Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

La tragedia di un uomo mite

«Tutto quello che ho è in quella banca. È il lavoro di una vita». Nella precarietà che caratterizza la vita di oggi, il tema del lavoro è uno dei più drammatici ed è portatore di sofferenza. Cento domeniche, di e con Antonio Albanese, è un film che sa analizzare la società odierna mostrandola con gli occhi di chi ne è vittima, un bell’esempio di cinema civile, in cui si accusa la spregiudicatezza degli istituti bancari, e in cui si respira un senso di vero, di realtà, di vita – in parte – vissuta.

Mariapia Frigerio

La tragedia di un uomo mite

C’è ancora domani e Cento domeniche sono due film usciti quasi in contemporanea (in ottobre il primo, in novembre il secondo) di due attori che interpretano con grande talento, indistintamente, parti drammatiche o comiche.

A volte persino insieme. È il caso di Come un gatto in tangenziale.

Si parla, ovviamente, di Paola Cortellesi e di Antonio Albanese, bravissimi entrambi, ma nel caso della Cortellesi troviamo tutto il clamore per il suo primo film un po’ esagerato.

Bella la seppiatura di C’è ancora domani, ma chi non ricorda lo stesso “trattamento” della pellicola in un film di tutt’altra levatura come Una giornata particolare di Ettore Scola?

E a ben vedere anche lì il tema della donna sottomessa, priva di qualsiasi coscienza di sé, pronta a subire le angherie del marito come se queste fossero naturali, era già stato affrontato e in modo impareggiabile.

Il film della Cortellesi, che sembra essere ormai diventato il manifesto delle donne, delle donne uccise dalla violenza maschile e dal patriarcato (parola fin troppo abusata), è in realtà un filmino ben costruito, gradevole, che, con la stessa rapidità, si vede e si dimentica.

Nel film di Albanese la tragedia, invece, incombe e si concretizza, perché la vicenda dell’imbroglio al padre dell’Emilia, Antonio Riva, ex tornitore (lui stesso è stato tornitore nella fabbrica di Olginate) prende allo stomaco lo spettatore.

Antonio è un buono, una persona mite, che, quando la figlia gli annuncia l’intenzione di sposarsi, vede realizzarsi il suo sogno, anzi il loro sogno, perché era un loro vecchio gioco comune immaginare quel matrimonio, con marcia nuziale e velo bianco. Fin dalla più tenera infanzia della bambina.

E infatti Antonio condividerà la notizia con la madre, che abita con lui e che lui amorevolmente accudisce, quasi con un grido, e non tanto perché la madre ci sente poco, ma perché in quel grido c’è tutto il suo entusiasmo: «La se spusa l’Emilia, te capì?».

Poi chiederà agli amici delle bocce quanto occorre per fare un bel matrimonio. È 30.000 euro la cifra che gli viene consigliata.

Allora si rivolgerà al suo istituto bancario, al suo e di tutti i lavoratori del paese sulle sponde del lago di Lecco.

Un lago di Lecco («quel ramo del lago di Como») che, come nel romanzo manzoniano, dopo un inizio lieto farà da sfondo alla tragedia delle persone semplici, alla tragedia dell’uomo comune.

Qui il protagonista si scontrerà con un mondo senza valori, in cui le sue obbligazioni sono divenute, a sua insaputa, azioni «che viaggiano a vele spiegate».

Antonio chiederà consiglio anche al suo ex datore di lavoro, uomo bonario che gli permette di gestire pollaio e orto nella sua proprietà, ma che ugualmente non si è fatto scrupolo nel prepensionarlo per suo comodo e che minimizza la situazione bancaria pur essendone bene a conoscenza.

E a poco a poco la fiducia tra le persone viene meno, come viene meno la solidarietà.

Questo di Albanese è un bell’esempio di cinema civile, in cui si accusa la spregiudicatezza degli istituti bancari. In cui si respira un senso di vero, di realtà, di vita – in parte – vissuta.

E le frasi che dice Antonio a proposito sono laceranti, da «Io mi fidavo, mi son sempre fidato» a «Tutto quello che ho è in quella banca. È il lavoro di una vita».

Nella precarietà che caratterizza la vita di oggi, il tema del lavoro è uno dei più drammatici ed è portatore di sofferenza.

Ecco che allora Albanese ha colto nel segno.

Un Antonio Albanese che si conferma attore di grande sensibilità, che sa analizzare la società odierna mostrandola con gli occhi di chi ne è vittima.

E si capisce perché registi del calibro di Carlo Mazzacurati e di Silvio Soldini lo abbiano scelto come protagonista per due film che hanno lasciato il segno.

Mazzacurati nel ’96 in Vesna va veloce e Soldini nel 2007 in Giorni e nuvole, quest’ultimo ancora sul tema del lavoro, più precisamente, sul tema della perdita di lavoro.

Se Albanese è degno di menzione per la sua interpretazione, degno di menzione è pure per la scelta degli attori di cui si è circondato, da una sublime Giulia Lazzarini, che dà alla madre del protagonista, il fascino della mente che si perde con la vecchiaia, in una sorta di leggiadra smemoratezza al grande Elio De Capitani, falso e mellifluo datore di lavoro. Da innamorarsi della prima, da detestare il secondo.

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