Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Il sole splende per un incantesimo

La sfida odierna è ritrovare l'antica unione tra cultura scientifica e cultura umanistica, una sacra corrispondenza che ha a che fare con l'enigma e il mistero, sacro tratto d'unione tra la scienza e la poesia. Così si incontrano Henri Mondor e Cristina Campo, Konrad Lorenz e Giacomo Leopardi, Giorgio Parisi e Emily Dickinson, Eugenio Borgna e Simone Weil, G.K.Chesterton e Margherita Hack

David Fiesoli

Il sole splende per un incantesimo

 

La forma compiuta delle scienze dev’essere poetica

Novalis

 

Le due culture, la scientifica e l’umanistica, abitano sotto lo stesso tetto, non c’è una che ogni tanto incontra o diventa l’altra, ma ci sono l’una e l’altra che vanno insieme.  La Musa, o le Muse – nel mito greco una e molte al contempo – sono le divinità che presiedono sia alla poesia che alla scienza ed erano importantissime nella religione greca, che nell’epoca classica ne venerava ben nove: accanto a Euterpe, Erato, Calliope e alle Muse delle varie forme di arte e poesia, stava Urania, “colei che è celeste”, la Musa dell’astronomia e della geometria. Ma le attribuzioni non furono mai fisse, e si allargavano ogni volta a campi diversi della poesia, della prosa e delle scienze.

«La Musa è la divinità del dire il vero nel senso più alto»[1]. Dunque, contrariamente all’assunto dei moderni da Galileo in poi, il vero appartiene sia alla scienza che alla poesia.

Inoltre le Muse, figlie di Mnemosyne (la Memoria) e uniche ad avvalersi dell’attributo di olimpiche insieme al padre Zeus, divennero seguaci di Apollo, che nella Grecia classica era una delle principali divinità, ed era il dio che riuniva in sé le arti e le scienze.

Leopardi parlava del dialogo sempre vivo con gli antichi, che non consola: ma suggerisce, mette in guardia, approfondisce il pensiero, e concilia quello che apparentemente è opposto, come cercavano di fare i primi filosofi dell’antichità, che erano sia letterati che scienziati. Talete, considerato il primo filosofo della storia occidentale, era anche un astronomo e un matematico: si attribuiscono a lui alcuni teoremi geometrici fondamentali, conoscenze astronomiche legate alle eclissi e alle stelle, l’intuizione degli equinozi e dei solstizi.  Nelle culture più antiche, scienza e poesia non erano divise: dai babilonesi agli egizi, fino ai Greci  – non solo con Talete ma anche con Empedocle, Senofane, Parmenide, Pitagora – e poi ai latini con il famoso De rerum natura di Lucrezio. Ma anche dopo le civiltà più antiche, questa unione durò ancora a lungo, fino almeno al XVIII secolo. Nel Medioevo e nel Rinascimento la parola scientia inglobava sia le discipline scientifiche che quelle umanistiche, perché era intesa etimologicamente come tutto quel che riguarda lo scibile umano.

Dunque, se Marìa Zambrano sosteneva che la filosofia deve ritrovare l’antico legame con la poesia[2], ciò vale ugualmente e forse ancor di più per la scienza. E si potrebbe dire, con  Archiloco, di riconoscere e imparare il ritmo che domina l’esistenza degli uomini[3], ovvero l’ordine che limita e regola tanto la vita umana quanto l’Universo, perché non ci sono vittorie o sconfitte, non ci sono risposte definitive e non c’è fine alla ricerca, ma c’è un mondo enigmatico che anche se rivela qualche verità rimane pur sempre immerso nel mistero, silenzioso e sfuggente come la Luna di Leopardi.

Oggi, il famoso fisico Carlo Rovelli afferma che poeti e scienziati fanno lo stesso mestiere, poiché esplorano pezzetti del mistero e creano linguaggi per cercare di afferrarne dei pezzi. Anche Giorgio Parisi, Nobel per la fisica nel 2021, si è espresso nella stessa maniera:  «Scienza e poesia hanno più cose in comune. Innanzitutto, la volontà di conoscere le cose, la natura, l’universo. E poi l’intuizione: scienziati come Poincaré e Einstein si dibattevano a lungo su un problema: non riuscendo a proseguire lo accantonavano, finché, dopo qualche tempo, arrivava l’intuizione risolutiva. Così, guardando un paesaggio dopo aver letto una poesia, si colgono connessioni a cui prima non avevamo pensato»[4]. E non può non venire in mente Leopardi che guarda il paesaggio e da dietro una siepe immagina L’infinito.

L’enigma è il vero tratto d’unione tra la scienza e la poesia. E l’enigma ha sempre a che vedere con il sacro, con la sacralità delle cose, della Natura, del cosmo, del ciclo di vita e morte a cui ogni creatura è sottoposta.

Fin dall’antichità, dunque, scienza e poesia procedevano insieme. Da quando si sono separate?

Prima di cercare di rispondere a questa domanda, riflettiamo su una storia che, in forma di leggenda, riguarda colui che è considerato il primo grande lirico greco: Archiloco, vissuto tra il 680 e il 640 a.C., e di cui ci sono arrivati alcuni versi in frammenti. Mentre andava a vendere una vacca al mercato, sul far del mattino, Archiloco incontrò alcune fanciulle. Credendo che tornassero dai campi in città, iniziò a motteggiarle, con una certa malizia: le fanciulle risero, e gli chiesero dove stesse andando con quella vacca. Al mercato per venderla, rispose Archiloco, e loro gli dissero: il giusto compenso per la tua vacca te lo diamo noi. Dopodiché, com’erano apparse scomparirono, in un lampo, insieme alla vacca, e lasciarono ai piedi di Archiloco esterrefatto una lira, lo strumento con cui tutti i poeti si accompagnavano. Gli ci volle del tempo per capire: aveva incontrato le Muse. Che con quell’apparire e sparire, con quel lampo improvviso che si immagina azzurro, gli avevano intimato di lasciar perdere le vacche e i mercati, perché lui era un poeta, e il suo destino era quello di comporre versi.

E questo destino è stato scolpito nella pietra.

Era il novembre del 1949 quando, durante alcuni lavori di aratura, fu rinvenuta a Paros l’iscrizione che raccontava l’incontro di Archiloco con le Muse, incisa su due blocchi di marmo che testimoniavano l’esistenza, in quel luogo, di un’area sacra dedicata al poeta, nell’isola greca in cui era nato nel VII secolo a.C.: ma la cosa straordinaria quell’iscrizione risaliva al III secolo a.C., ovvero ben quattro secoli dopo la fioritura della poesia di Archiloco, e fu opera di un abitante dell’isola, Mnesiepes,  al quale Apollo vaticinò che sarebbe stato giusto onorare il poeta con un altare.

Dunque, mentre in tempi antichissimi gli dèi ispiravano cittadini a erigere altari a un poeta morto da secoli, nell’era moderna abbiamo allontanato i poeti tacciandoli di pazzia, di psicosi, di depressione, di nevrosi, mettendoli sul lettino di Freud. «Uno schedario di cartelle cliniche nel quale deve rientrare per forza ogni tratto singolare del genio», scrisse Cristina Campo[5].

Abbiamo finito per passare la poesia al microscopio della scienza, e così Leopardi è diventato un povero gobbo depresso e pessimista invece che un ribelle scarnificatore delle verità; Emily Dickinson è diventata una romantica sospirosa o una nevrotica impaurita dal contatto fisico invece che una poetessa talmente avanti rispetto al suo tempo da scegliere la solitudine; Emily Brontë una sociopatica malata di tisi invece che una scrittrice libera e indipendente in un periodo in cui quasi nessuna lo era; Hölderlin uno schizofrenico quando a chiuderlo nella torre di Tubinga fu piuttosto il contesto storico e culturale in cui si trovò; Virginia Woolf una nevrotica suicida che però si tolse la vita davanti agli orrori di una guerra; Dino Campana un pazzo sifilitico invece che un uomo libero da ogni convenzione che se ne andava su per l’Appennino a scrivere versi e parlare coi pastori invece che intrattenersi alle Giubbe Rosse con gli intellettuali del tempo che peraltro lo snobbavano; e si potrebbero ancora citare Amelia Rosselli, Cesare Pavese, Remo Pagnanelli, e così via. Nemmeno davanti alla morte o al suicidio, dove il pensiero deve fermarsi, la psico-scienza piena di sé ha arretrato.

Eppure G.K. Chesterton, l’inventore di Padre Brown, scrisse nel 1906 che «la maggior parte dei veri grandi poeti non solo era sana di mente, ma era anche estremamente pragmatica. La poesia è sana perché galleggia nel mare dell’infinito: Il poeta chiede solo di levare la propria testa fino ai cieli. È il logico che cerca di spingere i cieli dentro la sua testa. Ed è la sua testa a spaccarsi»[6].

Quello che la cosiddetta modernità scientifica ha fatto con i poeti non ha osato farlo con i mistici: nessuno ha mai osato dire ad alta voce che Teresa D’Avila, Giovanni della Croce o Angela da Foligno fossero dei folli o delle pazze squinternate. Eppure anche loro, come i poeti, ascoltano voci e procedono per visioni. Solo che le loro erano religiose, mentre quelle dei poeti sono, diciamo così, pagane. (Marina Cvetaeva parlava del politeismo del poeta, scriveva che il poeta è sempre in adorazione di una moltitudine di déi, anche se i poeti più alti sanno quale divinità è la più antica e importante, e diceva che il cielo del poeta si trova esattamente a livello del piedistallo di Zeus, ovvero sulla cima dell’Olimpo[7]).

Dunque sui poeti si sono accanite scienza e psicanalisi, e sui mistici no. Eppure, in una lettera a Lou Salomé, inviata da Duino il 7 febbraio del 1912, Rainer Maria Rilke accenna all’insegnamento della beata Angela da Foligno, e traccia un parallelismo tra l’esistenza del poeta e quella della mistica[8].

È evidente che la scienza, la psichiatria e la psicanalisi si sono arrese sui mistici, mentre hanno dissezionato i poeti come rane da laboratorio. Ma non ci hanno capito nulla lo stesso.

Quando è cominciato, dunque, questo scollamento?

Sappiamo che ancora nel Medioevo e nel Rinascimento, poesia, filosofia e scienza non erano assolutamente disgiunte: senza addentrarci troppo tra i secoli basta pensare a Dante Alighieri, a cui nel 2022 è stata dedicata una mostra a Firenze intitolata proprio Dante scienziato, in cui si tratteggiava la figura di Dante anche come matematico e astronomo, conoscenze che si trovano profuse in tutta la Divina Commedia; basta pensare al genio di Leonardo da Vinci, nelle scienze come nelle arti, in quel Rinascimento che vide anche Pico della Mirandola scienziato e umanista insieme. E poi il Tasso, che scrisse le Sette giornate del mondo creato fondate sul racconto biblico della Creazione ma con riferimenti anche alla scienza, e, nel secolo del Barocco, Francesco Redi, biologo e letterato alla corte dei Medici, e Galileo Galilei, che fu fisico, astronomo, matematico, letterato e filosofo: considerato il padre della scienza moderna, i suoi scritti sia letterari che scientifici hanno influenzato scienziati e poeti, tra i quali Leopardi. Galileo fu anche il primo ad esprimere una certa divisione tra scienza e letteratura, considerandole come discipline dai fini completamente diversi: la scienza ha per oggetto il vero, e la letteratura il verosimile. Tuttavia, fu con le sue opere letterarie, le sue prose, i suoi saggi su Dante o Petrarca, che, come affermava lui stesso, voleva «rifar i cervelli degli uomini»[9]; e al tempo stesso fu con Il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo che, dichiaratamente, voleva condurre alla verità anche i lettori non avvezzi alle cose di scienza. Una prima frattura si stava consumando già: fuori dall’Italia, il poeta inglese John Donne pubblicò Anatomia del mondo nel 1611, proprio ispirato dalle prime scoperte di Galileo con il suo telescopio, ma lamentava già un “mondo spento” in cui, mischiando scienza e poesia, “tutto cade a pezzi e la coerenza è sparita”[10].

Nel Settecento, con l’epoca dei Lumi, si iniziò a venerare solo la dea Ragione, il mito diventò una favoletta, e il sacro fu relegato a superstizione, la filosofia si piegò alla razionalità e si allineò alla scienza: Giambattista Vico, fin dagli inizi del secolo, proclamò l’assoluta incompatibilità tra immaginazione e ragione. E Cartesio fu il filosofo matematico con cui trionfò il razionalismo.

Da lì è iniziato il sorpasso, diciamo così, delle discipline scientifiche su quelle umanistiche, con la ricerca della verità perfetta, dell’assoluta certezza, dell’uomo che funziona come una macchina, con il dissezionare la musica con criteri esclusivamente matematici per misurare le emozioni, con il progetto di Leibniz di superare le divisioni tra gli uomini solo con il progresso scientifico e la ragione, idea appoggiata da Cartesio. In questo clima, allora, anche la poesia ebbe le sue responsabilità: da un lato si convertì alla scienza (con l’Alfieri che celebrò l’invenzione della mongolfiera, e il Parini che scrisse l’ode intitolata L’innesto del vaiolo in cui celebrava il medico che aveva trovato il rimedio per contenere l’epidemia), e dall’altro si contrappose alla ragione e alla scienza, arrivando all’estremo di Giambattista Castri, l’autore delle Novelle Galanti, che nella lirica A Dori, studiosa di filosofia, suggerisce di non curarsi della fisiologia, dell’astronomia e  della filosofia, lasciandole alle “barbe ispide”, ma di pensare solo a danzare, a curare il proprio aspetto e a leggere i poeti. Perfino i tentativi di un letterato e matematico come Lorenzo Mascheroni erano volti alla volontà illuministica di ‘convertire’ i letterati e i non specialisti alle scienze.

Ma fu l’Ottocento, con la rivoluzione industriale e la concezione del progresso lineare ed infinito, ad arrendersi del tutto alla separazione tra scienza e poesia-letteratura.  Con l’ascesa della borghesia e il profilarsi prepotente della logica delle merci, della produzione e del profitto, non si è più capito che l’aspetto della verità è vitale perché è multiforme, e le molte verità che comprende, proprio come le varianti di un mito, non si contraddicono, ma si arricchiscono, si completano.  Invece di accogliere le molteplici verità, se n’è cercata una e una sola, non certo nella ricerca di un archè, un principio universale da cui scaturisce il Tutto con le sue molteplicità: piuttosto, attraverso la dittatura di una sola disciplina, scientifica ed economica. In un mondo che si faceva minuscolo, imperavano le maiuscole: Verità, Felicità, Progresso. Per questo, Leopardi definì il suo secolo superbo e sciocco, mentre Foscolo si fece scettico e nostalgico, e accusò la scienza di troppo materialismo, e addirittura di essere responsabile della decadenza di una civiltà.

Eppure, anche l’era moderna e contemporanea, da fine Ottocento fino ad oggi, ha conosciuto uomini di scienza e contemporaneamente di poesia e di letteratura.

Henri Mondor (1885 – 1962), che fu medico chirurgo docente alla Sorbona ed ebbe all’Academie Française il seggio che appartenne a Paul Valéry, scrisse importanti opere scientifiche e affiancò alla pratica medica e alla ricerca scientifica un’intensa attività letteraria: Cristina Campo, in un saggio intitolato Henri Mondor. Poesia e verità, include i suoi libri sia scientifici che letterari in quella categoria di opere che rivelano una verità «indiscutibile quanto semplice, radiosa quanto spoglia, e che è per questo due volte poesia», e definisce lo scienziato Mondor «un uomo dunque competente: che, tornando ogni volta alla poesia dai posti avanzati della verità – la costante presenza della morte, il riaffermarsi invincibile della vita – è in grado di pronunciare la parola esatta, quella in cui in nessun tempo e in nessun luogo si sorride»[11].

Henri Mondor ci ha lasciato opere importanti dal punto di vista scientifico, tra cui studi di diagnostica o studi specifici sulle ulcere o sull’artrite, oltre a biografie di medici illustri come quella su Pasteur. Ma ci ha lasciato anche illuminanti opere di letteratura, come i suoi saggi sui poeti e gli scrittori francesi, da Mallarmé a André Gide, e scritti su Claudel, Verlaine, Rimbaud, e Paul Valéry, di cui fu amico. L’accademia francese ha istituito un premio di poesia intitolato proprio allo scienziato Henri Mondor, premio che tra l’altro nel 2023 è stato vinto da una professoressa di Aosta con un saggio su Mallarmé pubblicato in Francia.

Purtroppo di Henri Mondor non risultano – a una breve ricerca – opere   tradotte in italiano. Se ne trovano invece molte del tedesco Gottfried Benn (1886 – 1956), vissuto nello stesso periodo di Mondor, medico, poeta e scrittore: la sua prima raccolta di poesie fu ambientata nei padiglioni di un ospedale, e i suoi scritti, che sono al contempo prosa poetica e saggi folgoranti, sono tutti pubblicati da Adelphi. Benn ci parla di ere geologiche e di Goethe, di teorie scientifiche e del mondo greco, del cervello e della poesia, di storia e filosofia: scompagina tutte le categorie, e leggerlo è una continua vertigine, per gli scarti taglienti, la prosa chirurgica, la poesia sanguinante, il verminare delle immagini, e la capacità, come lui stesso scrisse, di cogliere la natura della poesia e collocarla all’interno del processo biologico come fenomeno di carattere primario, ovvero oltre la storia e il tempo, oltre le categorie del pensiero, e invece dentro il ciclo di vita e di morte, poiché, scriveva, c’è soltanto il nulla con dello smalto sopra[12]. Per Benn, l’artista non può cambiare il mondo, non è quello il suo compito, perché il regno dell’arte e quello della storia, che «sempre va rodendo ogni cosa col suo formidabile ritorno dell’Uguale»[13], seguono percorsi diversi e incompatibili. Nell’imperdonabile Benn, come lo definì Cristina Campo, la voce gelida dello scienziato e quella del poeta che accarezza il mistero, restano in fortissima e continua tensione, ed è forse il punto in cui il fuoco e il ghiaccio, il cielo e l’inferno, si toccano, sotto il giogo inflessibile di Ananke e l’irriducibilità della Moira.

Fu nel nome della scienza naturale che l’etologo e zoologo Konrad Lorenz (1903 – 1989) vide quello che Cristina Campo chiamava il lampo azzurro dell’abito della Moira, ovvero l’intuizione del sacro e del destino: Lorenz lo colse sulle piume dell’animale che gli fu più caro, protagonista anche di una celebre fiaba di Andersen: «Non un angelo ha folgorato Lorenz sulla via di Damasco, ma un anatroccolo»[14], scrisse il filosofo Giorgio Colli. Da lì iniziarono gli studi di Lorenz sulle componenti innate del comportamento e in particolare sul fenomeno dell’imprinting nelle oche selvatiche.

Nelle sue molte opere di divulgazione scientifica, Lorenz, che aveva ben presente il concetto greco di hybris e la necessità di rispettare i limiti imposta dalla Natura, si è rivolto anche alla filosofia e alla letteratura. Alla fine degli anni Settanta, pubblicò un libro dal titolo Natura e Destino, una raccolta di saggi in cui il celebre etologo, indagando il mondo della Natura per scovare i modelli di comportamento che accomunano gli animali all’uomo, sottolinea come quello che crediamo presuntuosamente sotto il nostro dominio si riveli invece un grande disegno universale, e ammonisce che la nostra superbia nel troncare ogni rapporto con la Natura ci consegnerà a un destino di distruzione[15]. Ed è quello che accade all’islandese nell’Operetta Morale leopardiana, Dialogo della Natura e di un Islandese[16].  Se Leopardi usa immaginazione ed ironia per superare la concezione illuministica del mondo attraverso la visione di una Natura indifferente che non si può fuggire né dominare, Lorenz attraverso la scienza e lo studio del comportamento animale e naturale arriva alla stessa conclusione. Ed è un concetto che riecheggia da vicino quello che Leopardi ha disseminato nelle sue poesie, e in particolare nella sua ultima, La Ginestra quando dice che gli uomini che credono di dominare la natura sono degli illusi.

Giorgio Colli, nel raccontare Konrad Lorenz, evoca proprio la poesia e la letteratura, e afferma che, se mai Lorenz avesse scritto un diario, avrebbe potuto intitolarlo Le occasioni, come il libro di poesie di Montale, poiché l’etologo – come il poeta – è una persona che osserva, che si guarda intorno: «Soltanto un occhio addestrato a vedere gli animali, vede quello che è così evidente da non essere più veduto»[17].

A Lorenz, come alla poetessa americana Emily Dickinson, la Natura appare un tessuto continuo e intrecciato, proprio come continuo e intrecciato è il mito. E nel saggio Il declino dell’uomo, lo scienziato Lorenz mette in guardia contro la mentalità eccessivamente scientista e il pensiero esclusivamente tecnologico che minano le qualità e le doti che fanno dell’uomo un essere umano, ovvero il valore della bellezza, il riconoscimento e il rispetto delle differenze, e il senso del limite[18].

Nell’anno in cui ricevette il Nobel per la medicina, 1973, Lorenz pubblicò un altro libro dal titolo Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, ovvero otto fenomeni sociali (“processi di disumanizzazione”) che Lorenz interpreta come segni di un conflitto tra la natura biologica dell’uomo e le pratiche sociali imposte dal modello “pseudo-democratico” vigente negli ultimi due secoli. Tra questi peccati capitali vi sono la competizione economica e tecnologica, la scomparsa delle tradizioni culturali, l’appiattimento dei sentimenti e delle emozioni forti nella ricerca fallimentare di un continuo piacere. Riguardo a quest’ultimo, Lorenz richiama fortemente ancora il Leopardi e La ginestra: «Magnanimo animal / Non credo io già, ma stolto / Quel che nato a perir, nutrito in pene / Dice a goder son fatto / E di fetido orgoglio / Empie le carte…»[19] .

Rainer Maria Rilke pubblicò nel 1910 I quaderni di Malte Laurids Brigge: «I versi non sono, come si crede, sentimenti (che si hanno abbastanza presto) – sono esperienze. Per un solo verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna sentire come volano gli uccelli, e sapere i movimenti con cui i piccoli fiori s’aprono il mattino, bisogna avere ricordi, e bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere, che tornino»[20]. I versi sono esperienze, e la scienza si basa su esperimenti, che sono conoscenza tramite esperienza; i ricordi delle esperienze, nel poeta come nello scienziato, bisogna dimenticarli e attendere che tornino, perché si compongano in un verso o in una teoria scientifica.

Arrivando ai giorni nostri, incontriamo un letterato psichiatra: Eugenio Borgna, nato nel 1930 e primario di servizi psichiatrici ospedalieri, fin dai primi anni ’60 ha adottato metodi di cura fuori dalla comune prassi psichiatrica, inaugurando metodi incentrati sul dialogo e l’ascolto empatico del paziente senza costrizioni o coercizioni di sorta, sperimentando così per la prima volta in Italia un nuovo modo di accostarsi alla malattia mentale. Proprio quest’anno è uscito un suo libro[21] in cui sottolinea come ascoltare il silenzio sia un momento di pausa e profondità necessario, che cura e ristora. Ed è un concetto poetico che si applica alla scienza: «Grandi vie di silenzio conducevano / a paesi di calma», scrisse Emily Dickinson in una sua poesia, a metà Ottocento. Ma come maestra di silenzio Borgna cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta ad Auschwitz che ha lasciato le sue intense Lettere e il Diario oggi pubblicati da Adelphi. Dice Borgna: «Sono stato folgorato da Etty Hillesum. Ciò che ci ha lasciato rimanda a quell’infinito che possiamo cogliere solo se sfuggiamo alla ghigliottina della fredda analisi razionale, a quell’infinito che possiamo vivere solo se non lo riduciamo a qualcosa di calcolabile in senso positivistico. È l’infinito leopardiano, che fa cogliere un’altra immagine della realtà: come se le ragioni del cuore aprissero orizzonti più ampi di quelli della ragione calcolante»[22].

Borgna ha dedicato un intero volume a Simone Weil, in cui sottolinea come il costante dialogo con il pensiero luminoso della filosofa e poetessa francese gli abbia offerto infinite suggestioni, e quindi preziosi strumenti, per il suo cammino di medico e psichiatra, poiché i testi di Simone Weil «dicono l’enormità  della violenza e della disperazione, la negazione di ogni libertà e ogni dignità umane, di ogni diritto e rispetto, che si sono manifestate nelle fabbriche in cui Simone Weil ha lavorato, e che non possono essere dimenticate o considerate come appartenenti a un periodo storico superato, perché i meccanismi che ne sono alla radice non sono cancellati, e non lo saranno forse mai»[23].

In un continuo lavoro di ricerca e interrogazione che unisce le discipline scientifiche a quelle umanistiche, Borgna ha dialogato nelle sue opere con Sofocle, Rilke, Paul Celan, Hölderlin, Nietzsche, Kierkegaard, Virginia Woolf[24], e in un’intervista ha detto chiaramente che gli psichiatri farebbero meglio a leggere Leopardi ed Emily Dickinson, anche per capire che la cura psichiatrica non può essere soltanto farmacologica, ma anche psicologica e sociale, e perfino letteraria, e dipende soprattutto dalla capacità di ascoltare, per cogliere quel colloquio interiore che ognuno di noi intrattiene con le voci e i silenzi della propria anima, anche quando si sprofonda nell’abisso della sofferenza psichica.

La scienza è la letteratura sono un percorso narrativo attraverso un mappamondo, e si cibano di scoperte come un bambino. Ancora siamo lontani dal tornare a riconoscerlo. Eppure ci sono esempi contemporanei da seguire. Ne citiamo due. Margherita Rimi, poetessa e neuropsichiatra infantile, ha raccolto un decennio di suoi versi in un libro da cui si evince il suo percorso clinico e poetico insieme[25], che richiama anche il fanciullino di Pascoli o il Pinocchio di Collodi: la Rimi ha dato voce all’infanzia riconoscendo che «il tema dell’infanzia non può essere confinato solo in branche specialistiche scientifiche come la neuropsichiatria, la psicologia, la pediatria, la pedagogia. Sarebbe un limite. La poesia e l’arte danno la possibilità a questi temi di arrivare e diffondersi anche in altri campi: quelli dei “non addetti ai lavori”, con una forza che trascende anche l’aspetto scientifico contingente. Ma c’è un punto in cui arte e scienza si rincontrano: nel valore dell’umanità. Ed è lì che diventano una sola cosa»[26].

In Germania, uno dei poeti contemporanei più importanti è Durs Grünbein, che voleva fare il veterinario. Nato nel 1962 e quindi cresciuto nella Germania Est, dopo la caduta del muro inizia a viaggiare e il suo orizzonte poetico già ampio si espande. Grünbein mette in guardia contro l’eccessiva specializzazione in una sola disciplina: ai suoi versi, donano spunti le neuroscienze, la fisica quantistica, la zoologia, in una fiducia incrollabile nella parola poetica:

«Normale, corretto – parole incancrenite / Con loro il tempo ti mura dentro / la vicina parete, qui sottile / come una pelle tutta cicatrici / Dietro c’è il mondo (o quello che tu chiami tale) / Ammetti: in questo buco il sangue pulsa / come sotto pistoni, qui ti battono in fronte / finché ti adatti. Poi tu rogni / e Miss Emicrania ti fa fuori il cervello»[27].

Nel disgraziato Novecento delle due guerre mondiali, dobbiamo inoltre ricordare  Pierluigi Bacchini (1927 – 2014), che abbandonò gli studi di medicina per dedicarsi a una poesia che utilizza comunque termini scientifici presi in prestito soprattutto dalla botanica, e Primo Levi (1919 – 1987), che era laureato in chimica, e scrisse: «sovente ho messo piede sui ponti che dovrebbero unire la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo. C’è chi si torce le mani e lo definisce un abisso, ma non fa nulla per colmarlo; c’è anche chi si adopera per allargarlo, quasi che lo scienziato e il letterato appartenessero a due sottospecie umane diverse, reciprocamente alloglotte, destinate ad ignorarsi e non interfeconde. È una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto»[28].

L’astrofisica Margherita Hack ha affermato che la scienza sa il come della vita, non il perché[29]. Il perché è un mistero che attraversa i poeti, e talvolta li folgora.

Emily Dickinson sfida: «Mettimi per iscritto / quante sono le note che compongono / le variazioni estatiche / del nuovo pettirosso / che si sgola  / fra i rami stupefatti che lo attorniano, / tieni un computo esatto / dei viaggetti che fa la tartaruga / fra gli accidenti del terreno smosso, / e di tutti i bicchieri dondolanti / a cui si accosta l’ape,  / questa pazza beona debosciata, / che sembra sempre brilla di rugiada»[30].

Nei tardi pomeriggi d’estate, quasi sempre al tramonto, gli storni tutti insieme affollano le fronde di un unico albero, ma prima si alzano nel cielo in una danza geometrica e straordinaria. In perfetta sincronia, formano figure, le cambiano veloci più delle nuvole, costruiscono solidi e poi li distorcono, virano a destra e poi a sinistra tutti insieme a centinaia, a capofitto verso terra poi di nuovo in volo, come fossero un corpo solo, poi si staccano a grappoli quasi regolari, e si tuffano sugli alberi. La danza degli storni nessuno ha saputo spiegarla: rimane un mistero[31], e lo ammette anche la scienza[32].

Se il fisico Giorgio Parisi, che ha intitolato al volo degli storni un suo libro[33], ammette che basi comuni della poesia e della scienza sono l’intuizione e la volontà del conoscere, allora quel che si afferma in poesia è valido anche per la scienza.

Scrive Daniela Marcheschi: « si è poeti e poetesse, non si fa il poeta o la poetessa. Ogni arte la si vive, ed è altro dalle leggi, economicistiche e mistificanti, che governano la società del proprio tempo»[34]. Non dovrebbe forse valere anche per la scienza? Si è scienziate e scienziati, o si fa la scienziata e lo scienziato? Se si fa lo scienziato, e se si fa il poeta, ci si sottopone alla volontà vanitosa di produrre qualcosa, si sottostà all’economia, alla politica, all’industria, ai media, e a tutto quel che non è né scienza né poesia; se invece si é scienziati, e si è poeti, si mantiene dritta la barra della verità, della verifica, si mantiene la capacità di vedere il visibile e l’invisibile insieme, senza la quale nemmeno la scienza avrebbe progredito di un millimetro, si va contro alla menzogna e non si incappa nelle trappole dei potenti.

Margherita Guidacci, poetessa sublime troppo poco conosciuta e la più grande traduttrice di Emily Dickinson, nei suoi Consigli a un giovane poeta, scrisse «Meglio scrivere un libro importante nel deserto / dirgli sei figlio del deserto, qui sei nato e qui rimani,/ solo le pietre e il vento ti avranno conosciuto,/ che diventare celebri per equivoco»[35], e questo è un monito sia per gli scienziati che per i letterati, visto che diventare celebri per equivoco significa per altri meriti che non siano quelli della validità della propria poesia o della propria scienza, mentre se si scrive un libro importante nel deserto, si può star certi che prima o poi qualcuno lo troverà: come accadde alle poesie di Emily Dickinson, che lei in vita non pubblicò mai ma che numerò una per una, certa della loro immortalità; o come accadde a Copernico che nel Cinquecento dimostrava la teoria eliocentrica per cui i pianeti girano intorno al sole e non alla terra nel libro Sulla rivoluzione delle sfere celesti, che non fu pubblicato fino al giorno della sua morte.

Il poeta e lo scienziato che hanno la capacità di osservare il visibile e l’invisibile seguono il filo, sottile e resistente come una tela di ragno, che innerva l’arte e la scienza anche attraverso il mito, e la fiaba.

Il filosofo della scienza israeliano Oren Harman in un libro che si intitola Evoluzioni scrive che i miti «ci accompagnano per tutta l’esistenza come compagni fedeli ma misteriosi. Ci aiutano a orientarci e tentano di rassicurarci, ma evocano verità che superano la nostra comprensione»[36]. E anche la scienza, dice Harman, ha più o meno consapevolmente ripreso alcune formule del racconto mitologico. Molte teorie scientifiche hanno caratteristiche di moderni miti: se pensiamo al Big Bang, all’universo a stringhe, alla materia oscura, ai buchi neri di cui ci parlano gli scienziati, ci rendiamo conto che non sono meno affascinanti dei miti della creazione, del Caos da cui tutto avrebbe origine nel mito greco, della nascita degli dèi raccontata da Esiodo, della Notte creatrice primigenia di tutte le cose, oppure delle fiabe dei fratelli Grimm, o di Lewis Carroll: in fondo, non siamo forse delle Alice che camminano nel paese delle meraviglie, con i suoi terrori e splendori?

Nella struttura circolare che fiaba e mito condividono, ruota la meraviglia che  nutre la poesia e la scienza. Nelle fiabe, nei versi dei poeti, e negli esperimenti degli scienziati, si legano stretti visibile e invisibile, legati da un solo punto di partenza: l’immaginazione, che in realtà è attenzione, ovvero «accettazione fervente, impavida del reale»[37], che sia visibile come la terra o invisibile come l’aria, sfuggente come l’acqua o intoccabile come il fuoco.

«Gli unici termini che ritengo adeguati per descrivere la Natura  – disse Chesterton – sono quelli che si trovano nei libri di fiabe: incantesimo, sortilegio, magia. Essi esprimono l’arbitrarietà e il mistero di ciò che accade. Un albero produce frutti perché è un albero magico. L’acqua scorre in discesa perché è stregata. Il sole splende per un incantesimo»[38]. E con questo Chesterton vuole dire la stessa cosa che ha detto Margherita Hack: la scienza dice il come, non il perché. Come il sole splende, come l’albero dà i frutti, come scorre in discesa l’acqua. Ma non perché. Il perché è un incantesimo.

E l’incantesimo è un frammento di Ibico che dalla Grecia antica è arrivato fino a noi: «Ardano attraverso la notte lungamente le stelle lucentissime». Oppure quello che con esattezza descrive Emily Dickinson, in una poesia del 1862: «La Bellezza non ha causa: / Esiste.  / Inseguila e sparisce  / Non inseguirla e rimane  / Sai afferrare le crespe  / Del prato quando il vento  / Vi avvolge le sue dita?  / Iddio provvederà  / Perché non ti riesca»[39].

La scienza, se unita alla poesia, mantiene la capacità di osservare l’incantesimo – le stelle lucentissime, la danza degli storni, le crespe del prato, i fiori che si aprono al mattino, le api sul bicchiere – per poi cercare di svelare un pezzetto del come, ma senza la presunzione di spiegare il perché.

Sostituire l’attenzione con la presunzione che tutto si debba spiegare e afferrare, equivale a un atto di superbia imperdonabile: è l’atto di giudicare qualunque essere superfluo nel mondo, senz’anima, oggetto ornamentale e non più sacro, messo lì a servire, per essere sfruttato. Un atto di superbia che ci rende tutti schiavi. Sappiamo, dalla scienza, che dell’Universo conosciamo appena il 5%, e che il resto è costituito da materia ed energia oscura, che restano un enigma. Ma è proprio l’enigma che nutre sia la scienza che la poesia. Per questo, perseverare nella convinzione in un futuro di progresso perenne in cui scienza e tecnologia abbiano la sola parola, siano incrollabili certezze e uniche verità, significa escludere gli orizzonti del pensiero.

 

 

[1]Walter F. Otto, Teofania,  a cura di G. Moretti, Milano, Adelphi, 2021, p. 49.

[2]Marìa Zambrano, Filosofia e poesia,  trad. di L. Sessa, Bologna, Penderagon, 2010.

[3]Archiloco, fr. 128 W.

[4]Così Giorgio Parisi ha aperto il suo intervento all’incontro “Poeti e scienziati a colloquio”, nell’ambito di Più libri più liberi, la 10ª Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, che si è svolta al Palazzo dei Congressi di Roma dal 7 all’11 dicembre 2011.

[5]Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di M. Farnetti, Milano, Adelphi, 1998, p. 65.

[6]Gilbert W. Chesterton, Ortodossia, trad. di R. Asni, Torino, Lindau, 2010, p. 35.

[7]Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, a cura di S. Vitale, Milano, Adelphi, 1984

[8]Sul carteggio tra Rainer Maria Rilke e Lou Salomè si veda: Da qualche parte nel profondo. Lettere 1897 – 1926, a cura di S. Mori Carmignani, Firenze, Passigli, 2021. Fu fitta anche la corrispondenza fra Rilke e Marina Cvetaeva: si veda Lettere, trad. di U. Persi, Milano, SE, 2020. Alla Cvetaeva, Rilke scrisse questa dedica sui volumi di poesie che le inviò: «Ci sfioriamo. Con cosa? Con le ali / Traiamo da lontano la nostra parentela. / Solo è il poeta. E chi porta lui / incontra i tempi che portano», come riporta Marilena Garis in «Pangea» del 17 febbraio 2023.

[9]Galileo Galilei. Opere, a cura di A. Favaro, Roma, Edizione Nazionale (20 voll., 21 tomi) 1890 – 1909, vol.7, p. 82.

[10]John Donne, Anatomia del mondo e altre poesie, a cura di G. Massara, Viterbo, Edizioni Sette Città, 2003.

[11]Cristina Campo, Sotto falso nome, cit., pp. 31 – 32.

[12]Gottfried Benn, Lo smalto sul nulla, trad. di L. Zagari, Milano, Adelphi, 1992; ma anche, e Doppia Vita, a cura di A. Valtolina, Milano, Adelphi, 2021.

[13]Gottfried Benn, Romanzo del fenotipo, trad. di A. Valtolina, Milano, Adelphi, 1998, p. 66.

[14]Giorgio Colli, Konrad Lorenz. L’etologo e i suoi fantasmi, Milano, Bruno Mondadori, p. 130.

[15]Cfr. Konrad Lorenz, Natura e destino, trad. di A. La Rocca, Milano, Mondadori, 1990.

[16]Giacomo Leopardi, Operette morali, a cura di D. Marcheschi, Roma, Carlo Mancosu editore, 1993.

[17]Giorgio Colli, Konrad Lorenz, cit., pp. 137 – 138.

[18]Konrad Lorenz, Il declino dell’uomo, trad. di A. Casalegno, Prato, Piano B, 2017.

[19]Giacomo Leopardi, Canti, a cura di N. Gallo e C. Garboli, Torino, Einaudi, 2016.

[20] Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di G. Zampa, Milano, Adelphi, 2001, pp. 20 – 22.

[21]Eugenio Borgna, In ascolto del silenzio, Torino, Einaudi, 2024.

[22] Intervista a Eugenio Borgna, Occidente, il tempo del silenzio, in «L’Avvenire» del 30 settembre 2009

[23]Eugenio Borgna, L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 10.

[24]Eugenio Borgna, Di armonia risuona e di follia, Milano, Feltrinelli, 2012

[25]Margherita Rimi, La voce dei bambini. Poesie 2007 – 2017, Milano, Mursia, 2019.

[26]Margherita Rimi; Le voci dei bambini nell’abbraccio vitale dell’ascolto, intervista di Grazia Calanna, su «L’estroverso» del 29 ottobre 2020.

[27]Durs Grünbeim, A metà partita, trad. di A.M. Carpi, Torino, Einaudi, 1999, p. 87.

[28]Primo Levi, L’altrui mestiere, Torino, Einaudi, 1985, p. VI.

[29]Margherita Hack, Il mio infinito, Milano, Dalai Editore, 2011.

[30]Emily Dickinson, Come un ospite che arriva all’improvviso, trad. di R. Solmi,  Macerata, Quodlibet, 2023.

[31]David Fiesoli, La danza degli storni, in «Kamen’» n. 16 , Piacenza, Ed. Vicolo del Pavone, 2000.

[32] Melanie Haiken, L’affascinante mistero delle “coreografie” degli storni, su «National Geographic», 6 aprile 2021.

[33]Giorgio Parisi, In un volo di storni. Le meraviglie dei sistemi complessi, Milano, Rizzoli, 2021.

[34]Daniela Marcheschi, Cristina Campo traduce Christine Koschel, cit., pp. 4 -5. Cfr. anche Cristina Campo, Lettere a Mita, a cura di M. Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 1999, e Matteo M. Vecchio, Tre imperdonabili. Emily Dickinson, Antonia Pozzi, Cristina Campo, Firenze, Le Càriti, 2022.

[35]Margherita Guidacci, Le poesie, a cura di M. Del Serra, Firenze, Le Lettere, 1999, p. 111.

[36]Oren Harman, Evoluzioni. Quindici miti che spiegano il nostro mondo, trad. di D. Fassio, Torino, Codice Edizioni, 2019.

[37]Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1999, p. 167.

[38] G.K. Chesterton, Ortodossia, cit., p. 86.

[39] Emily Dickinson, Poesie, cit., p. 193

 

In apertura, foto di Olio Officina

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