Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia, non lascia spazio a equivoci. In attesa di festeggiare i 25 anni della Guida agli Extravergini 2025, annuncia di aver posto “un limite importante: non sono state prese in considerazione le aziende che fanno superintensivo”.
È una dichiarazione di principio irremovibile e perentoria: “Le nostre guide non si limitano a valutare la bontà di un prodotto, ma a valorizzare il lavoro che ci sta dietro, le storie delle persone, il rispetto per l’ambiente e il sociale”.
Si desume di conseguenza che chi ha deciso di coltivare gli olivi secondo la logica dell’alta densità non rientri in queste caratteristiche.
Saranno forse persone deplorevoli, ingorde e cattive?
Prosegue, Barbara Nappini.
“Con le nostre pubblicazioni vogliamo dare messaggi chiari e utili: a valle, certo, segnalano prodotti e materie prime di qualità, ma a monte creano sistemi locali del cibo, con ricadute positive sul piano economico, sociale, ambientale e paesaggistico. Il sistema di oliveto superintensivo sta proponendo un approccio altamente tecnologico e produttivistico alla coltivazione degli olivi che non tiene in considerazione questa cornice sistemica. È necessario sensibilizzare i produttori sui rischi di questo sistema con motivazioni concrete, come ad esempio la scelta di non inserire in Guida gli oli da impianti superintensivi a partire da quest’anno. Un passaggio politico importante che Slow Food ha voluto intraprendere sperando porti a una riflessione costruttiva su questo fenomeno”.
Non ho alcuna intenzione di polemizzare, ma resta il fatto che inquieta moltissimo l’idea di una scelta così azzardata, repressiva e antistorica. L’olivicoltura non è mai stata una, ma plurale e molteplice nei suoi modi di manifestarsi. Tutte le olivicolture, siano esse tradizionali o moderne, sono necessarie, e le scelte agronomiche e gestionali si decidono in base alle varie circostanze e ai contesti in cui si opera.
Che senso ha opporsi alla diversità?
Mi spiace moltissimo per Slow Food.
Una realtà associativa che seguo con grande attenzione e rispetto, e che reputo una risorsa importante e significativa per il Paese, non può lasciare soli e abbandonati a se stessi tutti quegli olivicoltori – pochi, purtroppo – che in un’Italia immobile da ben oltre quattro decenni, con le sole personali risorse di cui dispongono – poche, e senza nemmeno l’apporto morale delle istituzioni – stanno tentando in qualche modo di modernizzare un settore vetusto, quello olivicolo, pesantemente arretrato e ormai sfinito per mancanza di visione e progettualità.
L’alto tasso di abbandono degli oliveti è il segnale che in tanti decenni nessuno ha ancora colto in tutta la sua gravità. Il fatto che una olivicoltura arretrata non sia più in grado come tale di garantire la necessaria sostenibilità economica deve far riflettere e spingere ad agire di conseguenza. L’olivicoltura italiana ha bisogno di nuove energie e investimenti e leggere la manifesta ostilità di Slow Food verso chi spinge verso il cambiamento lascia interdetti.
Nata sotto i migliori auspici, sempre aperta all’inclusione (almeno, così sembrerebbe), vedere oggi questa stessa associazione escludere, rifiutare, ghettizzare e perfino criminalizzare i pochi coraggiosi agricoltori che stanno tentando di risollevare le sorti di una olivicoltura ormai alle corde, mi sembra non soltanto grave in sé, ma addirittura antistorico.
L’Italia olivicola sta progressivamente scomparendo dai radar internazionali. Non consentire al Paese di tentare nuovi approcci e risollevarsi dall’inarrestabile declino, pur senza escludere la propria storia, la propria identità, mi sembra un atteggiamento – permettetemi di dirlo – puerile ma nel contempo anche offensivo e discriminatorio.
Che senso ha opporre un netto rifiuto a chi pratica in Italia l’olivicoltura ad alta densità?
In un contesto internazionale che vede protagonisti vincenti ormai tanti Paesi emergenti, desiderosi di rendere i propri campi coltivati a olivo un modello di innovazione in linea con i tempi e le opportunità che la tecnologia offre, che senso ha penalizzare i pochi volenterosi che hanno il coraggio di investire e crederci?
Perché questa ostilità? Perché tanti pregiudizi?
Qualità, biodiversità e sostenibilità si possono declinare in tanti modi.
L’olivicoltura ad alta densità non è nemica dei valori in cui crede Slow Food, ma è un modo differente di giungere e coltivare gli stessi valori. Trattare con disprezzo gli olivicoltori non in linea con una visione nostalgica, passatista, retrograda, antistorica e antiscientifica dell’agricoltura non è un buon segnale. Questo atteggiamento non inclusivo e discriminatorio non apporta nulla di buono, sottrae semmai opportunità, intelligenza, risorse, economia, socialità, rispetto delle persone delle loro identità.
L’alta densità degli impianti olivetati consente agli stessi olivicoltori di destinare le necessarie risorse per ripristinare oliveti tradizionali abbandonati, salvaguardare posti di lavoro, avvicinare ai lavori di campagna persone che fuggono l’agricoltura perché antieconomica. Tanta olivicoltura estrema, d’alta quota, eroica, può essere salvata dalle risorse provenienti da una olivicoltura più moderna e redditizia. Perché, sì, guadagnare dal proprio lavoro è cosa lecita e giusta. Non occorre vergognarsi di poter ricavare il giusto reddito praticando una olivicoltura che guarda al futuro, tanto più che le risorse ben distribuite rendono possibili le coltivazioni più svantaggiate.
Perché ignorare la bellezza della diversità?
Perché penalizzare persone serie e oneste che lavorano e credono fortemente in ciò che fanno?
Un po’ di umiltà, cari dirigenti di Slow Food.
Vi prego, non umiliate chi lavora e investe per pura ideologia.
Il mondo è bello perché vario. Siate inclusivi, non belligeranti.
Ripensateci, per l’edizione 2026.
In apertura, una foto di olivi ad alta densità in Italia. Non riportiamo la fonte per evitare atti di ostilità contro le imprese