Saperi

Con cuore maligno e superbo

Racconto. Davide Lazzaretti e la sua comunità, in gran parte composta da contadini, artigiani e mendicanti. Erano avanzati a mani nude, intenti a pregare, con nessuna intenzione bellicosa, nonostante quel che si dicesse in giro di loro. Il giorno della sua morte appariva elegante e maestoso, alla testa del corteo. "Ti ammazzeranno", ma lui avanzò senza esitare

Luigi Caricato

Con cuore maligno e superbo

Vi dico ancora che tutti i peccati saranno perdonati. Gli adulterii, le
fornicazioni, i furti, i sacrilegi, le bestemmie; ma non saranno perdonati
quelli contro lo Spirito Santo; che anzi saranno castigati quelli che si
opporranno alla mia Missione con cuore maligno e superbo.

David Lazzaretti

“Non c’è più pace nel mio cuore” – pensa tra sé e sé Carola.
E’ seduta con il corpo immobile, la bocca cucita, lo sguardo perso.
E’ stato uno strazio indicibile, una indegnità senza giustificazione credibile.
“Vigliacchi assassini” – avevano urlato i seguaci di Davide Lazzaretti prima di allontanarsi sfiduciati e senza più voce. Il luogo dell’omicidio era ormai deserto, dileguate anche le forze dell’ordine, loro armate di tutto punto, come se dovessero affrontare un esercito nemico. Gli altri, il popolo di Davide, composto in gran parte da contadini, artigiani e mendicanti, erano avanzati a
mani nude, intenti a pregare, nessuna intenzione bellicosa, nonostante quel che
si dicesse in giro.
Salve o madre di Vittoria – cantavano – Figlia altissima di Dio.
Ma anche la Madonna si era ben presto allontanata di fronte allo scenario che
appariva appena giunti all’ingresso di Arcidosso.

Le avvisaglie c’erano già state: “Guarda che ti vogliono far fuori”.
Ma Davide non volle saperne, le sue intenzioni erano buone. Le ingiustizie verso contadini e pastori si consumavano plateali, già a partire dalla balorda imposta sul macinato voluta da quello spegnivite di Quintino Sella. Il Ministro delle Finanze del nuovo Stato unitario puntava al pareggio del bilancio, raschiando dalle pance vuote dei più miserevoli. Quelli che si nutrivano di solo pane, pasta e polenta, potevano soltanto tuffarsi nella fede quale unica consolazione. C’era però chi sperava in un futuro diverso, se non addirittura migliore; tanto che il proposito di ambire al pane quotidiano era divenuto un intento non poi così velleitario, almeno per alcuni di loro.
Per i fedeli guidati da Davide Lazzaretti, ad esempio.

“Nooo!” è stato l’urlo lacerante che si è udito nel momento in cui Davide è crollato a terra. La mattina del 18 agosto 1878 una raffica di colpi spense ogni speranza, ma seguì, inevitabile, un incontenibile moto di rabbia di cui tutti ebbero paura. I carabinieri per primi. Le loro gambe tremolanti arretrarono e si dettero alla fuga sparando colpi in aria, in basso, di lato, a caso, per intimorire gli astanti. Nessuno intendeva però attaccare i militari.
“Hanno assassinato un uomo perbene, hanno fatto fuori il santo dell’Amiata” – inveivano disperati, insieme con la gente dei villaggi che si era accodata al seguito di Lazzaretti.
La massiccia partecipazione alla processione aveva disorientato. Il corteo era già stato autorizzato e tutto era in regola con le disposizioni richieste dalla Prefettura. Si doveva seguire un itinerario ben preciso, dal Monte Labbro alla volta dei santuari mariani di Arcidosso e Castel del Piano. Non erano mancati gli intoppi, ma il Profeta non volle saperne; e così decise di procedere orgoglioso, lo sguardo assorto, rivolto al cielo.

Le voci si rincorsero di paese in paese. “Luridi infami!” era l’invettiva più bonaria fra le tante in strada nei primi accenni di rivolta, ma l’incredulità dominava ancora i seguaci del Profeta dell’Amiata. Agitati, incapaci di reagire, temevano di finire come il loro capo e ossessi pregavano blaterando suoni incomprensibili.
“Oh Dio! Oh Dio! Oh Dio!”, neanche il tempo di riprendere fiato, che già era stato impartito l’ordine di rastrellare il territorio. Cercavano uomini, donne e bambini, senza distinzione. Su di loro gravava la colpa di appartenere alla comunità cristiana del Monte Labbro.
“Tornate a casa” – gridò il sacerdote don Filippo Imperiuzzi, barba nera e fluente, con indosso ancora la lunga tunica bianca utilizzata per la processione. “Oh Dio, tienilo in vita, preservalo!” implorava lo sguardo cupo.
Davide respirava ancora. Bussavano di casa in casa, ma nessuno pensò bene di aprire. Dietro gli usci la diffidenza e l’ottusità di chi non conosceva compassione mortificavano ogni speranza.

“Davide! Davide! Apri gli occhi, guardami!” – implorò la moglie, la voce tremula, mentre cercava con altri fedelissimi di rianimarlo. Non c’era nemmeno un medico. Carola quasi soffocò dalla disperazione: “Oh, il mio Davide!” riuscì solo a dire, la gola quasi prosciugata, le gambe malferme e nemmeno uno sputo di lacrima in viso. Il cuore dell’uomo batteva lento, a singhiozzo.
“Potrebbe farcela” – tuonò rassicurante il fraterno amico Raffaello Vichi. Era però necessario estrarre i bossoli in tutta fretta, disinfettare le ferite. Non ottennero nulla di nulla, nemmeno in ginocchio dal farmacista del paese. Solo un limone riuscirono ad avere lungo il tragitto, per misericordia. Parte del succo la versarono diritta nello squarcio aperto sulla fronte, poi decisero di riportare il Maestro sul Monte Labbro da dove erano partiti.

Gli occhi al cielo, Carola si segnava puntualmente con le dita della mano destra congiunte a riccio, tutte le volte che lui la salutava. Un rito che si ripeteva ogni mattina, nel timore di perderlo da un momento all’altro. “E’ ancora vivo” – diceva. “Non me l’hanno ammazzato”, e si riappacificava non appena lo scorgeva lontano nella sua imponente e massiccia figura, mentre tutti accorrevano per abbracciarlo.
I contadini interrompevano il lavoro, pur di andargli incontro e lui, paziente, a spiegare i suoi progetti, le idee. Nelle sue parole si placavano le pance affamate, la vendetta e la disperazione. E quelle parole davano frutti, come La Fratellanza cristiana: un fondo comune, contributi settimanali dei soci per l’acquisto all’ingrosso di cereali, poi rivenduti al prezzo di costo con vantaggio per tutti. Le campagne coltivate insieme garantivano a ciascuno migliori condizioni di lavoro e un buon reddito. Due scuole elementari erano nate per istruire il popolo.

“Fermiamolo, perdio! Vuole rivoluzionare tutto” e il prefetto Cotta Ramusino pensò bene di mandare un proprio uomo fidato, tale Cesare Riccardi, per stanarlo.
Il giorno della processione Davide Lazzaretti appariva elegante e maestoso alla testa del corteo. Alcuni tra i più fedeli amici cercarono di dissuaderlo.
“Ti ammazzeranno”, ma lui avanzò senza esitare. Fino all’ingresso di Arcidosso, non oltre. Un drappello di carabinieri gli impose di fermarsi, dietro di lui almeno tremila persone e nessuno che avesse armi o pietre, nulla di nulla. Un gran numero di curiosi si assiepavano lungo la via.

Davide Lazzaretti si bloccò, scuro in volto, alla vista dei militari. Intimò ai suoi di smettere di cantare. I carabinieri, impauriti, si strinsero fianco a fianco. Il loro comandante, Carlo De Luca, non riuscì nemmeno a guardare negli occhi il Profeta. Bianco in volto per l’emozione, riuscì appena a dire, a bassa voce: “To-to-torna indietro. Scio-sciogli il corteo”.
Avvolto nel celeste mantello foderato di rosso, “Ecco il mio petto, sono io la vittima! Lasciate in salvo il mio popolo” – Davide urlò. Dalla folla intorno partì qualche mugugno. C’erano perfino alcuni notabili del paese, giunti in carrozza sul posto per assistere di persona all’arresto dell’impostore. Senza pensarci due volte il comandante sparò, facendo cilecca. Non ebbero fortuna nel prendere la mira nemmeno gli altri carabinieri, pur così vicini all’uomo che intendevano abbattere. Poi una confusione di spari. Che ci stava a fare l’assassino Antonio Pellegrini con i delegati della Pubblica sicurezza? E perché lui, l’unico a riuscire nel bieco proposito, era con i carabinieri pur essendo un bersagliere in licenza?

“Oh Dio! Oh Dio! Oh Dio!”. La sua gente vagava; dovevano stanarli tutti, per essere sicuri che non si sarebbero vendicati, per evitare che la comunità proseguisse nei propositi del Fondatore. Li presero ad uno ad uno, senza difficoltà: ciascuno di essi aveva la consuetudine di marchiare beni, animali e abitazioni, con uno strano simbolo voluto dal Maestro: due lettere C contrapposte, congiunte da una croce piazzata nel mezzo.
Non avevano nulla da nascondere. Tutto, lassù sul Monte Labbro, avveniva alla luce del sole. Eppure l’infiltrato Cesare Riccardi nella sua relazione scrisse parole terribili. Accolto a braccia aperte, Davide gli si era aperto senza reticenze.

Alcuni morirono in prigione, non si sa perché. Gli altri tutti assolti in primo grado e con formula piena. Le infamanti accuse di ribellione alle leggi, di tentato saccheggio e, addirittura, di sovversione del governo del paese, si erano dimostrate prive di fondamento.
Lei non aveva più pace. Carola aveva solo occhi imploranti pietà, in un lacerante mutismo che l’accompagnò fino alla tomba. Ai figli Turpino e Bianca fu offerto un lavoro presso l’ufficio postale di Arcidosso, a riparazione del danno.
In quel sogno, però, ancora ci credono in tanti e ogni mattina volgono lo sguardo verso il Monte Labbro.

Questo racconto è integralmente tratto dall’antologia Tutti dicono Maremma Maremma. Venti scrittori italiani ne raccontano la terra, le persone, gli umori, edita nel 2010 dalla Provincia di Grosseto, in collaborazione con Edizioni Effigi.

L’antologia curata da Luigi Caricato, comprende i racconti, inediti, di Roberto Barbolini, Laura Bosio, Luigi Caricato, Andrea Carraro, Guido Conti, Maurizio Cucchi, Carlo D’Amicis, Andrea Di Consoli, Omar Di Monopoli, Francesca Duranti, Antonio Franchini, Nadia Fusini, Bianca Garavelli, Silvana Grasso, Daniela Marcheschi, Giuseppe Pontiggia (inedito pubblicato postumo alla scomparsa, nel 2003, dell’autore), Lidia Ravera, Ugo Riccarelli, Clara Sereni e Alessandro Tamburini.

Con i racconti dell’antologia Tutti dicono Maremma Maremma, c’è la dichiarata intenzione – espressa da Luigi Caricato – di invertire la rotta e occuparsi finalmente del mondo agricolo, ambientando storie, immaginarie, o realmente accadute, che abbiano come teatro la campagna. Lo scopo, neanche tanto velato, è di risvegliare un interesse diverso e nuovo all’interno dello stesso mondo intellettuale, prima ancora che tra i lettori.

Per approfondire la conscenza di Davide Lazzaretti cliccare QUI e QUI

La foto di apertura è di Maria Carla Squeo

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