Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

“Cantami o Musa”: la musica nell’antica Grecia come espressione di civiltà

Un complicato quanto necessario linguaggio, che fin dalla sua nascita ha saputo guarire l’animo umano, sollevandolo dai dolori. Per gli antichi greci era una forma d’arte necessaria, che accompagnava il teatro, la filosofia e l’educazione nel suo più ampio significato. Ma il canto poteva anche essere portatore di follia, come racconta il mito delle Baccanti. Un potere bellissimo e tremendo, quello della musica

David Fiesoli

“Cantami o Musa”: la musica nell’antica Grecia come espressione di civiltà

Nell’antica Grecia, un dio suonava la Lira. E nove dee erano le protettrici delle arti, arti che si riunivano sotto un solo nome: Musica.

Che nell’antica Grecia racchiudeva tutte le arti, tanto che le nove dee si chiamano Muse, ed erano evocate da cantori, poeti, tragediografi, commedianti, attori e musicisti.

Ma anche dagli sportivi, dagli scienziati e dai filosofi.

Omero inizia il racconto delle gesta degli Eroi con un canto alla Musa.

Per Platone era la Musica, insieme alla Ginnastica, la base dell’educazione per i governatori della sua Città Ideale.

Per Aristotele, la Musica era una medicina per l’animo.

Nella Grecia classica, la Poesia non era mai disgiunta dalla Musica, e nelle Commedie e nelle Tragedie aveva una funzione importantissima il Coro, che risuonava nei teatri a forma di conchiglia.

Quindi, tra mito, letteratura, teatro e filosofia, scopriremo che la Musica per gli antichi Greci era espressione di vita comunitaria e felice: quindi, di civiltà.

In Grecia, la musica e il canto furono accompagnamento di cerimonie, incantesimo che guarisce, inno agli Dei, educazione alla filosofia, armonia dell’universo, e veicolo di ogni forma d’arte.

Ogni evento si ammantava di musica.

Ad esempio, e prima di tutto, i giochi e le feste dedicate agli Dei. Come le Efesie, in onore di Artemide, le Delie, in onore di Apollo, le Panatenee in onore di Atena, la festa pitica a Delfi, che iniziava con gare musicali, canti accompagnati dal flauto, e un inno alla lira.

E poi i giochi istmici a Corinto in onore di Poseidone, i giochi panellenici che riunivano tutte le città della Grecia e naturalmente le Olimpiadi arrivate fino a noi.

In queste feste, le prodezze musicali diventavano man mano sempre più raffinate, e sempre più questione di professionalità individuale: ma sopravviveva sempre su tutto l’orgoglio collettivo per quella vita comunitaria e felice di cui la musica era l’espressione più alta, un’espressione di civiltà che si legava strettamente non solo al culto degli dei nelle feste religiose o a quello del corpo nelle gare sportive, ma anche e soprattutto alla poesia, al teatro, alla letteratura, alla filosofia, che erano veicolate e accompagnate dalla musica come l’acqua sul letto di un fiume.

Perfino la scienza si ammantava di musica: come vedremo, Pitagora accostò la musica sia alla matematica che all’astronomia.

Onnipresente in tutte le attività della vita quotidiana, che fosse religiosa o politica, per i Greci la musica è stata non soltanto la più bella delle arti, ma anche l’oggetto delle più alte speculazioni filosofiche. Tutta la Grecia, si potrebbe dire, risuonava di musica. Tanto che la parola “musica” deriva dal greco mousiké, che significa “arte delle Muse”, e le Muse erano le dee di tutte le arti. Quindi, la musica non solo come arte suprema e superiore, ma anche come insieme di tutte le discipline artistiche, di tutte le arti delle Muse, che in quanto arti provenienti dalle divinità erano perfette.

Il mito è fatto di quelle cose che non avvennero mai ma sono sempre; il mito greco è la spiegazione del mondo, la più alta che sia mai stata tentata dall’umanità, da cui derivano filosofie intere, scienze e arti.

E allora al mito, e alle Muse, dobbiamo rivolgerci anche noi, per compiere questo viaggio nella musica.

“Cominciamo il canto dalle Muse”, oppure “Cantami o Musa del pelide Achille”: così, con l’invocazione alle Muse, iniziano la Teogonia di Esiodo e l’Iliade di Omero, che sono i poemi più antichi della civiltà greca e dunque occidentale.

La Teogonia di Esiodo narra della nascita degli dei e del mondo proprio partendo dal canto delle Muse, e l’Iliade di Omero racconta come tutti sappiamo la madre di tutte le guerre, quella tra Greci e Troiani, invocando la Musa perché lo assista nel racconto.

Sì, perché le Muse, che erano nove, erano figlie di Zeus e della Musa suprema, la dea Mnemosyne, che era la dea della Memoria.

E considerando che i poemi antichi si trasmettevano oralmente, andavano di bocca in bocca, e si recitavano per generazioni, la dea della Memoria doveva per forza assistere chi si occupava di tramandare i poemi epici, come quelli di Omero o quelli di Esiodo.

Fino a quando qualcuno, un giorno, aiutò la dea Memoria e li trascrisse interamente, facendo in modo che arrivassero fino a noi.

Ma chi eano le Muse? Uno dei massimi grecisti del Novecento, Walter Friedrich Otto, ha dedicato loro un libro e le ha descritte così: «Le Muse hanno un posto altissimo, anzi unico, nella gerarchia divina. Son dette figlie di Zeus, nate da Mnemosyne, la .,.Dea della memoria; ma ciò non è tutto, perché ad esse, e ad esse soltanto, è riservato portare, come il padre stesso degli Dei, l’appellativo di olimpiche, appellativo col quale si onoravano sì gli Dei in genere, ma – almeno originariamente – nessun Dio in particolare, fatta appunto eccezione per Zeus e per le Muse».

Le Muse, che erano nate e dimoravano sul monte Olimpo, erano anche dette Eliconie perché conducevano i loro girotondi di danza sul monte Elicona, nella regione greca della Beozia, e lì si accompagnavano al dio Apollo, dio delle arti e delle scienze, che era la loro guida e suonava la lira.

E se Walter Otto narra la loro origine con accenti divini e olimpici, Roberto Calasso, nel suo splendido libro sul mito greco, Le nozze di Cadmo e Armonia, le racconta invece così:

“Le Muse erano fanciulle selvagge dell’Elicona. Fu Apollo a farle migrare sulla montagna di fronte, il Parnaso; fu lui a educarle ai doni che fecero di quel gruppo di fanciulle selvagge le Muse, quindi le donne che invadevano la mente, ma imponendo ciascuna le leggi di un’arte”.

Se le divinità femminili, da Atena ad Artemide, da Era ad Afrodite, ebbero sempre un’importanza quasi superiore a quelle maschili o almeno pari a quella di Zeus e Apollo, la Musa come divinità preposta all’arte rappresenta l’essenza stessa dello spirito greco e della sua civiltà, e non importa se in origine fosse una fanciulla selvaggia o una dea olimpica.

Perché la Musa, e quindi la musica, significa invadere la mente, portare conoscenza e verità come dono divino, e svela la bellezza e l’essenza delle cose: il poeta, il cantore, colui che canta e suona, è soltanto un mediatore, e talvolta un profeta, proprio per quell’invasione della mente che può arrivare al misticismo profetico attraverso la musica.

Le Muse attraversano il poeta e il profeta, in modo che possa cantare gli dei e la loro gloria, l’origine di tutte le cose, e il destino mortale degli uomini. In fondo, è ancora questo che fanno – o dovrebbero fare – la musica e tutte le arti: elevano lo spirito e affinano le percezioni.

In un bassorilievo, chiamato Apoteosi di Omero, un anonimo scultore del II sec a.C. ha raffigurato Omero in trono nella fascia più bassa, incoronato da varie divinità, e poi man mano che si sale vengono raffigurate tutte le Muse, e, in alto, il loro padre Zeus che conversa con la loro madre Mmemosyne in piedi accanto a lui, mentre una musa accenna un passo di danza.

Nel mito greco, le divinità femminili si presentano spesso in numero di tre o dei suoi multipli: tre erano le Grazie, le Moire, e le Erinni, dodici gli Dei dell’Olimpo, e nove sono le Muse.

Che all’inizio erano tutte uguali, nel loro presiedere alle arti.

Solo nella tarda grecità, ovvero nel periodo in cui la Grecia classica decadeva sotto il dominio romano, e si apriva invece quel fenomeno estetizzante detto ellenismo, le Muse ebbero la loro specializzazione artistica: Clio divenne la musa del canto epico, Euterpe la musa del canto lirico, Talia la musa della commedia, Melpomene della tragedia, Tersicore della danza, Erato del canto corale e della poesia d’amore, Polimnia del canto sacro, Calliope dell’elegia e Urania dell’astronomia e della geometria.

Ma tutte continuavano a cantare.

E proprio nel canto, le Muse erano superiori a qualsiasi essere umano poiché conoscevano alla perfezione non solo il passato e il presente, ma anche il futuro.

Sono le Muse che afferrano i mortali e donano loro quella follia che comporta l’elevazione e l’illuminazione dello spirito, in modo che diventi possibile il miracolo del canto e della poesia, che nella Grecia antica era musica: “scendi a me, Musa, dal tuo rifugio celeste”, è l’invocazione di Saffo.

I poeti della Grecia classica, i cosiddetti Lirici Greci, erano Saffo, Alceo, Ibico, Archiloco, e Alcmane, solo per nominare i più famosi.

Si racconta che uno di loro, Archiloco, abbia incontrato le Muse mentre portava una mucca dal pascolo al mercato: lungo il cammino, notò una schiera di donne e pensando che tornassero dal lavoro rivolse loro parole maliziose, e loro risposero allo scherzo prendendolo in giro e chiedendogli se stesse portando la sua mucca al mercato.

Poi si offrirono di comprargliela loro, a un prezzo adeguato, ma prima che Archiloco potesse rispondere, le donne e la mucca svanirono, lasciando ai piedi di Archiloco una cetra, che da quel momento accompagnò le sue poesie, e fu questo prezzo adeguato, fu questo il modo in cui le Muse dissero ad Archiloco di smetterla di allevare mucche, e invece scrivere versi e cantarli, perché lui era un poeta.

Infatti, i versi dei lirici greci, che ci sono giunti in frammenti, venivano cantati o accompagnati dalla musica, da strumenti a corde, e hanno la capacità di elevarci come se ci spuntassero delle ali, anche soltanto a leggerli: “Ardano attraverso la notte lungamente le stelle lucentissime”, è un frammento di Ibico tradotto da Salvatore Quasimodo, o come questo frammento di Alcmane: “Ruppero il canto le fanciulle / Come uccelli quando fulmineo / appare sopra d’essi lo sparviero”.

Oppure Alceo: “O conchiglia marina, figlia della pietra e del mare biancheggiante, tu meravigli la mente dei fanciulli”.

Soltanto a leggerli, anche a noi oggi seppur senza musica sembra di sentir cantare: ed era esattamente questa l’idea di musica che avevano i Greci antichi, era il ritmo, la melodia già insita nelle sole parole.

La lingua greca antica aveva accenti e spiriti, declinazioni, aperture e chiusure, che la rendevano ritmica e melodica anche senza musica, tanto che c’erano regole ortografiche e grammaticali diverse per ogni disciplina artistica.

Anche la tragedia greca, che nell’Atene classica era uno spettacolo seguitissimo e dalle forti valenze sociali oltre che religiose, nasce secondo Aristotele da coloro che cantano il ditirambo, ovvero da un canto in onore di Dioniso che poi si sarebbe trasformato da canto corale in spettacolo teatrale con personaggi che dialogavano oltre che cantare, almeno fino a quando Eschilo non codificò le regole del dramma, poi rinnovato da Sofocle e da Euripide: ma il coro nelle tragedie greche continuò ad avere un valore fondamentale, con quindici coreuti che cantavano accompagnati dalla musica, e accennavano anche passi di danza, come un personaggio collettivo che partecipa alla vicenda tanto quanto gli attori, con differenze anche nel linguaggio: il dialetto attico, quello parlato, per le parti recitate, e il dialetto dorico, quello letterario, per le parti cantate.

Il canto per i Greci era una costruzione spirituale.

Nel regno di Apollo e delle Muse, la musica e il canto non nascono dall’esaltazione del sentimento, non hanno nulla di sentimentale, ma nascono dalla percezione e dall’osservazione del mondo, dall’esperienza e dalla sua costruzione vitale, canto e musica sono annunciatori del vero, veicolo di conoscenza, e sono connessi al linguaggio che eleva l’uomo verso il sapere: per questo Socrate può affermare che la filosofia è la più alta arte delle Muse, e nasce proprio dalla musica. Infatti Socrate prese lezioni di musica.

Ma prima di conoscere i legami della filosofia e della scienza con la musica, entriamo nella vita quotidiana dei Greci e vediamo come si faceva musica nell’antichità, senza inoltrarci troppo in questioni troppo tecniche, ma per capire quale fosse la sua grande importanza.

I greci usavano diversi strumenti, ma i più comuni erano la lira sacra ad Apollo, l’aulòs, che era uno strumento a fiato sacro a Dioniso, e le percussioni come i tamburi o i cimbali.

Il ritmo musicale e quello poetico erano uguali: la durata delle note dipendeva dalla breve, che equivale all’odierna croma, e dalla lunga, che è l’odierna semiminima, e le scale erano basate su gruppi di quattro note di intonazione discendente, detti tetracordi: le scale di sette note erano formate dall’estensione di due tetracordi ed estese per coprire due ottave.

Abbiamo già detto come per i Greci la musica fosse espressione di vita comunitaria, fatta di piacere e legame sociale, politico e religioso al tempo stesso.

E infatti le maggiori manifestazioni in cui si cantava e si danzava erano manifestazioni pubbliche: ricordiamo che a Roma, che dalla Grecia eredita tutta la cultura più alta, il latino Lucrezio vedeva nella musica la vera conquista dell’uomo civilzzato.

In Grecia le feste pubbliche erano tutte all’insegna della musica, sia che si trattasse di sacrifici agli dei, sia che si trattasse di banchetti, o di processioni accompagnate dalla danza, o del canto dei soldati prima di una battaglia.

I due canti corali più antichi di cui si ha notizia sono il Peana e il Ditirambo.

Il Peana poteva essere cantato da un coro o da un solista, solo da voci, oggi si direbbe a cappella, o con l’accompagnamento di strumenti musicali.

Il Ditirambo era soprattutto un canto in onore di Dioniso, dio della vita che scorre, dell’ebrezza vitale e anche del vino, ed era uno spettacolo vero e proprio con due cori di almeno cinquanta uonini ciascuno, danzatori e strumenti musicali.

Era invece un coro di donne e di ragazze il Partenio, di solito in onore di qualche dea, Hera, Atena o Artemide: e a cantare erano ventisette vergini divise in tre gruppi di nove.

E non mancavano poi le gare musicali, con premi per i migliori musicisti e cantori, alla fine di ogni festa.

Alle gare sportive si cantavano gli Epinici in onore del vincitore, nel giorno stesso della vittoria, oppure durante un banchetto, davanti alla porta di casa del vincitore, o anche davanti all’altare di qualche divinità: e talvolta era la città stessa ad affidare a un poeta la scrittura del testo che poi veniva cantato e suonato dai musicisti.

Va da sé poi che si cantasse nei funerali e nei matrimoni: nei funerali si intonavano canti detti Trenodi, ed erano spesso veri e propri cori professionali.

Nei matrimoni un gruppo di ragazzi e ragazze accompagnavano la sposa dalla casa del padre a quella del marito cantando e danzando al suono di flauti e cetre, e questo canto si chiamava Imeneo.

Ma esisteva anche un altro canto da suonare proprio davanti alla stanza nuziale, mentre i due sposi consumavano il matrimonio, e questo canto si chiamava Epitalamio, e poteva andare avanti anche tutta la notte: serviva ad augurare felicità e protezione divina agli sposi.

A proposito di divinità, il mito greco racconta che il flauto fu un’invenzione di Pan, e che Apollo, il dio della cultura e della musica, suonava la lira accompagnato dalle Muse.

Cimbali e tamburi suonavano per Dioniso, mentre Atena prediligeva la cetra.

Ma è Apollo il dio raffigurato con la sua lira, o con la sua cetra, in vasi, dipinti e sculture, come in un’anfora del VII secolo a. C. ritrovata a Melos, che lo raffigura con la lira mentre incontra sua sorella Artemide, o sulle monete di Delfi, dove nel santuario più importante della Grecia il dio della musica diventava il dio della profezia.

Racconta l’Inno omerico ad Apollo che, quando Apollo salì per la prima volta sull’Olimpo, suo padre Zeus gli offre una coppa di nettare “e subito tutti gli Dei non si curano d’altro che della cetra e del canto. Le Muse che, tutte insieme, rispondono con la loro bella voce, cantano gli immortali privilegi degli Dei e la sorte miserabile degli uomini”.

A quel suono e a quel canto, si unisce la danza: iniziano a danzare prima le Cariti e le Ore, poi la dea dell’amore Afrodite e il dio della guerra Ares che si spoglia delle sue armi, e la loro figlia Armonia che li segue: amore e guerra sono così accordati al suono armonico della musica.

Tuttavia Apollo si guadagnò il titolo di dio della musica non senza sforzo, e grazie ad un furto.

Perché a inventare la lira fu un altro dio, Hermes, quando dopo aver rubato la mandria sacra di Apollo usò le interiora di due vacche come corde per il guscio di una tartaruga, e inventò così la lira.

Apollo infuriato per il furto delle mandrie lo inseguì nella grotta di Maia, la madre di Hermes, ma appena sentì il suono di quello strumento propose ad Hermes il baratto: ti lascio la mia mandria se tu mi dai in cambio la lira che hai costruito.

E così la lira diventò lo strumento del dio delle arti e della musica, che con la lira accompagnava le danze delle Muse.

Ma Hermes, oltre che essere il messaggero degli dei, era il dio dei pastori, delle montagne e dei pascoli, perfino dei briganti, e nel contempo era il dio viaggiatore, quello che univa addirittura il mondo dei vivi e quello dei morti, accompagnando le anime verso il regno sotterraneo di Hades e Persefone.

Quindi era un dio innanzitutto molto popolare, che univa mondi interi con la leggerezza dei suoi piedi alati.

Ed è significativo che sia lui l’inventore dello strumento principale dell’antica Grecia, poi donato a un dio luminoso e altero come Apollo.

Tutto questo ci parla dell’origine popolare della musica come suono di uguaglianza primordiale umana e divina, che poi con Apollo diventa anche disciplina altissima e foriera di alta educazione alle arti e alla filosofia, come vedremo.

Uno strumento assolutamente democratico e trasversale fin dalla sua origine divina.

Il dio Pan, che era il dio della campagne e dei pascoli e che alcuni dicono figlio di Hermes, un giorno si mise a inseguire una Ninfa che si chiamava Syrinx, ma lei, per sfuggirgli, si tramutò in un giunco, in una canna.

E quando il vento soffiò tra quelle canne, Pan sentì quella malinconica melodia che il vento produceva accarezzando le canne, passandoci attraverso: allora Pan ne prese alcune, ne tagliò sette pezzi di lunghezza decrescente, e ancora oggi quello strumento si chiama flauto di Pan.

Fu invece Atena ad inventare il flauto semplice, e lo costruì con delle ossa di cervo.

Ma quando lo suonò ad una delle tante feste degli Dei, rimase sorpresa e infastidita, perché vide Afrodite e Hera che ridevano, silenziosamente, nascondendosi il viso fra le mani, e la prendevano in giro.

Eppure, Atena suonava benissimo. Allora Atena si appartò, per suonare da sola in un bosco, nei pressi di un ruscello, e osservò la sua immagine riflessa nell’acqua mentre suonava, e così si accorse che suonando le si gonfiavano le gote e le diventava paonazzo il viso.

Per questo Hera e Afrodite ridevano.

Non sia mai che una dea diventi tanto ridicola: Atena gettò via il flauto maledicendolo.

E fu un satiro a trovare il flauto di Atena, il satiro Marsia: non appena lo portò alla bocca, quello strumento divino iniziò a suonare quasi da solo.

E allora Marsia lo portò con sé, al seguito della dea della natura Cibele, ed era talmente bravo a deliziare i contadini con il suo flauto, che si convinse di essere un musicista molto più bravo di Apollo.

Ma questo atto di superbia gli costò la vita: Apollo lo sfidò a una gara e, una volta sconfitto, lo uccise.

Guai infatti a sfidare gli dei: ritenersi migliori di una divinità per i Greci era il peccato supremo, loro lo chiamavano hybris, che significa “tracotanza”, “superbia”, e non era una questione di vanità divina, ma di armonia del mondo.

Infatti peccare di hybris significava superare i limiti, imposti dalla natura, dagli dei, o dall’altro da sé.

Il principe spartano Tamiri, ad esempio, si vantò di superare nel canto perfino le Muse, e le Muse lo privarono della vista, della voce e della memoria.

Rispettare i limiti e non oltrepassarli significava preservare l’armonia del mondo e del cosmo, e il primo passo da fare era proprio non sfidare gli Dei, che per definizione sono immortali, e nessun mortale può ritenersi a loro superiore senza pagarne il prezzo.

E a proposito di Armonia, secondo alcuni miti le Muse erano figlie di Zeus e Armonia, che a sua volta era la figlia di Afrodite, dea dell’amore e della bellezza di tutte le cose.

Ma oltre che un’arte praticata dagli dei, la musica per i Greci è un sapere pratico e una scienza: a Sparta e a Tebe musica e politica erano talmente unite che furono promulgate delle leggi per regolamentare l’educazione e la pratica musicale.

E ogni cittadino di Atene doveva saper suonare la lira, mentre la citara (da cui deriva la nostra chitarra) era lo strumento riservato ai professionisti della musica.

I ragazzi ateniesi, dopo aver imparato a scrivere, leggere e contare, andavano per tre anni a studiare dal citarista, che insegnava loro a suonare la lira e più in generale la musica.

Era una pratica sia vocale che strumentale, e non mirava a formare dei professionisti, ma a completare l’educazione con il sapere musicale, perché l’istruzione musicale era una componente fondamentale della civiltà greca.

Poi, chi voleva diventare professionista, seguiva scuole specifiche che si trovavano in determinate città e imparava anche a scrivere la musica e approfondiva così la pratica con gli insegnamenti teorici.

C’erano addirittura due termini diversi per distinguere l’educazione musicale dalla musica professionale: tà mousikà significava la musica professionale, ed è mousiké la musica come cultura generale.

Se i musicografi insegnano la tecnica musicale, e i cosiddetti Armonici in sostanza insegnavano a suonare uno strumento, i teorici della musica sono collegati direttamente alle scuole filosofiche dell’antica Grecia: in pratica, non c’è teorico della musica che non sia anche filosofo, e non c’è scuola filosofica che non abbia elaborato una vera e propria dottrina della scienza musicale.

I Pitagorici avevano teorizzato una vera e propria scienza della psicoterapia musicale, con un programma giornaliero di canti e musica: al mattino, quando si alzavano, per preparare l’animo alla giornata, e alla sera, prima di dormire, per purificarsi delle preoccupazioni del giorno e prepararsi ai sogni profetici.

Per i Pitagorici, infatti, la musica si relazionava strettamente all’animo umano, e ogni tipo di musica riproduce un certo stato d’animo: è la dottrina dell’Ethos, che la filosofia greca sviluppò e che è arrivata fino a noi, che siamo abituati a collegare la musica con la variabilità degli stati d’animo.

In ogni caso, le varie dottrine musicali della Grecia classica si scontrarono perfino tra loro, dal punto di vista filosofico: lo scontro più importante fu proprio quello tra la scuola di Pitagora e quella di Aristòsseno di Taranto.

Pitagora e i pitagorici sostenevano che la musica fosse sorella stretta della matematica e dell’astronomia, perché la consideravano come scienza dei rapporti numerici che regolano gli intervalli, e pensavano che l’universo fosse strutturato secondo un ordine perfetto definito dai numeri.

Perfino i pianeti e le stelle erano posti nella volta celeste con una armonia numerica talmente grande da generare una musica straordinaria, la Musica Armonica o Musica delle Sfere.

In questo ordine cosmico, anche l’animo umano deve penetrare per poter partecipare a questa perfezione: la musica per i pitagorici era la manifestazione principale di questo ordine perfetto, a cui l’uomo poteva accostarsi.

La musica come l’essenza stessa dell’universo.

Quindi, per i pitagorici, la scienza musicale dipende dalla fisica, ovvero da quella scienza che regola l’ordine del cosmo e regge l’universo intero, e ricorre alla matematica per esprimersi.

La musica, sostanzialmente, è dunque matematica, che l’orecchio avverte come perfezione: per questo i pitagorici esortavano a suonare solo la lira a sette corde, i cui accordi sarebbero l’immagine dell’ordine dei sette pianeti. In questo modo, attraverso la musica, si partecipava all’ordine del mondo.

Ma il filosofo Aristòsseno di Taranto, che era discepolo di Aristotele, ribaltò le cose: fondò per la prima volta una scienza musicale indipendente dalla matematica, autonoma e retta di principi propri, e fondata su due criteri che erano la percezione uditiva e il pensiero razionale.

Per Aristòsseno l’armonica è la prima delle scienze musicali.

Così, addio al calcolo degli intervalli: l’oggetto della scienza armonica diventa il suono musicale in se stesso, e non più la grandezza matematica.

Nella musica si consuma così una vera rivoluzione, e siamo nel 325 a. C.

Anzi, oltre che una rivoluzione fu proprio uno scisma: i filosofi e i teorici della musica, da questo momento e per molti secoli a venire, si divisero in seguaci della teoria matematico musicale di Pitagora e in seguaci della dottrina armonica di Aristòsseno, almeno fino al secondo secolo dopo Cristo, quando un tentativo di conciliazione fu fatto da Claudio Tolomeo che però non riuscì a unire le due tradizioni.

Non entreremo ovviamente in questa disputa tutta basata su numeri e parti armoniche, basti accennare due cose: la prima, che da questi studi derivano definizioni arrivate intatte fino a noi, come diapasòn, che in greco antico significa “attraverso tutte le corde” e indica l’ottava, oppure diesis, che significa “divisione’’ o “passaggio’’ e indica i semitoni.

E la seconda cosa è ricordare che Pitagora, durante la persecuzione dei Pitagorici, morì nel santuario di Metaponto dedicato alle Muse, dove si era rifugiato.

Le scuole filosofiche non si fermano comunque ad indagare la musica dal punto di vista scientifico, ma la indagano anche dal punto di vista morale.

Per Platone, che immaginava una città ideale in cui i governanti fossero filosofi educati alle discipline più perfette, era proprio la musica, insieme alla ginnastica, una delle discipline di base per poter governare una città con la necessaria saggezza e dirittura etica e morale.

Nell’Accademia fondata da Platone, gli allievi si riunivano in un santuario dedicato alle Muse, detto Mouseion, termine da cui derivano i nostri musei.

Tuttavia Platone, proprio per la dirittura morale che doveva donare la musica, raccomandava alcuni strumenti e non altri, che corrispondevano a due diversi modi musicali: il modo dorico, sì, perché corroborante per lo spirito, quello frigio, no, perché troppo mellifluo.

Platone sposava in qualche modo la dottrina pitagorica: pensava che il cosmo fosse organizzato da rapporti numerici che erano gli stessi dell’armonia musicale, e definiva la musica come la palestra dell’anima.

Ma Platone era anche molto rigido nel condannare l’arte come strumento di distrazione dalla verità: la musica non doveva essere oggetto di piacere, ma deve essere una scienza soprattutto filosofica, diventando così la più alta forma di sapienza.

Aristòsseno invece nega che la musica possa produrre effetti morali: per lui valgono solo le categorie di bello e di brutto, mentre quelle di bene e male sono estranee alla scienza armonica per come la concepisce lui.

Aristòsseno infatti era discepolo di Aristotele, che riteneva che la musica fosse medicina per l’anima: non bisogna vedere nella musica una sola fonte di giovamento, ma molte, sosteneva Aristotele, perché la musica può essere educazione, purificazione, ma anche piacevole passatempo, riposo, e ricreazione del corpo e dello spirito.

Contrariamente a Platone, Aristotele vedeva nella musica una funzione senza dubbio educatrice, ma anche di svago: un concetto abbastanza vicino al nostro.

Semplificando, si può dire che oggi siamo abbastanza lontani dal punto di vista di Platone sulla musica come studio della teoria musicale, mai contaminata dai sensi, ed educatrice filosofica di un’élite di sapienti e futuri governatori di città, mentre siamo vicini al concetto aristotelico di musica come piacere e anche medicina dell’anima, quindi anche più democratica: tuttavia, negando fin troppo il punto di vista platonico, abbiamo decisamente perduto sempre di più lo studio della musica e della sua teoria, che nelle scuole è sempre più assente, come se la democratizzazione della musica significasse abbassarla a oggetto di piacere e basta, invece che innalzarla anche a educazione filosofica per tutti.

Aristotele, che comunque disprezzava i musicisti di professione considerati volgari, riteneva la musica un’arte nobile e liberale proprio perché la collegava all’ozio, ai momenti liberi dal lavoro e dalle attività quotidiane: e così Aristotele riabilita completamente la musica pratica, e suonare uno strumento torna ad essere una parte importante nell’educazione giovanile, fonte non solo di sapienza, ma anche di spensieratezza.

Ma il canto non sempre era riposo e benessere: nella Grecia antica poteva essere anche un rombante portatore di follia, e un melodico filo conduttore tra la vita e la morte, fatto di suoni.

Tutti ricorderete le Sirene: figlie del fiume Acheloo e della musa Melpomene, erano per metà donne e per metà uccelli, e con il loro bellissimo canto stregavano i viandanti finché non morivano.

Mentre loro erano destinate a morire soltanto nel momento in cui un viandante avesse resistito al loro canto, e fu Odisseo.

Nelle Fenicie di Euripide la Sfinge rapisce i giovani con un canto.

E anche le Baccanti cantavano e suonavano ebbre e folli, con il loro coro sfrenato nelle processioni in onore di Dioniso, il dio liberatore: potevano essere pericolose assassine, ma sapevano anche far sgorgare fonti di acqua, di vino, e di miele.

Il potere bellissimo e tremendo della musica lo conoscevano bene anche i cantori più celebri del mito greco: Lino e Orfeo.

Un mito che proviene da Argo narra che sia stato Lino il primo poeta a ricevere l’arte del canto e della musica, e secondo Esiodo sua madre era proprio la musa Urania.

Lino fu l’inventore della melodia, e quando Apollo gli regalò la Lira fu lui a sostituire il budello animale con fibre vegetali e a migliorarne così il suono.

Poi, peccò di quel peccato che in Grecia era l’affronto supremo: la hybris, la superbia e la tracotanza di ritenersi migliore di un dio, di superare i limiti imposto dalla natura ai mortali, e allora Apollo lo uccise, ancora giovanissimo, perché aveva osato affermare di essere migliore del dio delle arti e della musica.

E così, il nome Lino diventò un canto triste e antico, che si diffuse per tutta la Grecia e celebrava la fine della primavera.

La musica come unione di vita e morte riguarda anche il mito di Orfeo: Orfeo era l’artista per eccellenza, il musicista nato in Tracia, il figlio di Apollo e della musa Calliope istruito proprio da Apollo e dalle Muse nel suono della lira, e capace di incantare donne, uomini, animali e perfino gli dei, tanto che aveva anche fama di sciamano.

Pindaro lo chiama “il molto lodato signore dei canti”, Il suo non era un modo convenzionale di fare musica, perché attraverso la sua melodia riusciva perfino a arrestare il corso dei fiumi, a smuovere le montagne, ad ammansire le belve, e a trasportare l’anima lungo i sentieri oscuri della morte, placando i lamenti dei defunti, tanto grande era il potere della sua musica. Riusciva perfino a neutralizzare il potere ammaliante delle Sirene, come fece quando prese parte alla spedizione degli Argonauti.

Il primo riferimento a Orfeo arrivato a noi si trova in un frammento del poeta lirico Ibico, vissuto in Magna Grecia nel VI secolo a.C. M successivamente, dal mito di Orfeo nacque l’orfismo, una disciplina esoterica e filosofica che credeva all’immortalità dell’anima, auspicava una vita di purezza per potersi reincarnare, venerava Apollo, Dioniso e Persefone, e aveva come punto d’inizio la musica.

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