Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Katherine Mansfield, incanto feroce

A cento anni dalla morte, la sua scrittura sferza ancora. Appare delicata, morbida, amabile, ma non appena la si penetra un po', scatena i suoi veleni: sono parole leggere come frecce, e non mancano mai il bersaglio

David Fiesoli

Katherine Mansfield, incanto feroce

Quando la conobbe, Virginia Woolf se ne lamentò: sono tre anni che mi tampina, disse. Ma pochi giorni dopo la sua morte annotò: «Quando mi sono messa a scrivere mi sono detta: non ha senso se Katherine non legge».

Furono amiche e sodali: Virginia la indicava spesso solo con l’iniziale, K., in segno di unicità. Altri la chiamavano Kath, ma si firmava con molti nomi: aveva uno sguardo limpido, costante e distaccato, a tratti crudele, puntato sull’umanità come una freccia.

Katherine Mansfield, maestra nell’arte del racconto, è stata una delle maggiori autrici di narrativa breve della letteratura mondiale: come lei, forse, solo Cechov. Che peraltro amava moltissimo.

Nelle sue pagine, sferzò la società borghese in punta di penna, usando parole gentili e scrittura raffinata come fossero una frusta. A chi la conobbe sembrò una creatura delicata e lontana: dicevano che era remota, incantevole, con un mezzo sorriso tra le labbra, e che aveva una delicatezza di porcellana.

La aiutava il suo aspetto: un volto che sembrava una maschera tranquilla, intagliata nel  legno, oppure – così la descrive Citati –  una ceramica d’Oriente arrivata sulle rive dei nostri mari.

La Mansfield nacque in Nuova Zelanda, nel 1888, quando Virginia Woolf a Londra aveva solo sei anni, e Emily Dickinson in America era morta da appena due anni. Sulle rive dei nostri mari, Katherine ci arrivò presto: la prima volta che traversò l’Oceano aveva quindici anni, la sua meta fu l’Inghilterra.

Ma in quel viso di ceramica, in quella donna dai gesti quieti e riservati, gli occhi tradivano un’altra natura: grandi e scuri, indagatori, con uno sguardo impavido ma circospetto, inquieto e divorante, che si muoveva sotto le ciglia lunghe, e scrutava ovunque, come un’aquila.

In una lettera del 1908 a uno dei suoi tanti amori, Garnet Trowell, a soli vent’anni Katherine Mansfield scriveva:  «voglio intensificare le piccole cose perché davvero tutto sia significativo».

Ed è proprio questo che riesce a fare nei suoi racconti, in cui una mela e tutti i pianeti dell’universo, simili per forma, hanno la medesima importanza anche per contenuto. Una recensione dopo la pubblicazione dei suoi racconti coglie un aspetto fondamentale: Katherine Mansfield «è innamorata della bellezza fino alla punta delle dita, e non può sbagliare, perché il suo amore scaturisce dalla sua devozione alla verità».

Il tratto d’unione che la accomuna ad altre grandi scrittrici come la Woolf, la Dickinson o Emily Brontë, è questo: la verità è bellezza anche quando è dolore; la verità va cercata, scavata, scarnificata e rivelata, attraverso una scrittura che unisce quello che apparentemente è opposto, in una visione circolare che non contrappone, ma integra: bellezza e bruttezza, piacere e dolore, vita e morte fanno parte del cerchio dell’esistenza, e oltre a scriverlo, la Mansfield lo vive sulla propria pelle, attraverso scelte che sono sempre improntate alla libertà, all’autonomia, alla castità della mente intesa come quel pensiero davvero autonomo, sguardo critico su un mondo che in fondo le era ostile, ma da perseguire con caparbietà anche quando il costo dovesse essere altissimo.

Se Emily Dickinson condusse una vita ritirata e solitaria senza muoversi quasi mai dalla sua stanza, Katherine Mansfield ne condusse una apparentemente opposta, movimentata e inquieta, piena di amori e avventure, conoscenze e spostamenti. Nel pensiero circolare che unisce mito e letteratura, queste due visioni non si contrappongono, perché le unisce, agli estremi del cerchio, la ricerca di verità e l’amore per la libertà, un’indipendenza di giudizio e di talento che sfocia nell’avanguardia rispetto ai tempi in cui vivevano.

La ricerca della verità è una fatica costante, richiede una verginità della mente che sempre si rinnova, e che poco ha a che fare con quella del corpo: è il severo distacco di Artemide, la dea intoccabile. Virginia Woolf paragonava la Mansfield a un gatto, l’animale in cui Artemide trasmutò quando i Titani attaccarono l’Olimpo. E Pietro Citati, descrivendo la Mansfield, scrisse che in lei si avvertiva «quell’imperscrutabilità enigmatica, quell’ostilità all’uomo, quell’appartenenza a mondi misteriosi e remoti, che possono essere propri sia di un animale che di uno scrittore».

Artemide dice a Ippolito morente: «Addio, a me non è lecito contaminare la vista con il rantolo dei moribondi», e lo lascia, prima che esali l’ultimo respiro. Ippolito, protagonista dell’omonima tragedia di Euripide, figlio di Teseo re di Atene, è un uomo che detesta le donne e la loro carnalità, avverso ad Afrodite e ai suoi doni, è l’umano che non vuol partecipare al carattere dell’umano, che rifugge la vita ed ha in ribrezzo la volgarità dell’esistenza, e quindi all’esistenza si chiude, rifiutandola, nella devozione estrema alla dea più pura e selvaggia, l’irraggiungibile Artemide.

Ma la castità di Ippolito è soltanto fisica, non mentale, anzi: è prigioniero di un’idea, la sua tensione spirituale è sterile, è dedito soltanto alla caccia. Per questo rifiuto delle molteplici verità del mondo, Afrodite tesse la sua rovina, e lo porta alla morte proprio infierendo sulla sua carne, calpestato dai cavalli.

Katherine Mansfield è aperta alle verità, non è una devota: casomai, somiglia a una sacerdotessa, per il rigore con cui attraversa una vita  ricca e intensa, perfino rocambolesca, ma avvinghiata alla realtà, attraverso l’arma indagatrice della scrittura, e con il distacco necessario a descriverla. In lei, Artemide e Afrodite, anziché contrapposte, sono concordi.

Katherine Mansfield manifesta il distacco con quell’enigma stampato sul suo volto.

Era espertissima nell’arte di ascoltare come se non ascoltasse – scrive Citati – sedendosi un attimo nella vita degli altri, e raccogliendo tutto quel che dicevano come una gazza che posasse lo sguardo veloce su qualcosa di fuggevolmente brillante, per poi radunare quei barlumi nella sua memoria e nella luce obliqua dei suoi racconti.

Se i suoi modi riservati da gatta affascinavano chiunque la conoscesse, dai suoi diari e dalle lettere emerge tutto il suo ardore, la sua inquietudine e la sua disordinata sensualità. La Mansfield era come un giardino selvaggio, somigliava in questo a Emily Brontë: erano piene di nascondigli.

Anche Katherine, come Virginia Woolf ed Emily Dickinson, amò uomini e donne, ma – a differenza loro – anche e talvolta soprattutto con il corpo. A vent’anni proclamava di non essere innamorata di nessuno se non di se stessa, ma il suo narcisismo, invece di nutrire il suo ego, si apriva alla vita come un fiore avido e affamato.

Nonostante la sua voglia di tuffarsi in tutte le esperienze del mondo, Katherine Mansfield non permise all’amore per qualcuno di sopraffare il suo amore più grande, quello per la scrittura.

Che all’inizio, in verità, fu amore per la musica. Ma poi, un po’ per l’intransigenza del padre che non la voleva musicista, e un po’ per le sue frequentazioni londinesi, si appassiona alla letteratura, complice anche la sbandata per il suo insegnante di tedesco, che al college la inizia alla lettura.

Per la Mansfield, nessun amore prescinde dal destino di scrivere: già a vent’anni nel suo diario denunciava lo stato di inferiorità delle donne dovuto alle «catene che ci siamo forgiate da sole», e alla dottrina «desolatamente insipida che l’amore è l’unica cosa al mondo, insegnata e martellata in testa alle donne di generazione in generazione».

La vita di Katherine a Londra è ribelle e movimentata, e nutre quel carattere istrionico che già aveva mostrato a scuola in Nuova Zelanda, a Wellington. Ma nel 1906 la famiglia la costringe a rientrare, contro la sua volontà: resta in Nuova Zelanda per quasi due anni, si immerge nella lettura di Ibsen, Yeats, Nietzsche, D’Annunzio, come a Londra aveva fatto con Tolstoj, Poe e Oscar Wilde.

Già a diciotto anni Katherine pubblicava i suoi racconti giovanili: non si firmava col cognome del padre, Beauchamp, ma con quello della nonna che l’aveva allevata, Margaret Isabella Mansfield, che rimase una figura centrale nella sua vita e nei suoi scritti.

Il padre, con cui aveva un rapporto di odio-amore, era preoccupato per quella ragazza ribelle che diceva di avere «un appetito rapace e dai princìpi leggeri come la mia borsa», e allora la convolge in una spedizione esplorativa nel mezzo della Nuova Zelanda, a contatto non solo con una natura selvaggia, ma anche con gli indigeni e la loro civiltà perfettamente inserita in quel contesto.

Stranamente ma non troppo, quel contesto le acuisce la nostalgia per l’Europa, che lei considera più libera e vicina alla natura, intesa come vita vera, rispetto allo squallore e alla superficialità dei coloni bianchi in Nuova Zelanda: lei deprecava la loro pochezza culturale, e scriveva: «sarebbe necessario demolire quell’intelaiatura solida e grassa che avvolge i loro cervelli prima che possano cominciare ad imparare».

Evidentemente la cultura degli indigeni, che sfiora appena, e quella di una certa Europa che ha conosciuto in Inghilterra, sono ugualmente parte di quel cerchio della vita da cui stanno fuori le coscienze coloniali, che girano a vuoto tra negozi, cappelli e tazze di tè: vuoti che però ritroverà anche in Europa, e che descriverà così bene nei suoi racconti, come quando in Preludio descrive la tappezzeria, le portefinestre, i mobili brutti, il pianoforte, i quadri dipinti ad olio, e scorgendo due falene che erano entrate dalla finestra, fa dire a Linda Burnell: «volate via prima che sia troppo tardi, uscite, volatevene via».

Katherine convince il padre a farla ripartire per l’Inghilterra: un viaggio che dura un mese e mezzo, durante il quale ha un’avventura con un passeggero, e si spaventa moltissimo quando poi sospetta di essere rimasta incinta: un falso allarme, scopre con sollievo.

Nel 1908, a vent’anni, è di nuovo a Londra.

Amori, avventure, vita vissuta, ispirano i suoi racconti, che non riesce a pubblicare nelle riviste importanti ancora legate al plot ottocentesco del lieto fine, mentre lei già rende vive quelle piccole cose che pungono le vite dei suoi protagonisti come tante piccole dolorosissime frecce.

Un colpo di fulmine, e sposa il tenore George Bowden, uomo mite, per abbandonarlo subito e tornare con Garnet Trowell a condurre una vita bohémien fatta di espedienti, tanto che la madre Anne, sempre piuttosto assente nella sua infanzia, parte adesso per Londra per rimettere a posto la vita di quella figlia ribelle e fin troppo libera.

Non le riuscirà, e la toglierà dal testamento. Eppure, dal bel viso di Katherine, dai suoi grandi occhi neri, continua a non trasparire nulla di tutto questo: Forster, Lytton Stratchey e la stessa Virginia Woolf la descriveranno delicata, inscrutabile, riservata, con uno sguardo da uccello e i gesti quieti e contenuti di un gatto.

Ma dopo la sua unione con John Middleton Murry, l’uomo che le resterà accanto per tutta la vita, il soprannome della coppia sarà “le Tigri”.

Intanto, porta in grembo il figlio di Garnet, ma abortisce tirando su un baule, e scrive: «devo lottare per poter tornare a rispettarmi».

Torna dal marito George, non prima di aver intrecciato una relazione con Floryan Sobienowski, un critico e traduttore polacco conosciuto in Baviera, che le attaccò un’infezione venerea di cui si accorse troppo tardi, e che tra alti e bassi la accompagnò per tutta la sua breve vita. Sobienowski la introdusse alla letteratura russa, la fece innamorare di  Cechov.

Non c’è amore tempestoso, relazione avventurosa, matrimonio o notte fugace che per Katherine non abbia rappresentato un arricchimento culturale prima e oltre che esistenziale: ogni esperienza sentimentale è puntata sulla scrittura e sulla letteratura. Fu il paziente marito George Bowden a segnalarla a un editore, che ne rimase entusiasta e pubblicò sulla sua rivista di tendenza i racconti di Katherine.

Nel 1912 uscì  la prima raccolta, e fu un  successo.

Nonostante ciò, l’editore fallì dopo le prime tre ristampe, e in seguito Katherine non volle mai più ripubblicare quei racconti, considerandoli immaturi.

Ma già in quelle pagine schiocca la frusta sulla piccola borghesia, su quella commedia umana fatta di uomini banali e ragazze da marito, sordide case e piccole pensioni, tra il gioco spietato della seduzione e un’aria di morte tinta di rosa pallido, appena esorcizzata dal vago sentore di una possibile altra vita che qualche personaggio femminile avverte.

Anche l’incontro con John Middleton Murry, che diventerà il suo secondo marito, avviene grazie a un racconto di Katherine: John lo pubblica sulla rivista letteraria che dirige.

E subito nasce un’amicizia che Katherine trasformerà poi in matrimonio, ovvero in quella unione di anime affini che anche Virginia Woolf  realizzò col marito Leonard.

Come Virginia e Leonard con la Hogarth Press,  anche Katherine e John fondarono una casa editrice, la Heron, dopo che la Hogarth aveva pubblicato alcuni racconti della Mansfield. Ma John non era Leonard: se la Woolf ebbe sempre al suo fianco quel marito forte e paziente, la Mansfield subì le assenze di John, e si ritrovò spesso sola.

Alla sua morte, fu John a occuparsi della sua eredità letteraria, e lo fece in modo fin troppo totalizzante: se ne appropriò come non aveva mai potuto fare quando la Mansfield era viva.

Virginia e Katherine si conobbero, si stimarono: la Mansfield, inquieta e curiosa com’era, capitava a Bloomsbury, o nella villa di campagna di lady Ottoline Morrell, dove si riunivano gli artisti. Ma Bloomsbury non le piacque poi tanto, allergica com’era a ogni conventicola che la identificasse.

Katherine dovette lasciare Londra quando la rivista diretta dal marito fallì, e l’editore scappò dall’Inghilterra lasciando Middleton Murry a cavarsela coi debiti. La coppia fu costretta ad andarsene a Parigi, grazie a un prestito della sorella di Katherine e ai mobili che regalò loro la fedele Ida Baker.

Perché in tutto questo trambusto di vita, sempre accanto a Katherine come un’ombra, c’è Ida Baker. L’aveva conosciuta da adolescente, al Queen College di Londra: diventò la sua dama di compagnia devota al limite dell’annichilimento, sostegno psicologico, e anche economico. Ida Baker corre in sostegno di Katherine ogni volta che ce ne sia bisogno, soprattutto quando la tubercolosi, che accompagnerà la Mansfield fino alla morte, la costringe a viaggi di cura e a interrompere il suo lavoro.

Katherine la chiama “La Fedele”: le vuole bene, ma a tratti è crudele con lei, perché quella devozione sterile ed estrema, come quella di Ippolito per Artemide, la infastidisce. Forse, Ida Baker è l’unica presenza nella vita di Katherine che non abbia a che fare con la letteratura e la scrittura, ma la Mansfield la plasma in un pratico sostegno necessario per poter continuare a scrivere: Ida è la sua piccola rendita. Del resto, Katherine amò molto ma fu soprattutto amata: instancabilmente  e appassionatamente, perchè, dicevano, «è impossibile fare altrimenti».

L’esperimento di vita parigino fallisce, e John e Katherine tornano a Londra poveri in canna. In mezzo alle difficoltà, Katherine e John conoscono David Herbert Lawrence e sua moglie Freeda von Richtofen. Sarà un’amicizia solida ma contrastata: scoppia la Prima guerra mondiale, le due coppie si trasferiscono insieme nel Kent, e Lawrence si invaghisce di John, che è stato il suo testimone di nozze.

Il rapporto tra Lawrence e la Mansfield sarà assai contrastato: «Sei un rettile odioso, spero che tu muoia», le scrisse in una lettera che le spedì da Capri quando lei era in Liguria per curarsi.

Ma sarà proprio Lawrence, quando in  Donne in amore raffigurerà la Mansfield nel personaggio di Gudrun, a comprenderne il lato furibondo, che dietro le riservate movenze feline celava i serpenti di Medusa, nutriva una furia senza fine, un odio feroce per l’umanità disordinata e sporca: «il mondo non potrà mai essere ripulito, e io non ho il minimo desiderio di provarci, nemmeno con un piumino da polvere».

L’odio è un sentimento pieno di mistero, più dell’amore, e non è certo sintomo di distacco, ma quella crudeltà che la Mansfield coltivava è la stessa di cui sono intrise le frecce implacabili di Artemide quando senza un’esitazione stermina le figlie di Niobe, che si era vantata di essere più feconda della dea che partorì Artemide e Apollo sull’isola di Delo.

Le frecce della Mansfield, come quelle di Artemide, si scagliano contro la vanità e la tracotanza. Bertrand Russell disse di lei che aveva la capacità di scoprire tutto quello che uno non vuol conoscere di sé, trasformando in carne viva i lati peggiori del carattere che uno vuol nascondere. Un dono meravigliosamente crudele.

Eppure, come il suo aspetto, anche la sua scrittura appare delicata, morbida, amabile. Ma non appena la si penetra un po’, scatena i suoi veleni: sono parole leggere come frecce, e non mancano mai il bersaglio.

Katherine Mansfield fu dura come il diamante nel suo raro coraggio intellettuale, quanto fu morbida con il suo corpo. Ma le passioni che viveva, oscure quanto quella tra Heathcliff e Catherine nel romanzo di Emily Brontë, duravano un breve e infuocatissimo tempo, a volte solo per qualche notte, come quella per un còrso di nome Francis Carco che raggiunse in Francia, carica di passione, per andarsene solo quattro giorni dopo, leggera com’era arrivata.

La realtà l’agganciava sempre: Katherine era in grado di vedere tutte quelle sfumature che rendevano il mondo, e le persone, una farsa tragicomica. Da quel momento, tutti diventavano letteratura. Carco, ad esempio, diventa Raoul nel racconto Je ne parle pas français.

Perchè un rapporto fosse duraturo e non diventasse protagonista trasfigurato di uno dei suoi racconti, ci voleva o un totale annichilimento, come nel caso di Ida Baker, oppure un afflato intellettuale molto forte, come con John Middleton Murry, a cui però scriveva: «Tu mi sei più caro di chiunque al mondo, ma più di ogni altra cosa, più che parlare o ridere o essere felice, io voglio scrivere. Essere l’artista che si taglia l’orecchio e lo inchioda sulla porta, per sentire la voce di chi è fuori».

Sono prima scrittrice e poi donna, gli diceva Katherine. Pensava a John quando ne era lontana e si dedicava ai suoi racconti, ma alla fine era felice di stare da sola: in quei momenti, come lei stessa scrive sul suo diario, sentiva le Muse intorno a sé, e di notte sognava le sorelle Brontë. Con Emily, aveva in comune anche un amore fraterno.

Come la Brontë fu molto legata al fratello Patrick, cosi la Mansfield amava teneramente il fratello Leslie, che la raggunse a Londra nell’inverno del 1915, prima di arruolarsi in Francia. Bisogna qui aprire una breve parentesi: la Prima guerra mondiale sembrò passare sulle teste della gente perchè fu soprattutto una guerra di trincea.

Strombazzata di propaganda e parca di informazione, pareva quasi lontana dalla vita quotidiana, con lo scopo apparentemente nobile di chiudere la stagione degli imperi, ma rivelò i suoi orrori a poco a poco. La Woolf  lo capì, e descrisse le conseguenze di quell’orrore in romanzi come La stanza di Jacob o La signora Dalloway, ma la Mansfield lo visse sulla propria pelle, con la morte del fratello Leslie sul fronte francese.

Da quel momento, da quel dolore immenso, per Katherine cambia tutto: lascia Londra, si ritira nel sud della Francia, vive costantemente aggrappata al fantasma del fratello fin quasi a svegliarsi sentendosi luii; poi immagina la casa in cui vivrà serena con John Middleton Murry, e contemporaneamente brucia di nostalgia per la Nuova Zelanda nel ricordo di Leslie, tornando perfino ad ammirare la madre, donna coraggiosa ma sempre circondata dalla casa, dal marito, dai figli.

E scrive, scrive moltissimo. La madre diventa Linda Burnell nel racconto Preludio, mentre lei stessa si raffigura nella figlia di Linda, Kezia: descrive attraverso le sue piccole cose perfette l’attesa di qualcuno che non viene, di qualcosa che non accade.

Al solito, ogni piccola cosa racconta il vuoto dell’assenza. Ma in questi lunghi mesi di elaborazione del lutto, alla fine qualcosa sembra arrivare: scrivendo, facendo i conti col passato, il presente e il futuro in una sola volta, la Mansfield sembrò capire e accettare definitivamente la sostanza lunare di cui era fatta, e il distacco che l’aveva sempre contraddistinta. Quel sentimento costante di non appartenenza si trasforma ora nella certezza di appartenere al mondo naturale: delle piante, dei fiori, dei boschi e degli animali. Il dominio di Artemide.

Gli anni successivi furono funestati dalla malattia che avanzava, e trascorsero tra la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e la Svizzera, tra la presenza-assenza di John Middleton Murry, che la amava ma aveva anche bisogno di starle lontano, e la vicinanza ossessiva di Ida Baker, che la Mansfield arrivò a odiare, soprattutto durante il terribile soggiorno curativo sulla riviera ligure.

Ma Ida Baker, devota e innamorata, le stette sempre vicino, sia nel complicato ritorno in Inghilterra, che vide le due donne bloccate a Parigi sotto i bombardamenti, sia in quel soggiorno in Liguria che da iniziale paradiso si trasformò in un inferno: la Mansfield divenne spettrale come la Catherine di Cime tempestose,  scrive Citati nella biografia, fu preda di deliri e allucinazioni, la malattia non regrediva, ma il soggiorno ligure fu come una purga, e Katherine sputò tutto l’odio che aveva in corpo.

Ida Baker le fece da parafulmine, e la tempesta improvvisamente cessò. Le due donne tornarono nel sud della Francia, prima ospiti della cugina Connie, poi in una villetta affittata: Ida tornò a farle da ombra, e Katherine a sentirsi parte degli alberi, dei fiori, dei piccoli animali, del giardino, e le pareva di sentirsi come la ninfa Dafne mentre il leggero tocco di Apollo la trasformava in lauro.

Ma venne l’inverno, e il febbraio 1921: la Mansfield si ammalò gravemente, i medici le prescrissero soggiorni in Svizzera, uno chalet tra gli abeti fu la sua casa per due anni, a volte con John, e sempre con Ida: in quel paesaggio rarefatto, con l’alternanza delle stagioni e con la morte che le alitava sul collo, la Mansfield contemplava la bellezza del mondo e si fece sacerdotessa della vita.

Non riuscì mai a credere in Dio, ma avanzò dentro di lei una sorta di misticismo laico, naturale, che si nutriva di silenzio, di musica, di segni e presentimenti.

Scrisse in questo periodo, tra la Liguria la Francia e la Svizzera, i suoi racconti più celebri: ed è qui che la troviamo sussurante, distante e leggera eppure profonda, mentre vicende e personaggi stanno sospesi, come separati dal lettore da un sottile cristallo che allo stesso tempo li rende più chiari e nitidi, ed è questa la grandezza di Katherine Mansfield.

Scrisse L’uomo senza carattere, Le figlie del defunto colonnello, Alla baia, Garden party, Felicità e molti altri racconti: scrivere, scrisse nel diario, è la mia religione.

La Mansfield si arrese alla morte, e la accettò, solo quando si rese conto che la scrittura, come le cure dei medici, non l’avrebbe salvata. Anche la Woolf si lasciò annegare nel fiume quando, circondata dagli orrori della Seconda guerra mondiale, non riusciva più a scrivere.

Alla Mansfield accade lo stesso, e a quel punto fece testamento: a Ida lasciava il suo orologio d’oro, ma a John ordinava di bruciare tutti i manoscritti, i diari e le lettere, e gli scrisse: «desidero lasciare meno tracce possibili del mio luogo di campeggio».  John non le obbedì, ed è grazie a lui, o per colpa sua, che oggi possiamo leggere tutti i pensieri, le lettere, i diari e gli aforismi che Katherine scrisse nella sua breve vita.

Lei voleva che rimanessero solo i racconti già pubblicati, ma John arraffò di lei tutto quello che poteva.

Tornata a Londra dalla Svizzera, la Mansfield rivide il padre, le sorelle, gli amici, e ascoltò le conferenze di Piotr Ouspensky, discepolo del filosofo armeno George Ivanovič Gurdjieff. Fu una folgorazione, come se qualcuno le avesse suggerito dove andare a morire, al modo degli animali. E il 17 ottobre, tornata in Francia, entrò all’Istituto per lo Sviluppo dell’Uomo di Gurdjieff, a Fontainebleau.

Di quei mesi, restano testimonianze contraddittorie sullo stato fisico e mentale di Katherine: la stessa Mansfield, quando vide Gurdjieff per la prima volta, lo paragonò a un commerciante di tappeti, e Pietro Citati nella sua Vita breve di Katherine Mansfield non solo definisce Gurdjieff sinistro cialtrone e grande mistificatore, ma lo chiama assassino, per le dure prove a cui sottopose Katherine a Fointainebleau: lavarsi con l’acqua gelida, sdraiarsi sopra le mucche per ore. Prove che dovevano servire ad elevarsi e liberarsi da tutti i desideri.

Di altro tenore la biografia scritta da Nadia Fusini, La figlia del sole, dove il breve soggiorno nell’Istituto di Gurdjieff, fra danze, meditazioni e lavoro duro, diventa per la Mansfield consapevolezza e accettazione del proprio destino.

La filosofia di Gurdjieff è ben spiegata nel libro di Ouspensky Frammenti di un insegnamento sconosciuto, in cui sono descritti tra l’altro i sette livelli di sviluppo dell’uomo: un pensiero che anche se non ha evidentemente convinto il Citati biografo della Mansfield, ha invece influenzato negli anni molti artisti, come lo scrittore René Daumal, l’architetto Frank Lloyd Wright, i musicisti David Sylvian, Robert Fripp e Franco Battiato.

Ma la Mansfield diventò un caso: Gurdjieff venne additato come “l’uomo che uccise Katherine Mansfield”, anche se il marito John e la fedele Ida Baker affermarono che in quegli ultimi mesi il volto di Katherine era felice e radioso, di inesprimibile bellezza.

Comunque sia andata, la Mansfield morì a Fontainebleau il 9 gennaio 1923, sputò sangue dopo un violento accesso di tosse, e fu sfinita dalla tisi a 34 anni. Ida Baker coprì la sua bara con lo scialle spagnolo che Katherine aveva comprato tanti anni prima. Nel suo diario, la Mansfield aveva scritto: «Al Sole va chi morendo pensa al Sole».

Ora, era certa che il mistero, il non conosciuto, è molto più vasto di quel che si conosce.

 

BIBLIOGRAFIA

Katherine Mansfield:

Tutti i racconti, cura e traduzione di M. del Serra, Roma, Newton Compton, 1996.

Felicità, a cura di M. Ascari, Venezia, Marsilio, 2004.

Quaderno di appunti, Milano, Feltrinelli, 2012.

Diari, a cura di S. Ciampoli, Roma, Robin, 2011.

Lettere, a cura di M. Dandolo, Roma, Elliott, 2016.

Pietro Citati, Vita breve di Katherine Mansfield, Milano, Adelphi, 2014.

Nadia Fusini, La figlia del sole. Vita ardente di Katherine Mansfield, Milano, Mondadori, 2014.

AA.VV. Le eccentriche. Scrittrici del Novecento, Mantova, Le Tre Lune, 2003.

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