Saperi

Noi, i cactus e l’universo. Tutto in natura ha un suo ordine

Cactus, piante grasse, succulente, agavi, fichi d’india ci insegnano l'arte del sopravvivere. Anche quando si adattano come sculture viventi in un ambiente infausto, l’ordine matematico della crescita non perde il ritmo della composizione. Nella sopravvivenza, coltivano una opinione di sé austera, logaritmica, essenziale. ll cactus è una parte del carattere del sud: paziente nelle attese, parco nei consumi, capace di adattarsi, perseverante, impassibile nelle difficoltà

Stefania Morgante

Noi, i cactus e l’universo. Tutto in natura ha un suo ordine

Cactus, piante grasse, succulente, agavi, fichi d’india. Qualunque nome gli diamo, nel nostro immaginario sono spine su spine, aculei spiraliformi, frutti e fiori fastosi e caldo, tanto caldo. Per giorni, per mesi, per anni.

La terra scolora, si consuma, diventa sabbia. E più il terreno sbiadisce, più loro sfoggiano verdi smeraldi, verdi acqua, verdi acidi.

Il sole li acceca, ma loro imperturbabili stanno immobili, continuando l’esistenza con un ritmo di crescita per noi impossibile da sostenere anche solo col pensiero. A volte ci sopravvivono, diventando maestosi guardiani che testimoniano tempi lontani.

Rimangono fermi a fare da quinta al paesaggio che muta e misteriosi continuano a vivere anche senza di noi. Indispensabili sono il caldo, il silenzio, il vento, l’umidità. E la solitudine.

“Dialoghi”, Stefania Morgante

La loro calma, se le condizioni atmosferiche sono felici, fa dei balzi quantici che scardinano la lentezza a cui ci abituano da sempre. All’improvviso crescono, si moltiplicano, fioriscono. Occupano spazio fra terreni pietrosi privi di qualsiasi nutrimento, oppure nelle fessure di muri scrostati e fatiscenti. Testimoni di un passato forse glorioso, ma ora completamente distrutto.

Nella devastazione dello spazio, loro ricreano giardini composti, geometrici, ordinati. Puntellano gli sgretolamenti con braccia spinose, assecondano la bellezza rimasta esaltandola oppure la occultano dietro pale e rami. Ricostruiscono città vegetali che rimarginano ferite umane desolanti. E nonostante queste crescite vertiginose, improbabili, su terreni e case senza speranza, loro crescono beffardi e autosufficienti.

Quando meno te lo aspetti, mentre sembrano immutabili, forse morti, di certo impassibili, ecco che si scatenano le fioriture che sono imponenti, scenografiche quasi chiassose. Ma durano l’arco di poche ore, come uno spettacolo che dà il meglio di sé perché chissà se avverrà la replica.

O ancora escogitano un altro stratagemma: fioriscono di notte, quando il sole non li illumina. Profumati, enormi, in grande quantità. Nessuno li vede, godono di se stessi senza altro spettatore se non gli altri compagni.

È un pubblico di eletti e come tali, godranno di uno spettacolo unico.

Le loro foglie sono grasse, succulente, carnose. Oppure rigide, verticali, sottili, come pugnali affilati.Ogni ramo ogni pala ogni braccio si incorona di spine, di aghi, di pelurie, come pettinature cristallizzate nei vapori del caldo.

“Fichi rosa”, Stefania Morgante

Le piante desertiche hanno colori cupi come se ombreggiassero se stesse, autosufficienti. E seguono un ritmo di forme cadenzato e matematico. Turgide e tese, immagazzinano l’acqua che arriva dalla rugiada del mattino, dall’umidità della notte. Serbatoi misteriosi come vene vegetali, sotterranee ossa molli che sostengono le mucillagini, preziose diramazioni interne come canali di scolo.Tutto un sistema idraulico barocco e interno ai fusti che noi neppure immaginiamo. Ma esiste e irrora il corpo della pianta, incurante delle alte temperature e della scarsità di piogge.

Si difendono dagli attacchi con aculei armoniosi e geometrici e lanugini consistenti. Le piante grasse, le succulente, i cactus, le agavi, non hanno paura dei luoghi in cui vivono e si adattano con pazienza al tempo. Le forme dipendono dalla funzione naturale che è di difesa e di sopravvivenza: nascono da strutture semplici, elementari: spirali che si espandono, frattali, echi di Fibonacci. Da un cactus al suo fiore, fino ai pianeti in cielo. Tutto in natura ha un suo ordine matematico. Noi, i cactus, l’universo. E anche quando si adattano come sculture viventi in un ambiente infausto, l’ordine matematico della crescita non perde il ritmo della sua composizione.

Ad ogni pala di fico d’india le sue spine ordinate, ad ogni cactus il suo nuovo braccio asimmetrico, ad ogni petalo succoso una nuova pianta identica a quella madre, solo in miniatura. Nella sopravvivenza, coltivano una opinione di sé austera, logaritmica, essenziale.

Dalla Puglia alla Sardegna punteggiano lo spazio ingegnandosi ogni mese dell’anno per sopravvivere. Perché ai periodi di grande siccità, dove perfino l’umidità della notte evapora in grande fretta ed è difficile catturarla con le spine – che sono le vere foglie – con le radici che qualche volta sono in superficie per catturare l’acqua, corrispondono periodi di piogge torrenziali, dove in agguato è la fine per troppa acqua.

La morte fa parte della vita ogni singolo istante: morire per troppa acqua, morire per mancanza di acqua. E nel mezzo, ingegnarsi per imparare ad adattarsi ed esistere nel miglior modo possibile.

“Cactus rosa”, Stefania Morgante

Ho abitato in luoghi in cui il sole gridava per molte ore durante il giorno. Isole in mezzo al mare, penisole a sud verso la Grecia.Venti, luci, umidità diverse. In ogni luogo il sole faceva un chiasso davvero eclatante, che provocava le vertigini.

Ma come in ogni luogo estremo, bastava osservare la natura per capire come vivere. Ripararsi in silenzio dagli attacchi del caldo, non sprecare energie, creare una barriera per proteggersi, riflettere la luce, costruire l’ombra e la penombra, sussurrare per non sprecare acqua corporea, cercare ovunque l’acqua e farne riserva.

Le zone arse e assolate del sud in cui ho vissuto, mantengono tutte questa bellezza geometrica, sobria, decisamente rigorosa. Cattedrali in vegetazione che accolgono il nuovo abitante ignaro di tanta fatica.

E quest’ultimo, come io stessa ho potuto provare, è scrutato e messo sotto esame. Perché nulla è semplice, anche la forma più elementare richiede cura e rispetto, silenzio. E tempo e molta costanza. Il cactus è una parte del carattere del sud: paziente nelle attese, parco nei consumi, capace di adattarsi, perseverante, impassibile nelle difficoltà.

Una quiete profonda e imperturbabile che avvicina piante e persone. Ed entrambi mitigano vita e paesaggi aspri e indolenti nella fuggevolezza della vita, la nostra, nell’impassibilità quasi eterna, la loro.

In apertura, e all’interno, le illustrazioni sono dell’autrice del testo, Stefania Morgante ©. Ed esattamente, in apertura: “See you down the road”: all’interno: “Dialoghi”; “Fichi rosa”, “Cactus rosa”. Tutti i diritti sono riservati

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