C’è oggi uno scenario inedito con il quale occorrerà confrontarsi, non solo nell’ambito della coltivazione degli olivi e dell’estrazione dell’olio, ma anche su altri fronti, in termini di prospettive di mercato e di consumi. Abbiamo per questo incontrato Dora Desantis, non come imprenditrice, ma per il suo ruolo di presidente del Fooi, la Filiera olivicola olearia italiana. Con lei si è parlato di alcune parole che non sempre vengono vissute serenamente. Formazione, per esempio. E perfino educazione. Sembrano parole anacronistiche eppure tanto necessarie. Questa intervista ci restituisce una visione nuova, perché rivolge un invito alla filiera olivicola e olearia ad assolvere il compito di interpretare e vivere l’olivo e l’olio anche in una chiave di lettura culturale. Anche perché l’olio, prima ancora che un alimento e una merce, è soprattutto un marcatore culturale, come dico da tempo. E così come lo è stato in un lontano passato, con la medesima forza propulsiva dovrà esserlo ancora, di qui in avanti.

Intervista a Dora Desantis

 

Presidente Dora Desantis, facciamo il punto sulla filiera dell’olio di oliva, che lei rappresenta attraverso il Fooi. A Olio Officina Festival il 22 gennaio prossimo ci sarà un incontro nel quale verranno resi noti i risultati di una indagine congiunta dell’Osservatorio HonestFood e di Liuc Business School, proprio sulla filiera di cui lei si occupa. Quel che ho notato è che non sempre c’è chiarezza tra una scelta di campo che privilegi la tradizione e una che punti sull’innovazione. Spesso e volentieri si assiste a due poli contrapposti, ma non sarebbe il caso di prospettare una apertura al nuovo senza la paura di perdere l’ancoraggio alla tradizione?

Certamente, i due elementi cardine non possono essere disgiunti. Partecipando questa estate a un incontro promosso dai frantoiani Aifo, dal titolo “Custodi della tradizione, attori del cambiamento”, intervenni proprio al riguardo, specificando come le parole siano molto importanti e dobbiamo intenderle nella loro interezza, scavando nel profondo. Tradizione e innovazione sono il prima, il durante e il dopo, c’è sempre una continuità, non può esserci tradizione senza innovazione, e nemmeno innovazione se non si coglie la lezione del passato, di chi ci ha preceduto.

Ha appena detto che “le parole sono importanti”, e concordo con lei, ma a proposito dell’essere custodi, cosa significa per lei essere custodi della tradizione?

Per me è un impegno ben preciso, perché implica una presa di coscienza, sia da parte di chi opera nel campo agricolo, come pure per estensione chi opera in quello alimentare, sia, nel contempo, da parte di chi fruisce del cibo che è stato prodotto e immesso in commercio per consumarlo. Produrre alimenti è un atto culturale e materiale nello stesso tempo, che comporta una serie di responsabilità.

Per esempio?

Produrre in modo sano, innanzitutto, puntando sulla massima qualità possibile. Agendo sempre in modo rispettoso nei confronti dell’ambiente e dei lavoratori. Anche se questi aspetti sono ritenuti come qualcosa di già acquisito, in realtà non è così. Ci sono troppe sperequazioni irrisolte.

In che cosa consistono queste sperequazioni?

Consistono nel fatto che sia la parte agricola, sia quella trasformativa subiscono l’aggressività e la sopraffazione dei mercati e di fatto viene sottratta loro una giusta remunerazione. Questo squilibrio non gioca a favore di chi si pone a custode della tradizione e attore del cambiamento. Molto spesso le dichiarazioni di principio, improntate sull’etica, non coincidono con la realtà. Questa disuguaglianza va superata, altrimenti non ci saranno più custodi e nemmeno ci sarà un’agricoltura, anche in ragione dell’alto tasso di abbandono delle coltivazioni.

Occorre trovare soluzioni efficaci…

Sì, ma che siano non soltanto di natura legislativa. Occorrono soluzioni di un profilo di gran lunga superiore alle stesse leggi, che vada alla radice dei comportamenti. C’è infatti una parola che abbiamo trascurato e dimenticato: educare. Educare ai valori civici, al rispetto. Educare e formare, in un senso più ampio e onnicomprensivo, tutti coloro che sono coinvolti intorno agli alimenti prodotti e commercializzati.

Interessante. Parla di educazione e formazione…

Sì, perché educazione e formazione vanno di pari passo. Spesso si preferisce percorrere la strada più breve, quella del “tutto e subito”, come se bastasse emanare una nuova norma per mettere a posto la realtà. Non è così, con questa prassi si commette l’errore di non cambiare gli atteggiamenti, le abitudini e i costumi su un piano sostanziale.

Torniamo all’espressione “custodi della tradizione”. Cosa implica entrare nel ruolo di custodi?

Implica l’assumersi la responsabilità e la consapevolezza del delicatissimo ruolo di cui ci si è deciso di farsi carico. Coloro che producono cibo hanno responsabilità importanti verso la comunità. Allo stesso tempo la società deve riconoscere tale ruolo, facendo attenzione al fatto che chi riveste il ruolo di custode della tradizione oltre alla tradizione custodisce - prima ancora, e soprattutto – anche il territorio, e con esso il paesaggio, il turismo, e, in un senso più ampio, la stessa economia. Il cibo è un bene di prima necessità, senza cibo non può esserci tutto il resto.

Torno al significato delle parole, che non va mai sottovalutato. Giusto per evitare equivoci e fraintendimenti, cosa si deve intendere per tradizione?

La tradizione innanzitutto non può essere solo una replica del passato. La tradizione va sempre concepita in divenire. Diversamente sarebbe immobilismo, se non addirittura arretramento. Noi dobbiamo essere gli artefici della tradizione del futuro. Ogni generazione apportando un cambiamento contribuisce a “fare” tradizione. Deve essere questa, a mio parere, la logica cui ispirarci.

L’abbinata ricorrente è tradizione e innovazione. Non è forse un cliché fin troppo abusato?

Lo è quando esprimiamo una visione nostalgica della tradizione. Tant’è che molti quando pronunciano la parola innovazione sembra non sia ancora in grado di scrollarsi di dosso la parola tradizione. E questo è un serio problema, perché significa restare in un limbo: né di qua, né di là. Lo si nota dal conservatorismo che mette in pregiudizio il progresso in agricoltura. La diffidenza o addirittura l’ostilità verso ciò che è nuovo, il senso di paura nei confronti di quel che viene proposto dal mondo della ricerca e dalla scienza, ecco, tutto ciò è un brutto sintomo che richiede una seria riflessione. Per fare un esempio emblematico, prendiamo il caso Xylella fastidiosa. La perdita di milioni di olivi ha comportato una pesante sconfitta per come è stata gestita l’emergenza. Andare contro la scienza, mettendosi di traverso, non è stato l’atteggiamento più utile e funzionale.

Cosa deve essere allora la tradizione per i contemporanei?

La tradizione deve essere l’assimilazione di quanto di buono e di eccellente è stato fatto nel passato, in modo da giungere a un cambiamento della società e del tessuto economico in un’ottica di continuo miglioramento. Se non si accettano i rischi del cambiamento non possiamo generare una tradizione del domani. Accogliendo e facendo propria l’idea di innovare, dobbiamo nel medesimo tempo anche mettere in conto il rischio che ogni cambiamento può in ogni caso comportare. Non può esserci progresso senza il coraggio di sperimentare.

Ci vuole allora un decisivo cambio di passo, soprattutto in un ambito produttivo piuttosto conservatore com’è quello olivicolo e oleario, visto, peraltro, che in giro si percepisce una grande paura verso tutto ciò che è nuovo…

Sì, per superare ogni diffidenza verso ciò che è nuovo, occorre un cambio di passo. Proprio così. Si pensi al concetto, tanto controverso e avversato, dell’alta densità nella coltivazione degli olivi. Per alcuni sembra un oltraggio alla tradizione, quando invece è solo un nuovo modo di concepire l’olivicoltura, in modo coerente con gli sviluppi che questa ha avuto dall’Ottocento in poi. L’olivicoltura, così come la conosciamo noi oggi, risale a tempi non troppo lontani. In passato la coltivazione degli olivi era importante ma marginale e periferica, ancorché carica di un forte valore simbolico e identitario, ma la vera olivicoltura nasce perlopiù nella seconda metà dell’Ottocento. Ora, non si tratta di cancellare il passato, ma di far convivere passato e presente in un’ottica orientata al divenire. Il tutto però, va chiarito, si gioca nell’oggi, nel qui e ora. Ogni tentennamento, diventa una perdita economica e, inesorabilmente, un arretramento.

Abbiamo fatto luce sull’importanza delle parole. C’è una, in particolare, che è ricorrente, ma altrettanto inevasa: sinergia…

L’Italia dell’olivo e dell’olio ha un solido passato, glorioso direi, vista anche la notorietà di tanti brand del settore, ma è da decenni che il nostro Paese è fermo, senza una visione di futuro. La parola sinergia in questo caso è emblematica. Senza una azione comune e condivisa, non ci potranno essere prospettive future. Ad oggi non ci sono olivi a sufficienza, in grado di soddisfare il fabbisogno interno di olio. Dobbiamo chiederci come mai non si sia pensato, in tanti anni, di porvi rimedio. È necessario ripensare l’olivicoltura italiana, rimodulandola rispetto allo stato attuale della realtà.

Visto che si gioca su parti contrapposte, molti ritengono che accogliere la modernità equivalga a cancellare la tradizione. È proprio così?

No, non dobbiamo commettere l’errore di abbandonare l’olivicoltura tradizionale preesistente. Dobbiamo semmai adeguare l’olivicoltura tradizionale in una chiave di lettura moderna, fornendo tutti gli apporti tecnologici che possano contribuire a migliorare le operazioni colturali, rendendole più agevoli e creando soprattutto prospettive di reddito che ne giustifichino la coltivazione, soprattutto in areali impervi, là dove una olivicoltura definita non a caso “eroica” porta, in termini pratici, a una prodigiosa e salvifica manutenzione del territorio. Per questo occorre investire nei custodi del territorio come lo sono gli olivicoltori, garantendo loro, tuttavia, un supporto morale e sociale, prima ancora, anche economico. Ricordiamoci che senza un adeguato reddito, c’è solo l’abbandono della coltivazione. E questo, sia ben chiaro, non deve avvenire.

Non dobbiamo commettere l’errore di rinunciare a una olivicoltura ad alta densità

Certo, soprattutto là dove le condizioni operative lo permettano, è opportuno agire di conseguenza - per chi lo vorrà, s’intende. C’è da osservare comunque che non ha alcuna ragione d’essere l’idea di imitare modelli esterni al nostro Paese. È bene semmai creare un modello tutto nostro, italiano, cucito su misura. Un modello sartoriale di olivicoltura. Siamo stati bravi pionieri in passato, dobbiamo continuare a esserlo oggi e in prospettiva futura. 

Cos’è che manca oggi al settore?

Manca una visione comune, e prima ancora una visione. È vero che siamo consapevoli della realtà, ma occorre agire presto e ridiscutere il nostro approccio all’interno del comparto olivicolo e oleario. Occorre farlo coinvolgendo le varie figure professionali, non trascurando nessuno degli attori, anche perché tutti hanno un ruolo di fondamentale importanza. Tutti devono essere ascoltati e avere una propria voce in capitolo.

Nello stato attuale della realtà ci vuole tanto coraggio per decidere di staccarsi da una concezione vetusta di olivicoltura. Condivide?

Sì, abbiamo immaginato l’olivo come pianta rustica in grado di adattarsi ovunque, in quanto bisognosa di poche cure. Occorrerebbe invece rimodulare l’idea stessa di olivicoltura, con la consapevolezza che senza una olivicoltura forte e strategica, con soggetti altamente professionali, non ci possa essere alcun futuro all’orizzonte. Occorrono investimenti significativi, che si estendano anche a soggetti estranei al comparto, anche perché occorrono risorse vive, e soprattutto occorre tanto danaro e tanta professionalità, oltre che tante idee. A questo nuovo corso devono partecipare tutti gli attori chiamati in causa, e ciascuno deve farlo con le proprie risorse individuali. Tornando alla parola sinergia, sinergia non è altro che l’impegno nel creare un network efficace, e non una ennesima sovrastruttura.

Non le sembra che si pensi all’olivicoltura sempre immaginando il ricorso ai finanziamenti? Non sarebbe l’ora di concepire una olivicoltura più dinamica, dove entrano in scena partnership di investitori?

È sicuramente un errore pensare che il rilancio dell’olivicoltura italiana debba esserci solo a partire da finanziamenti pubblici. Con questo spirito verrebbe meno il valore stesso dell’impresa, che consiste nell’accettare il rischio a fronte di progetti validi, pensati in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati. Forse ciò che è mancato, in tutti questi decenni, è stato il coraggio di investire, e come dice lei coinvolgendo anche soggetti terzi che credano nel progetto e investano del denaro.

Tra fine Ottocento e inizi Novecento, in un contesto epocale non certamente favorevole, incuneato tra conflitti sanguinosi e devastanti, si è potuto paradossalmente assistere al grande successo dell’olio italiano nel mondo. I grandi marchi sono nati proprio allora. La fama dell’olio italiano è stata la diretta conseguenza. Altrettanto lo è stato il successo commerciale. C’era tuttavia, in quel tempo, un altro spirito, un altro approccio, ben altre attenzioni. Condivide?

Certo, oggi dobbiamo recuperare l’atteggiamento pionieristico di chi ci ha preceduto, consapevoli del fatto che si parte oggi con il vantaggio di un progresso tecnologico che ci consente di avere piante di olivo più efficienti, con sistemi di coltivazione più funzionali, con tecnologie di frantoio mai sperimentate prima, e una qualità, salubrità e longevità degli oli extra vergini di oliva dai profili chimico-fisici oltre che sensoriali impensabili in altre epoche. Nello stesso tempo non possiamo trascurare il fatto che l’olio ricavato dalle olive sia diventato ormai alimento universale, apprezzato da tutti, e questo deve essere uno stimolo in più per nuovi investimenti.  

Cosa dobbiamo fare, alla luce di quanto ci siamo detti?

Facciamo quel che dobbiamo, e subito anche. Facciamolo facendolo bene, in maniera davvero sinergica e unitaria, senza trascurare quel grande tesoro che non è solo l’olio, costituito da tutte quelle preziose materie prime che rispondono al nome di foglie di olivo, acqua di vegetazione, sansa: non scarti o reflui, da vivere come problema, ma risorse vitali in grado di offrire vantaggi per i loro impieghi in formule innovative e nondimeno grandi opportunità commerciali, assolutamente da non sottovalutare.

E allora, per chiudere questa intervista, da cosa dobbiamo ripartire? 

Ripartiamo dall’essenza, a partire dal valore delle singole materie prime, così da cambiare corso a un comparto – non nascondiamocelo – in grande crisi strutturale e di progettualità. In tanti Paesi si piantano olivi ovunque, con investimenti importanti, segno evidente che l’olivicoltura ha davanti a sé un grande futuro. Ecco, noi di questo futuro dobbiamo ancora farne parte, ma da attori di primo piano, non da comparse. 

In queste settimane i frantoi sono stati impegnati nella molitura. Possiamo chiudere con un messaggio rivolto a una categoria così fondamentale della filiera olivicola-olearia?

I frantoiani sono una categoria fondamentale. In tutti questi anni hanno reso l’olio qualcosa di molto diverso dal passato. Tutti – anche in non esperti - sono ormai consapevoli che non sia sufficiente disporre solo di olive buone, sane, per ottenere un ottimo extra vergine. Tutto si gioca in frantoio, dove la tecnologia e la professionalità esercitano un ruolo determinante. È ai frantoiani che si deve molta parte del miglioramento qualitativo degli oli. Ora, dopo questo salto di qualità professionale, dico loro di essere continuamente aperti all’innovazione. Sono fortemente convinta che ci sia molto ancora da fare, sul fronte delle tecnologie di estrazione. È determinante la collaborazione con i ricercatori, così da giungere a ulteriori e nuovi traguardi. L’invito è a non essere mai diffidenti, ma ad accogliere le novità e a sperimentare. Porto l’esempio emblematico di Pierre Etienne Toussaint Ravanas. Per inquadrarlo si sappia che nacque nel 1796 e morì nel 1870. A lui dobbiamo moltissimo. È stato un solido punto di riferimento, ma fu osteggiato, perché non compresero la portata delle sue innovazioni. Ebbene, l’imprenditore e agronomo francese è stato un grande innovatore nel settore dell’estrazione olearia e, dopo tante avversioni, ebbe finalmente l’appoggio concreto del conte Carmine Sylos a Bitonto, la mia città, dove Ravanas aprì il primo frantoio alla provenzale costituito da molazza a doppia macina e pressa idraulica. Ecco, fu la grande svolta per il settore estrattivo. Quello che è seguito da allora in poi lo conosciamo bene, e io credo che ci sia molto altro da fare, sia sul piano tecnologico, sia sul fronte meno considerato del design. Sì, perché siamo tenuti a concepire in modo diverso dal passato i frantoi. Così come è avvenuto per le cantine, anche i frantoi dovrebbero essere pensati e concepiti da architetti e designer, in modo che li rendano non soltanto funzionali ma anche esteticamente attrattivi. Occorre concepire frantoi da frequentare tutti i mesi dell’anno, con spazi di accoglienza, punti vendita dove oltre alle bottiglie di olio vi siano anche i libri sull’olio, come pure una oggettistica dedicata, oltre che sale di assaggio, una sala cucina professionale per sperimentazioni con chef, e, qualora fosse possibile, spazi pure per incontri pubblici, mostre d’arte, concerti. Il frantoio come estensione di campi d’interesse è una grande sfida, ma che va non solo immaginata, ma portata avanti. Sarebbe un grande elemento di discontinuità con il passato, un modo per rendere l’arte di estrarre l’olio più vicina alla gente.

In apertura, foto di Olio Officina, all'interno, il ritratto è di Gianfranco Maggio per Olio Officina