida ai dirigenti della televisione” apparso sul “Corriere della Sera” del 9 dicembre 1973, il poeta rivendica con orgoglio l’analfabetismo dei ceti subalterni come forma di opposizione attiva al processo di acculturazione borghese:
Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della propria realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i “figli di papà”, i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal loro modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza[23].
Non solo i contadini che erano emigrati nelle borgate romane ma anche quelli che erano rimasti nelle campagne esprimevano una forte volontà di migliorare le proprie condizioni. Pasolini si scandalizzava che i contadini mandassero i propri figli a studiare nelle grandi città. Ma alcuni di essi che tornavano dalle Università nei propri paesi portavano con sé la voglia di sperimentare modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori. Per questi giovani, gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana – dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy – si sarebbero potuti integrare con le opportunità che solo i territori rurali erano in grado di offrire. Chi non ha mitizzato questi tentativi, come impossibile ritorno all’agricoltura di una volta, ma ha dedicato a questi progetti impegno e studio, è riuscito a creare imprese che ancora oggi si confrontano con il mercato[24].
Pasolini e Carlo Levi
Continuando a indagare sulle lucciole di Pasolini, va ricordato il dipinto di Carlo Levi sulla copertina della sceneggiatura di Accattone. Il volto del poeta-regista si erge, frontalmente, con la tagliente severità di chi guarda le cose e le trasforma in opera di poesia. Accattone, invece, interpretato da Franco Citti e ritratto alle spalle di Pasolini, condensa nella sua triste posa l’immagine di un sottoproletariato senza speranza, in cui non si dà redenzione ma solo morte.
Nella Prefazione alla sceneggiatura, Levi è colpito dal fluire vitale, non ancora organizzato in modo compiuto, che domina il mondo dei sottoproletari delle borgate romane. Un fluire vitale che gli fa rivivere il suo incontro con i contadini lucani durante il confino ad Aliano tra il 1935 e il 1936. Anche per lo scrittore-pittore torinese, solo laddove risplende il sacro fulgore dell’antico risuona la voce di una potenziale e concreta libertà. In Accattone l’informe fluidità della lingua di quel mondo si tinge di una feroce animalità che ha il sapore della “rabbia” e il colore “grigio del fango, della miseria, della malattia”; e insieme possiede “una sua energia vitale, anarchica e desolata, non mai spenta nella destituzione, nell’uso strumentale del corpo; irrazionale e pura, a volte esplosiva”[25].
Gli occhi neri e intensi che Levi dipinge sia per il volto del regista che per quello del protagonista sono gli stessi occhi neri dei contadini lucani. Ma la Prefazione ci fa capire che nel gioco di specchi c’è anche il pittore-scrittore che, in una conferenza tenuta a Torino il 31 marzo 1950 dal titolo Il contadino e l’orologio, aveva detto:
Mi è forse accaduto di poter essere considerato come un testimone di certi fatti, di una certa condizione umana, della presenza permanente di un’altra civiltà accanto a quella in cui viviamo […]. Non crediate però che quest’altra civiltà, quest’altro mondo, che si può chiamare il Mezzogiorno, o il mondo dei contadini, o il paese che è al di là di Eboli, o, se volete, secondo la formula dell’etnologo Ernesto De Martino, “il mondo popolare subalterno”, sia qualche cosa di nettamente separato e geograficamente determinato. Questo mondo non soltanto non ha dei confini così precisi, come il mitologico nome di Eboli starebbe a significare, non soltanto lo si ritrova vicino a noi in qualsiasi paese dove noi ci troviamo ad abitare, ma è dentro di noi, dentro a ciascuno di noi, è un elemento della nostra stessa vita, della nostra persona, un elemento fondamentale non eliminabile, costituito fin dal principio, un elemento senza il quale noi non esisteremmo; ma anche a non considerarli nella loro accezione individuale ed eterna, anche a fermarsi soltanto sulle loro manifestazioni storiche e sulla loro distribuzione geografica, questi due mondi sono intrecciati insieme e, se si vogliono considerare contraddittori, essi lo sono soltanto in un modo dialettico, nel quale ciascuno presuppone l’altro e lo condiziona[26].
Se il mondo contadino è “dentro a ciascuno di noi”, significa che abbiamo tutti qualcosa in comune con quel mondo. Nell’articolo dell’8 luglio 1974 su Paese sera dal titolo Lettera aperta a Italo Calvino. Pasolini: quello che rimpiango, il poeta accenna alle ricerche etnoantropologiche di Ernesto De Martino e sembra riferirsi anche alle opere di Carlo Levi e Rocco Scotellaro:
L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie – ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano – penso a De Martino – la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale: senza soluzione di continuità). È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo)[27].
Il riferimento al contadino lucano e a De Martino che aveva condotto i suoi studi in Basilicata intende forse evocare temi ed elaborazioni che il poeta sente vicini. Non cita Carlo Levi, ma nelle espressioni usate sembrerebbe implicito il richiamo anche “a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente”[28] che anima il “Cristo”.
Giovanni Russo si è chiesto se allo scrittore torinese gli fosse mai accaduto di essersi isolato nel mito di una società scomparsa come quelle lucciole che Pasolini rimpiangeva:
Eri stato uno dei pochi intellettuali, forse l’unico prima di Pasolini, che aveva intuito il potenziale distruttivo di una trasformazione consumista e materialista dei valori della civiltà popolare, di quella che chiamavi la “civiltà contadina” e per questo eri stato criticato proprio da sinistra[29].
Ma la risposta che Giovanni Russo si dà è netta:
È un errore credere che eri chiuso nel vagheggiamento della “civiltà contadina” e quindi desideroso di lasciare intatto un mondo arcaico, pieno di suggestioni e di tradizioni che per molti erano solo folclore. […] In realtà il tuo era il pensiero di un illuminista, di un riformista piemontese che credeva nella possibilità di una trasformazione verso il mondo moderno senza rinnegare i valori di una società basata su antichi rapporti. C’era, al di là della suggestione del mito che circonda il mondo contadino, l’illusione che potesse nel Sud verificarsi quella stessa evoluzione delle campagne che c’era stata nell’agricoltura piemontese. Basta leggere i tuoi discorsi politici quando accettasti di essere candidato come indipendente al Senato per il Pci, per rendersi conto che non c’era alcun segno di populismo nell’approccio alla società meridionale[30].
Le lucciole pasoliniane hanno, dunque, ben poco a che vedere con la “civiltà contadina” di Carlo Levi. E distanti appaiono, come ora si vedrà, anche dai contadini presenti nell’opera di Scotellaro e nel pensiero di De Martino.
Pasolini e Scotellaro
In un saggio del 1956, uscito su Il Presente, dal titolo Letteratura italiana 1945-1955, Pasolini bolla la poesia del sindaco-poeta di Tricarico come “epigona” delle opere di Sinisgalli e De Libero[31]. Contesta ai poeti meridionali la riproposizione statica di un Sud mitologico e infantile:
Un paradiso estetico: una specie di jolly, di asso nella manica: vi ronza il ritmo della paginetta scotellariana, tra la filastrocca locale e la cavata metafisica alla Sinisgalli[32].
Nell’Introduzione all’antologia Poesia dialettale del Novecento, curata dal poeta assieme a Mario Dell’Arco e uscita nel 1952, c’è una nota che mostra con nettezza l’incomprensione di Pasolini nei confronti del poeta tricaricese:
Abbiamo saltato la Basilicata, perché non ha dato poeti: citeremo comunque il “risorgimentale” Raffaele Danzi: “Raccolta di poesie a dengua Putenzese” (Potenza 1879, ristampata nel 1912), e i più recenti: V. Granata, M. Sabia, P. Laguardia, N. Cilenti. Ma non bisognerà dimenticare R. Scotellaro, che oltre a racconti “coloriti” di dialetto, ha scritto anche direttamente in lucano, e sarà da affiancarsi ai recentissimi friulani, a Guerra, a Vivaldi[33].
Pasolini non riesce a cogliere in Scotellaro il nesso tra poesia e impegno politico che, invece, ripetutamente rivendica per se stesso. Nella primavera del 1945, infatti, egli era stato iscritto al Partito d’Azione. Nel ‘47 aveva partecipato alla fondazione del Movimento popolare friulano, Mpf, che si era battuto per l’autonomia regionale. Una volta ottenuta, il 17 giugno dell’anno successivo, il Mpf aveva esaurito lo scopo che lo animava. Nel ’48 Pasolini si era iscritto al Pci, come si può leggere sulla sua tessera, attualmente conservata presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze. E dopo pochi mesi il poeta era diventato segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa. È il breve, ma intenso, periodo in cui si trova a dirigere le lotte dei braccianti, raccontate nel romanzo I Giorni del Lodo De Gasperi, titolo originario che diventerà, al momento della pubblicazione nel 1962 per i tipi di Garzanti, Il sogno di una cosa. Si tratta della prima esperienza narrativa di Pasolini. Il romanzo è, infatti, scritto tra il ’49 e il ’50. Ed è un’opera realmente connessa ad un rapporto diretto con il mondo contadino:
Come nella raccolta poetica, in questo romanzo di ambientazione friulana Pasolini fonde l’idillio contadino con la prassi politica. Questa fusione è particolarmente evidente se si prende in considerazione la seconda parte del romanzo che vede i tre protagonisti prendere parte alle rivolte contadine del ‘49 e occupare la villa di un proprietario terriero. A quel punto la narrazione non si focalizza su negoziazioni e ambizioni politiche, ma sulla gioia di ritrovarsi dopo tanto tempo tutti insieme. I protagonisti ridono, bevono, cantano, e tutto questo riporta il tempo della narrazione al primo capitolo, che si apriva con una scena dalla medesima atmosfera di festa, quella di una sagra di paese[34].
In questo primo romanzo emerge la volontà dell’autore di immettere, attraverso l’azione politica, i contadini nella storia del mondo. Espulso dal Pci, a causa della sua omosessualità, il poeta dopo il ‘49 non avrà più contatti diretti con le realtà agricole. In seguito a quel doloroso epilogo dell’esperienza di militante comunista però, e nonostante la morte del fratello ucciso dalle brigate titine durante la Resistenza, Pasolini non mostrerà mai rancore verso il partito. Ma elaborerà la mitizzazione di quel periodo come racconterà egli stesso in una delle conversazioni con Jon Halliday:
Fu lì che diventai un marxista, in modo alquanto insolito. Come le ho detto, feci la scoperta oggettiva dei contadini friulani attraverso l’uso assolutamente soggettivo del loro dialetto. Nell’immediato dopoguerra i braccianti erano impegnati in una massiccia lotta contro i grandi proprietari terrieri del Friuli. Per la prima volta in vita mia, mi trovai, fisicamente, del tutto impreparato, e questo perché il mio antifascismo era puramente estetico e culturale, non politico. Per la prima volta mi trovai di fronte alla lotta di classe, e non ebbi esitazioni: mi schierai subito con i braccianti. I braccianti portavano sciarpe rosse al collo, e da quel momento abbracciai il comunismo, così, emotivamente. Poi lessi Marx e alcuni pensatori marxisti. Per questa ragione il Friuli ha avuto molta importanza per me[35].
La conclusione dell’esperienza friulana è per Pasolini anche la fine di un approccio peculiare al mondo contadino. Se, da dirigente del Pci, egli aveva coltivato l’idea che i contadini potessero avere una coscienza politica, da quel momento matura invece la convinzione che questa coscienza non fa parte del loro orizzonte. E dunque i contadini sono impossibilitati ad entrare nella storia perché appartengono ad una storia antica che si è da tempo conclusa. Per il poeta, figlio di un militare di carriera e privo di una qualsiasi esperienza esistenziale diretta della vita contadina, questa impossibilità non costituisce un limite ma un valore. Il mondo contadino è destinato a rimanere immutabilmente un pezzo di preistoria nella civiltà industriale.
Pasolini e De Martino
Per concludere, va fatto un rapido cenno alla plausibilità o meno di un accostamento tra la mutazione antropologica insita nella metafora della scomparsa delle lucciole e le apocalissi culturali studiate da De Martino. Enzo Siciliano, il biografo più affidabile di Pasolini, non parla né di collaborazione professionale, né di rapporti di amicizia tra i due intellettuali. In una ricerca sulle possibili confluenze e differenze tra il pensiero del poeta e quello del padre dell’etno-antropologia, lo studioso Giacomo Tinelli ipotizza uno scambio di materiali letterari tra i due intellettuali nel 1953.
Se si legge l’opera postuma di De Martino intitolata La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, emerge una differenza di fondo sul significato della crisi che affligge la contemporaneità. Lo studioso napoletano parla di una crisi che si svolge interamente sul piano culturale. Nel suo pensiero prevale il fervore propositivo per quello che egli chiama “umanesimo etnografico”, le cui condizioni sono state poste dall’epoca delle scoperte geografiche. Ma ora può finalmente maturare con il moltiplicarsi dei rapporti interculturali e delle occasioni per fondare una nuova solidarietà dei rapporti umani:
L’”umanesimo etnografico” è in un certo senso la via difficile dell’umanesimo moderno, quella che assume come punto di partenza l’umanamente più lontano e che, mediante l’incontro sul terreno con umanità viventi, si espone deliberatamente all’oltraggio alle memorie culturali più care[36].
Dinanzi alla possibilità concreta del rischio radicale del non esserci, allo studioso delle apocalissi culturali le tendenze di pensiero dominate dalla distruzione della ragione, dallo svilimento della storia, dalla nostalgia dell’arcaico, sembravano affacciate sulla perdita di senso e sul nulla. E queste visioni apocalittiche prive di futuro preoccupavano molto l’antropologo napoletano che si mostrava fortemente interessato a ricercare la soluzione dei problemi per poterle gestirle e smontarle. “Può finire il mondo?”, si domandava De Martino. E la risposta conteneva una chiara indicazione:
Chi così chiede, e vaga col suo terrore di congettura in congettura, proprio con ciò pone il finire del mondo, si immette nel corso del finire che non si trattiene più in nessun nuovo inizio, corre al termine sottraendosi all’unico compito che spetta all’uomo, cioè di essere l’Atlante, che col suo sforzo, sostiene il mondo e sa di sostenerlo. Certo il mondo “può” finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo[37].
Le apocalissi contemporanee, che denotano un senso di disagio della civiltà occidentale senza prospettiva di rigenerazione, un finire senza palingenesi, ossessionavano De Martino. Egli pensava che la civiltà occidentale avesse dei limiti e delle ambiguità e che potesse essere criticata, non demonizzata. Nella nostra cultura ci sono i buchi neri e le risorse per ricominciare e andare avanti. E questa ambivalenza va risolta ogni giorno, a ogni risveglio, dal campo psicoanalitico a quello culturale. In un processo senza fine, c’è storia finché c’è questo processo.
Pasolini non ha potuto leggere La fine del mondo, uscito due anni dopo la sua morte. Ma non c’è motivo di dubitare che fosse a conoscenza di alcune linee di ricerca sviluppate dallo studioso napoletano. Su invito del filosofo Pietro Pini, De Martino era stato relatore, con Paul Ricoer, Guido Calogero e Umberto Eco, al seminario svoltosi a Perugia, sotto l’egida dell’Unesco, su Il mondo di domani. Aveva parlato del problema della fine del mondo. E gli atti di quel convegno erano stati pubblicati nel 1964. L’antropologo aveva affermato che il carattere fondamentale di questa epoca è che essa vive nella drammatica consapevolezza di un’alternativa: il mondo deve continuare ma può finire; la vita può avere un senso ma può anche perderlo per tutti e per sempre. E che l’uomo, solo l’uomo, porta intera la responsabilità di questo “deve” e di questo “può”:
Il problema centrale del mondo di oggi appare la fondazione di un nuovo ethos culturale adeguato all’intero pianeta terra che ormai gli astronauti contemplano dalle solitudini cosmiche e che sta di fatto diventando, per quanto attraverso contraddizioni e resistenze, la nostra patria culturale fondamentalmente unitaria, con tutta la ricchezza delle sue memorie e delle sue prospettive. Nella misura in cui questo nuovo ethos si renderà realmente operante e unificante, raccogliendo in una consapevole ecumenicità di valori comuni la originaria dispersione e divisione delle genti e delle culture, il mondo che “non deve” finire uscirà vittorioso dalla ricorrente tentazione del mondo che “può” finire, e la fine di “un mondo” non significherà la fine “del mondo” ma, semplicemente, “il mondo di domani”[38].
L’apocalisse pasoliniana era priva di un domani. Se si analizza un’opera cominciata nel 1968 e ripresa nel 1974, San Paolo, che si presenta come un film da fare, si comprende meglio cosa c’è dopo la “sua” fine del mondo. Quest’opera è un abbozzo di sceneggiatura per un film sul Santo che non fu realizzato. Ne parla Alberto Granese che coglie, nelle ultime scene ritoccate dal poeta “corsaro” e “luterano”, la resa della Chiesa al Potere:
Nel palazzo vescovile di Napoli ricompare, infatti, Timoteo in veste prelatizia, dietro a una scrivania lussuosa, situata in uno studio con pesanti affreschi barocchi; non è più quello di un tempo, ma una “specie di polvere si è depositata su di lui”. Legge una lettera di Paolo, che diventa sempre più incomprensibile per il suono assordante e “folle” di campane; subito dopo, ecco una processione con la statua pesantissima della Madonna, portata a spalle da “giovanotti con le facce di avanzi di galera”, seguita da beghine “scarmigliate come erinni” e preceduta da un Timoteo quasi irriconoscibile nel suo vestito tutto d’oro e “schiacciato sotto la mitria”, da ufficiali in alta uniforme e politici in “doppiopetti neri con le vecchie facce volgari e ipocrite”: tutti avanzano verso un altare “incrostato d’oro, vero e proprio vitello d’oro”, autentica opera “clericale e padronale”. Una trasfigurazione apocalittica, questa di Timoteo, un’allegoria potente della “Chiesa” come “Potere”: la “contraddizione” assoluta con la “Santità”, secondo l’impostazione originaria che Pasolini aveva dato al suo progetto e che in queste ultime sequenze dell’incompiuta sceneggiatura approdano a una soluzione finale di lucida e stringente coerenza ideologica e stilistica[39].
L’età del pane è finita
Se tutto converge in una immane potenza del negativo, la fine del mondo di Pasolini non può che essere un’apocalisse strisciante dell’umano che rende la tragedia l’autentico e definitivo segno della nostra vicenda. Curiosamente, nella Lettera aperta a Italo Calvino, il poeta evoca un romanzo uscito nel 1974 che forse avrebbe dovuto leggere con maggiore attenzione:
(Gli uomini dell’universo contadino) vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento)[40].
Gli ultimi giorni dell’età del pane di Felice Chilanti è il titolo di un romanzo emblematico del clima culturale e politico che si respirava negli anni settanta. L’autore era un intellettuale polesano di raro talento, estroso, scanzonato, ribelle. Refrattario a intrupparsi in correnti ideologiche o stilistiche. Nato in una famiglia contadina, si era trasferito a Roma, appena quattordicenne, chiamato dal fratello Pietro. Aveva trovato un impiego presso l’Unione provinciale agricoltori fascista. Entrato nel mondo del giornalismo, aveva collaborato con testate di regime. Accusato dall’Ovra di aver attentato alla vita di gerarchi fascisti, aveva subito il carcere e il confino. Alla caduta di Mussolini, aveva aderito al gruppo di bandiera Rossa nella Resistenza romana. Dopo una breve esperienza nella redazione del Corriere della Sera, si era associato nell’avventurosa creazione di un nuovo giornale di opposizione, Paese sera. Noto per alcuni reportage sulla mafia, aveva scritto diverse opere di narrativa prima di dare alle stampe quest’ultimo lavoro.
Il racconto di Chilanti è diviso in tre parti: la prima parla della società italiana appena uscita dalla seconda guerra mondiale (“una società di lavoro, libertà e pace e pane sicuro, pane”); la seconda riflette la dialettica tra mondo contadino e mondo operaio, mondo dell’uomo e mondo delle macchine; la terza è quasi la sceneggiatura di un’opera drammaturgica che rappresenta un mondo che crolla. Ma il finale non è tragico. Il romanzo si chiude, infatti, con la riflessione sofferta di un vecchio militante comunista, stanco di sentire ripetere slogan stantii e di vedere compagni di partito fermi su posizioni sorpassate e sterili. Un pensiero che contiene un esplicito invito a rinnovarsi, dentro e fuori. Il compagno Ticchi sta morendo e lascia una sorta di testamento spirituale ai suoi sodali che lo circondano in lacrime:
Altro non abbiamo per poter sperare in una società di liberi e uguali, questo partito difettoso che bisogna cambiare, oh sì Giangesta, cambiatelo questo partito e anche l’ideologia, non vanno più bene ai tempi d’oggi, non si appoggiano bene sulla realtà, cambiate, cambiate disse, è finita, sta finendo l’età del pane, disse, e furono le sue ultime parole[41].
Note
[1] P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, collana Gli elefanti, 1990, pp. 128-134
[2] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 128
[3] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 129
[4] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 134
[5] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., pp. 45-46
[6] P.P. Pasolini, Lettere luterane, L’Unità/Einaudi 1991, p. 93
[7] F. Ferrarotti, Opere. Scritti teorici, vol. 2, Marietti 2019, p. 808
[8] F. Ferrarotti, Pasolini scivolava verso il moralismo, in Corriere della Sera, 29 dicembre 1976
[9] E. Cecchi, Grattacieli, in Corriere della Sera, 1° marzo 1935
[10] L. Barzini, Nuova York, Editore G. Agnelli 1931, p. 79
[11] J. Meynaud, Les consommateurs et le pouvoir, Lausanne 1964, p. 112
[12] P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 47
[13] M. Recalcati, Pasolini. Il fantasma dell’origine, Feltrinelli 2022, p. 12
[14]J.J Rousseau, Emilio, a cura di G. A. Roggerone, Editrice La Scuola 1965, p. 7
[15] Antonio Pascale, Pane e pace, Chiarelettere 2012, p. 37
[16] P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 15
[17] Antonio Pascale, Pane e pace, cit., p. 39
[18] Vedi il mio La CIA e l’agricoltura italiana, in Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Atti del Convegno “Le fonti archivistiche dell’agricoltura italiana per la ricerca storico-geografica tra Otto e Novecento”, Roma 2019, pp. 163-185
[19] Per un approfondimento dei temi riguardanti i processi di modernizzazione dell’agricoltura italiana vedi il mio Radici & Gemme. La società civile delle campagne dall’Unità ad oggi, Cavinato Editore International 2013, pp. 154-270
[20] Antonio Pascale, L’antico vizio di togliersi la coppola, in Il Post, 29 giugno 2020
[21] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 57-58
[22] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 61
[23] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 23-24
[24] Vedi il mio Educarci all’agricoltura sociale. Prove di terziario civile innovativo, Gal Capo S. Maria di Leuca 2015
[25] C. Levi, Prefazione a P.P. Pasolini, Accattone, Edizioni F. M. 1961; ora in P.P. Pasolini, Accattone, Mamma Roma, Ostia, introduzione di U. Casiraghi, Garzanti 2006, pp. 23-26
[26] C. Levi, Un volto che ci somiglia. L’Italia com’era, Edizioni e/o 2000, p. 67-68
[27] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 52-53
[28] C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi 1994, p. 3
[29] G. Russo, Lettera a Carlo Levi, Editori Riuniti 2001, p. 12-13
[30] G. Russo, Lettera a Carlo Levi, cit., p. 16
[31] P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. I, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori 1999, p. 641
[32] P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 678
[33] P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 755, n. 2
[34] A. Viola, Un topos militante: mondo contadino friulano e impegno politico nell’attività poetico-letteraria del primo Pasolini (1942-1950), in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Adi editore 2020, p. 7
[35] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori 1999, 1291-1292
[36] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 2019, p. 323
[37] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, cit., p. 208
[38] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, cit., pp. 75-76
[39] A. Granese, Pasolini. L’esercizio della ragione e del dovere, Edisud 2022, p. 91
[40] P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 53
[41] Felice Chilanti, Gli ultimi giorni dell’età del pane, Mondadori 1974, p. 124
In apertura, foto tratta dal sito Pier PaoloPasolini
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