Corso Italia 7
Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of LiteratureDiretta da Daniela Marcheschi
Dalla favola alla realtà
Ritornare ai classici. La tradizione favolistica occidentale ha un'antica origine che si fa risalire alla figura mitica di Esopo, una sorta di corrispettivo popolare di Omero. A partire dalle sue opere, molti animali risulteranno così fortemente caratterizzati e associati a valori tali che non sarà possibile ignorarne la portata nelle epoche successive
Animali e tradizione favolistica
In tutta la tradizione iconografica medievale l’animale appare soggetto a una forma di straniamento che ne fa qualcosa di diverso da ciò cui la natura l’ha chiamato: simbolo, portatore di superiori significati, attributo di santi. Più ancora che nel mondo antico, esso è diventato altro rispetto al suo ruolo naturale: non più vittima sacrificale, vede però sacrificata la propria identità in nome di qualche altro valore di cui si fa portatore. In questo senso, l’animale del Medioevo è in una condizione assai simile a quella che gli viene attribuita nella tradizione favolistica antica, anch’essa orientata verso un’interpretazione dell’animale non in quanto tale, bensì come ruolo rigidamente prefissato nel quale far confluire un insegnamento morale.
La tradizione favolistica occidentale ha un’antica origine che si fa risalire alla figura mitica di Esopo: una sorta di corrispettivo popolare di Omero, capostipite del genere così come Omero lo è di quello epico. Agli eroi omerici Esopo contrappone i suoi modesti, popolari, quotidiani personaggi, macchiette più che figure nitidamente definite nei loro contorni; e in gran parte, appunto, animalesche. A partire da Esopo molti animali risulteranno così fortemente caratterizzati e associati a valori tali che non sarà possibile ignorarne la portata nelle epoche successive. Raccogliendo evidentemente un patrimonio ricchissimo fatto di tradizioni popolari e di racconti orali, questo insondabile personaggio (“Nulla di certo sappiamo sulla nascita di Omero e di Esopo”, scrive Massimo Planude, dotto bizantino del XIV secolo, nella sua Vita di Esopo) definisce per i secoli a venire le caratteristiche di ogni singolo animale. Le convenzioni che in tal modo si stratificano saranno destinate a durare per secoli e a rimanere indelebilmente associate alle figure degli animali protagonisti dei brevi racconti, perché, come ebbe a scrivere Concetto Marchesi, “le storie raccontano cose che accadono, se mai, una volta sola; le favole raccontano cose che accadono sempre”. La classificazione degli animali che emerge dalle favole esopiche, se da una parte riflette convinzioni popolari diffuse nel mondo greco, dall’altra avrà larga fortuna e seguito in tutta la tradizione occidentale. Così, per esempio, alcuni animali compaiono a simboleggiare nobili sentimenti, come il leone, l’aquila e il cavallo, altri lasciano trapelare un atteggiamento umile o qualche volta gretto o meschino, come la rana, il topo, la formica, altri ancora sembrano suggerire la personificazione della saggezza popolare, come la scimmia o la volpe.
Il messaggio di morale spicciola e la caratterizzazione degli animali che affiorano nelle favole esopiche avranno una fortuna enorme in tutta la tradizione letteraria successiva, non solo nel campo favolistico e del racconto popolare, fino alle favole di La Fontaine, ma anche nella definizione dei caratteri propri degli animali che emerge nei bestiari medievali.
Il Medioevo ci ha lasciato infatti un notevole numero di opere di tipo didattico-morale destinate a raccogliere la descrizione dei caratteri fisici e morali di animali reali e immaginari. Sono, appunto, i bestiari, nei quali sono elencati molto spesso anche i significati simbolici di ogni animale. Il prototipo e il modello dei bestiari del Medioevo si suole individuare nel Fisiologo, opera composta tra fine II e inizio III secolo dopo Cristo in greco e successivamente tradotta in varie lingue, tra cui il latino. Nato probabilmente in ambiente ebraico-cristiano, questo prototipo offriva un’interpretazione delle funzioni specifiche di animali, piante e pietre viste alla luce dell’insegnamento biblico e cristiano. L’opera ebbe un enorme successo e la grande diffusione dei bestiari latini testimonia della fortuna di cui godettero le trattazioni di carattere allegorico, simbolico e persino magico. Perché indubbiamente, se pur partite da intenti scientifici, le numerose riprese del Fisiologo nei bestiari del Medioevo lasciano trapelare, più che un anelito alla conoscenza scientifica, il dominio della tradizione popolare spicciola e delle credenze magiche, religiose e superstiziose: un patrimonio di dati e conoscenze che sarebbe per noi altrimenti perduto per sempre. Il secolo VI vide la nascita di un Liber de natura bestiarum opera di Giovanni Crisostomo; esso funse a sua volta da modello e capostipite per molti bestiari successivi (la massima diffusione dei bestiari medievali si può collocare intorno al XII secolo), in diversi paesi, dalla Germania alla Francia alle regioni anglosassoni. Molti di essi furono redatti in lingua volgare. Il Bestiario moralizzato di Gubbio del sec. XIII, composto di 64 sonetti, è uno dei primi esemplari in lingua italiana che ci sia noto. L’importanza dei bestiari medievali è centrale soprattutto in quanto ad essi attinsero molte compilazioni di tipo enciclopedico del periodo medievale; e perché essi fornirono un repertorio di immagini codificate nei loro significati simbolici agli artisti romanici e gotici.
Animali ed economia nel mondo antico
Al di là degli aspetti mitici, religiosi e artistico-letterari, il mondo antico aveva nei confronti degli animali un atteggiamento improntato prima di tutto alle necessità pratiche. Gli animali – in una fase di civiltà già passata dalla caccia e dalla raccolta all’agricoltura, all’allevamento e ai commerci, qual è quella del mondo antico in età storica – erano allevati per ricavarne nutrimento e per farne importanti compagni del lavoro. La forza di cavalli, asini, muli e buoi era una delle uniche risorse di cui l’antichità classica disponeva non solo per arare i campi, far girare le macine dei mulini e svolgere i diversi lavori legati all’agricoltura, ma anche per tutte le esigenze di trasporto, in pace come in guerra. I carri trainati da muli (più raramente da cavalli) e da buoi trasportavano non soltanto gli uomini ma soprattutto le merci; e attraverso numerose fonti letterarie, non di rado venate di sfumature polemiche (per esempio le satire di Giovenale) possiamo avere un’idea delle conseguenze che questo tipo di mezzi di trasporto poteva avere sull’aspetto e l’atmosfera della vita in una città come Roma: l’infernale rumore delle ruote piene che rotolavano sulle strade di pietra, lo scalpiccio degli zoccoli, gli escrementi degli animali che pavimentavano le vie, dovevano rendere le passeggiate per le strade di maggior traffico di Roma tutt’altro che piacevoli e non esenti da quei problemi di inquinamento, anche acustico, che oggi tanto lamentiamo.
Per i trasporti individuali erano di solito adoperati i cavalli, direttamente montati con bardature che attraverso le descrizioni delle fonti e le immagini nelle opere d’arte romane ci è possibile ricostruire con una certa precisione. I carri, veri sostituti delle odierne automobili, erano solitamente trainati da muli anche quando si trattava di veicoli destinati alle più alte autorità dello stato. I cavalli erano attaccati ai carri solo in circostanze particolari, come le corse o le sfilate di carattere rituale e politico legate, per esempio, alla celebrazione dei trionfi degli imperatori.
Il possesso di un cavallo era una discriminante importante nel definire l’appartenenza di un individuo a una classe sociale fin nelle età più antiche della storia greca e romana. A Roma, la classe degli equites era appunto quella che poteva permettersi di mantenere ed equipaggiare di tutto punto un cavallo; il possesso di un animale del genere era fondamentale soprattutto a fini bellici. La cavalleria, nel mondo greco ma più ancora in quello romano, divenne un elemento importantissimo dell’esercito. L’imperatore, come vediamo dai rilievi di importanti monumenti celebrativi, combatteva di solito a cavallo (diversamente da quanto avveniva agli albori della società greca, dove, come dimostra l’Iliade, gli eroi si spostavano sul carro trainato da cavalli sul campo di battaglia, ma poi combattevano prevalentemente a piedi). I monumenti più grandiosi e imponenti dei grandi personaggi dell’antichità sono statue equestri, nelle quali l’intento non è tanto quello di riprodurre un dato di fatto – l’imperatore che cavalca – quanto quello di sottolineare l’importanza e l’autorità del personaggio ponendolo in sella a un animale che viene sentito come particolarmente fiero e nobile. Da questo punto di vista, l’asino non è che un parente povero del cavallo, come molti passi del racconto di Apuleio nelle Metamorfosi ci lasciano chiaramente intuire. Gli equini avevano anche una loro dea protettrice, Epona, il cui nome è forse di origine celtica.
Se in linea di massima gli animali utilizzati nell’economia romana sono gli stessi che, con poche varianti, si ritrovano anche nelle epoche successive in tutto il mondo occidentale – animali domestici come galline, capre, conigli, pecore, buoi, mucche, maiali, e i citati animali per il trasporto, come cavalli, asini e muli – non mancano usi molto particolari di animali insoliti. È il caso dell’elefante, il più grande e il più intelligente degli animali, con il quale il mondo occidentale venne probabilmente in contatto per la prima volta all’epoca di Alessandro Magno e delle sue spedizioni in oriente. Alessandro lo vide presumibilmente per la prima volta durante la battaglia di Gaugamela nel 331 a.C., nella quale l’imperatore persiano Dario si presentò con quindici elefanti; più tardi il governatore di Taxila gliene donò venticinque, che egli usò soltanto come mezzi di trasporto. L’incontro più drammatico tra Alessandro Magno e gli elefanti dovette avvenire sul fiume Idaspe, che i Greci ebbero grosse difficoltà ad attraversare perché il re Poro aveva schierato sulla riva opposta un ampio contingente per l’appunto di elefanti. Più tardi, Seleuco, uno dei generali di Alessandro e fondatore della dinastia seleucide, fece tesoro di quell’esperienza, creò una speciale armata nel suo esercito montata su elefanti e assunse l’elefante come simbolo della propria casata.
L’elefante ebbe un ruolo di primo piano anche nell’esercito di Pirro, re dell’Epiro, chiamato in soccorso dai Tarentini contro le mire espansionistiche di Roma nel 280 a.C. Quando nel 275 Pirro fu sconfitto, gli animali sopravvissuti vennero portati a Roma e fatti sfilare durante il trionfo del console vincitore, Manio Curio Dentato: era probabilmente la prima volta che i romani vedevano un animale del genere, e poiché la sua prima comparsa in Italia era avvenuta sul suolo della regione che veniva allora chiamata Lucania, gli elefanti vennero dai romani ribattezzati “vacche lucane”. Sormontati da una turrita struttura atta ad ospitare i combattenti, come ci mostra un piatto laziale dipinto, da Capena, del III secolo a.C., gli elefanti si rivelarono uno strumento di battaglia prodigioso. I Cartaginesi, e Annibale più di tutti, ne fecero largo uso.
Animali decisamente più ordinari e consueti nella vita pratica erano i cani, allevati dai romani come cani da pastore, da caccia e da guardia; quest’ultimo uso è testimoniato dal celeberrimo mosaico bianco e nero di Pompei con la scritta cave canem e la raffigurazione di un cane alla catena. Le fonti letterarie confermano che l’uso del cane da guardia era ampiamente praticato: Lucrezio descrive nei dettagli i Molossi importati in Italia per questo scopo e spesso lasciati a guardia delle case deserte (“deserti baubantur in aedibus“, De rerum natura V, 1063-72) e Petronio introduce nella descrizione della cena in casa di Trimalcione un molosso enorme.
Pesci, crostacei, molluschi, e uccelli di ogni tipo erano allevati o catturati per arricchire le tavole dei gaudenti romani. Varrone ci spiega che era consuetudine tenere pesci vivi in apposite piscine piene d’acqua, vivaria, e sappiamo che questa tradizione si conservò per lungo tempo nella tarda antichità e nel Medioevo. L’usanza, secondo Plinio, sarebbe da far risalire a Licinio Murena, nel II secolo a.C., il quale si guadagnò il suo soprannome appunto dal pesce che aveva l’abitudine di tenere sempre pronto nella sua vasca.
Nel caso degli uccelli, alle delizie del palato si affiancava per i romani più abbienti il piacere della bellezza del piumaggio e della soavità del canto; nell’iconografia gli uccelli sono più spesso gli abitatori variopinti delle scene di paesaggio che non le ghiottonerie di una tavola imbandita. Per contro, animali selvatici come i ghiri venivano espressamente allevati per ricavarne manicaretti deliziosi, e Varrone ci spiega anche in quale modo venissero tenuti in prigionia e fatti ingrassare perché le loro carni risultassero più tenere e saporite.
Un enorme traffico di natura economica e commerciale ruotava poi intorno agli animali catturati e allevati non per l’alimentazione ma per lo svago: nel mondo romano, specialmente in età imperiale, gli spettacoli del circo, le corse dei carri trainati da cavalli e da cani, le lotte fra galli e fra cani e innumerevoli altre forme di intrattenimento avevano al loro centro animali di ogni tipo. Ricordarne brevemente le caratteristiche significa evocare uno degli aspetti più interessanti ma non di rado anche più brutali della civiltà romana.
Animali e intrattenimento in età romana
L’idea di trarre diletto e divertimento dagli animali non compare per la prima volta nel mondo romano. Nelle regioni del Vicino Oriente, come si è già accennato, la caccia cessò presto di venir considerata esclusivamente un mezzo per procacciarsi il cibo e rimase semplicemente, con la sedentarizzazione delle popolazioni, un modo per integrare una dieta ma ancor più spesso il passatempo più aristocratico al quale si dedicavano i principi. Le grandi cacce ricordate nel mito classico (alla cerva, al cinghiale calidonio, al toro di Maratona e così via) non fanno che riflettere la popolarità di cui l’attività venatoria godeva nel mondo greco.
Se i romani non si possono considerare gli inventori della caccia come passatempo dilettevole, sono però, tra i popoli antichi, quelli che vi si dedicarono con maggiore slancio e dispendio di energie e di denaro. Soprattutto in età imperiale disponiamo di una ricca documentazione relativa alle cacce dei sovrani. Gli animali più esotici venivano fatti arrivare da regioni remote dell’impero, catturati da esperti indigeni, caricati sulle navi e trasferiti a Roma, dove finivano nei grandi parchi privati nei quali l’imperatore, e pochi altri ricchissimi cittadini con lui, si dilettavano ad inseguirli e catturarli. Una concezione della caccia come passatempo gratuito e aristocratico che i romani lasceranno in eredità anche al mondo medievale.
Nel mondo romano, tuttavia, la caccia si colora di significati simbolici. Mano a mano che il ruolo dell’imperatore si assolutizza e che il suo rango si allontana da quello dei comuni mortali per avvicinarsi alla sfera divina – cosa che accade in età tardoantica soprattutto – la caccia romana viene assimilata a quello che essa rappresentava nel mondo orientale: un’escursione in un paradeisos privato riservato all’imperatore, una sorta di rituale nel quale il sovrano si scontra simbolicamente con le creature più forti e selvagge e le assoggetta, non diversamente da ciò che nella sua attività militare fa con i popoli nemici che affronta e sconfigge. Un sacrificio suggella la conquista della preda: così la caccia è rappresentata nei celebri tondi adrianei dell’arco di Costantino. La caccia cessa di essere soltanto un’augusta attività ludica per caricarsi di valenze destinate a ribadire la superiorità del sovrano davanti ai suoi sudditi.
Procurarsi animali per le cacce aristocratiche era una professione lucrosa. Lo divenne però in modo particolare quando presero piede in modo sempre più massiccio, a Roma, i grandi giochi del circo, che richiedevano la presenza di quantità impressionanti di animali selvatici di provenienza esotica. I meravigliosi mosaici della Grande e della Piccola Caccia della villa romana di Piazza Armerina, in Sicilia, nascondono sotto la varietà multicolore delle loro tessere finemente accostate una realtà drammatica, la storia di una depredazione senza precedenti del mondo animale in molte regioni esotiche dell’impero. Sono rappresentati animali feroci e selvatici catturati, imbarcati sulle navi da trasporto, fatti sbarcare a Roma: il tutto inquadrato dalle raffigurazioni simboliche delle regioni che di tali razzie erano fatte oggetto: l’Asia, e soprattutto l’Africa, personificata dall’immagine caratterizzante dell’elefante. Come è noto esiste un acceso dibattito sull’attribuzione della proprietà della villa a questo o quel personaggio del primo IV secolo d.C. e una delle ipotesi più seguite è quella che la splendida dimora, sicuramente di uno sfarzo mai visto, appartenesse a Massimiano Erculio, che fu costretto ad abdicare, nel 305, dal suo collega Diocleziano, e che qui si sarebbe ritirato a vita privata. Ma dal momento che Massimiano Erculio non è ricordato come un appassionato di giochi del circo e partite di caccia, sembra per lo meno singolare che soggetti come quelli dei mosaici di Piazza Armerina tornassero con tanta ossessiva frequenza nella decorazione della villa. Sembra perciò ragionevole prospettare anche un’altra ipotesi, che cioè l’edificio appartenesse proprio a uno di quei personaggi che del commercio di animali esotici e rari avevano fatto una ragione di vita e dal quale traevano i mezzi per vivere in una maniera sfarzosa e splendida. Un commerciante che avesse l’egemonia sul mercato delle belve, nel IV secolo a Roma, poteva condurre vita lussuosa quanto quella di un re.
Qualche cifra può rendere l’idea di ciò che i giochi del circo rappresentavano nel mondo romano e del dispendio, in denaro ma ancor più in vite di animali, che essi comportavano.
I giochi del circo e dell’anfiteatro potevano consistere, in qualche caso, nella pacifica esibizione di animali selvatici, fatti vedere alla curiosità del pubblico per la loro stranezza che nasceva dal loro aspetto insolito e dalla loro provenienza esotica; in altri casi si trattava di animali ammaestrati, che divertivano gli spettatori con le loro prodezze. Elefanti, orsi e scimmie venivano spesso utilizzati per scopi di questo genere.
Molto più spesso, tuttavia, in età imperiale i giochi del circo si trasformavano in cruente battaglie fra fiere selvagge e affamate e uomini: i quali potevano essere inermi, come i cristiani mandati al martirio o i criminali condannati a questo tipo di supplizio, oppure essere combattenti di professione (chiamati bestiarii), o ancora essere cacciatori professionisti che mettevano in scena simulazioni di scene di caccia, nelle quali tuttavia gli animali – e talvolta anche gli uomini – venivano uccisi (venationes). La prima venatio di cui si abbia notizia risale al 186 a.C., ma non fu certo la più cruenta. L’imperatore Augusto offrì la bellezza di 26 venationes bestiarum africanarum nel corso delle quali morirono ben 3500 animali; sotto l’imperatore Claudio sappiamo che morirono 300 orsi e 300 belve libiche; all’epoca di Nerone è registrata la strage di 400 orsi e 300 leoni. Negli spettacoli organizzati da Tito nell’anno 80, furono uccisi circa 9000 animali, alcuni dei quali da donne. Il macabro elenco continua con Domiziano, che uccise 100 animali selvatici di propria mano nella sua tenuta sui Colli Albani, e con Traiano, che fece uccidere ben 11000 animali durante le feste in onore del suo trionfo nelle guerre daciche. Il più ricercato in questo tipo di macabro passatempo sembra essere stato Commodo, che a parte il numero elevato di belve e animali selvatici di vario genere che uccise personalmente, pare si divertisse enormemente a decapitare gli struzzi e ad assistere poi agli ultimi spasimi dei loro corpi che, senza testa, continuavano a correre.
Le ultime grandi stragi ricordate dalle fonti antiche sono quelle relative all’imperatore Probo, la cui munificenza nell’allestire i più grandiosi giochi circensi non fu ripagata dalla collaborazione delle sue vittime. In occasione del suo trionfo nel 281 egli fece piantare nel Circo Massimo un gran numero di piante che dovevano servire a ricreare con una certa verosimiglianza un ambiente naturale; e in questa suggestiva scenografia furono liberati 1000 struzzi, 1000 cervi e un altro migliaio di erbivori esotici, tra i quali gazzelle e ibex, ai quali i cittadini furono autorizzati ad avvicinarsi, per catturarli a loro piacimento. Successivamente 100 leoni furono uccisi praticamente ancora dentro le loro gabbie, perché si rifiutavano di uscire e di partecipare ai giochi come ci si aspettava da loro; cosa che suscitò nel pubblico un certo malcontento.
Le fonti registrano nel dettaglio solo le grandi esibizioni e i giochi allestiti dagli imperatori; c’erano poi anche quelli organizzati dalle singole municipalità, in occasioni particolari, certo con minore munificenza. Sommando tutte le vittime dei vari giochi allestiti in ogni epoca nelle varie regioni dell’impero, si totalizzano cifre da capogiro.
Davanti all’entità di questa carneficina, viene da domandarsi come sia possibile parlare di divertimento: e in effetti abbiamo notizia di un caso – uno soltanto – in cui, davanti a uno spettacolo di questo genere, i romani insorsero disgustati. Ma l’evento è unico: risale al 55 a.C., in occasione di un grande spettacolo allestito da Pompeo. In quell’occasione gli elefanti che dovettero fronteggiare uomini armati, a un certo punto, cominciarono a alzare le loro proboscidi emettendo lamentosi barriti che sembrarono un’implorazione di salvezza – così si esprimono le fonti, Seneca e Plinio – e turbarono profondamente il pubblico che dubitò che esistesse una certa affinità di sentire fra l’uomo e l’elefante. Cicerone (Ad familiares, 28 [VII 1], 3) si interroga, riflettendo sulle esibizioni circensi, su quale potesse mai essere il divertimento e il piacere per il pubblico davanti a spettacoli del genere; “magnifici, nessuno lo nega; ma che divertimento può procurare ad un uomo raffinato che un uomo debole sia dilaniato da una belva fortissima o che una splendida bestia sia trafitta da uno spiedo? […] Al vedere gli elefanti si è accesa una grande meraviglia nel popolo e nella folla, ma nessun divertimento; anzi ne è nata quasi una sorta di compassione e quasi l’opinione che quelle belve abbiano qualche affinità col genere umano”. Tuttavia, queste sono le uniche testimonianze che ci siano rimaste di un minimo dissenso da un’usanza profondamente radicata nella tradizione romana, alimentata dal potere e acriticamente assecondata dal popolo.
È indubbio che la sensibilità per il mondo animale che emerge dai dati dei giochi del circo appare completamente diversa da quella che il nostro secolo ha faticosamente fatto affermare anche tra la gente comune. Ma i giochi del circo e dell’anfiteatro non erano i soli tipi di spettacolo in uso presso i romani nei quali si facesse largo uso degli animali.
Gli animali esotici erano utilizzati anche per pura e semplice esibizione. A mano a mano che i confini dell’impero si ingrandivano e che mondi prima mai visti entravano a far parte del dominio di Roma, cresceva la curiosità per le creature insolite e strane che in quelle terre sconosciute vivevano. Le descrizioni di animali favolosi, superiori a ogni immaginazione, non erano sufficienti a far capire ai romani come tali creature fossero veramente; e così, con la stessa curiosità con cui secoli dopo si sarebbero formate le Wunderkammer dei dotti rinascimentali, animali vivi venivano trasportati da regioni lontane fino a Roma ed esposti al pubblico incuriosito in veri e propri giardini zoologici antelitteram. C’erano parchi e giardini con apposite gabbie e voliere, recinzioni e piscine; in altri casi animali esotici venivano portati, al guinzaglio, lungo le strade ed esibiti al pubblico dietro un modesto compenso; animali ammaestrati si esibivano in prove della loro abilità sia nei grandi spettacoli dei circhi sia nella più modesta cerchia delle piazze di paese. Ricchi cittadini romani collezionavano animali esotici e strani e qualcuno di loro li metteva a disposizione della curiosità del pubblico.
L’esibizione di animali, cruenta o pacifica che fosse, era forse il tipo di passatempo preferito dal popolo nella Roma imperiale. Di simile popolarità godevano anche le corse, di cani ma soprattutto di cavalli, e le lotte tra animali (cani, galli). Queste ultime erano ben note anche nel mondo greco: un famoso rilievo arcaico di Atene rappresenta la scena di un combattimento tra cane e gatto, con i padroni che tengono al guinzaglio ed incitano i due contendenti. Le corse dei carri, dal canto loro, sono di origine antichissima, e ancora una volta ci riportano al mondo greco, dove erano nate in contesti legati al culto e spesso ai riti funerari. La corsa dei cavalli è il momento culminante dei funerali di Patroclo nell’Iliade; il Troiae lusus, che è anch’esso corredato da una corsa di cavalli, è la celebrazione dei funerali di Anchise nel racconto di Virgilio; in un contesto rituale si svolgono le corse dei carri ad Olimpia e nei giochi pitici di Delfi.
Nel mondo romano le corse dei carri trainati da cavalli (di solito bighe) rappresentavano uno degli sport più appassionatamente seguiti. Nel circo le corse erano accompagnate da esibizioni di acrobati e sostenute da un tifo accesissimo. I cavalli erano amati come lo sono oggi i grandi campioni delle discipline sportive e un gran numero dei loro nomi propri sono noti da iscrizioni: si tratta di iscrizioni che compaiono su raffigurazioni di cavalli presenti in scene dipinte, realizzate a mosaico o scolpite, ma soprattutto di lapidi che recano elenchi dei corridori o preghiere rivolte dall’una o dall’altra fazione a sostegno dei propri beniamini e ai danni dei cavalli avversari. La quantità di nomi che attraverso queste fonti è stato possibile ricostruire è davvero stupefacente e dimostra il livello di passione che le corse dei cavalli – e i cavalli stessi – sapevano suscitare nel pubblico romano, diviso in fazioni di sostenitori particolarmente agguerrite. Nei mosaici della già citata villa di Piazza Armerina una delicata e sorridente caricatura delle corse delle bighe è rappresentata mediante la raffigurazione di amorini che guidano carri trainati da uccelli.
Accanto agli animali sfruttati come imbonitori del pubblico, quasi fossero attori e clown, si annovera anche nel mondo classico il caso di animali sentiti come deliziosi compagni della vita quotidiana, giocattoli disponibili e vivi, creature bisognose di protezione e di cura. Si sono conservate fino a noi commoventi stele funerarie di età greca e romana dove a rilievo sono rappresentati i defunti accompagnati dai loro animali più affezionati; qua e là, nelle fonti antiche, trapelano accenni ad animali da compagnia (il più famoso è certo quello dell‘Odissea relativo al cane di Ulisse, Argo; notissimo anche il carme di Catullo dedicato al passero della sua Lesbia). Da queste fonti scopriamo che, accanto agli ovvi e banali cani, gatti e uccelletti vari, non era raro il caso che si allevassero specificamente come animali da compagnia colombe, scimmie e persino animali feroci come leopardi. Da questi accenni l’impressione negativa che ricaviamo dalle notizie riportate sopra sui giochi del circo si attenua un poco: resta il fatto che l’approccio del mondo antico nei confronti degli animali era completamente diverso da quello del nostro secolo e che sarebbe antistorico aspettarsi per l’antichità una sensibilità ecologica in senso moderno. La superiorità dell’uomo sulla natura, che il cristianesimo ribadì alla luce del messaggio della salvezza, avrebbe richiesto molti secoli di riflessioni e molte vittime animali prima di lasciare anche a queste creature sentite di grado inferiore il loro posto al mondo e il loro diritto a vivere e ad essere protette e rispettate.
In apertura, Antonio Ligabue, “Gnu”
Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui
Commenta la notizia
Devi essere connesso per inviare un commento.