Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

L’incanto di Scheria

Ritornare ai classici. Una terra remota e favolosa, nella quale convivono la dimensione dello spazio fantastico e quella del mondo umano. È indubbio che una parte significativa del fascino di questo luogo si deve alla figura, incantevole e indimenticabile, della giovane Nausicaa e alla storia, delicatamente accennata ma rimasta incompiuta, del suo idillio con Ulisse

Anna Ferrari

L’incanto di Scheria

Di tutta l’indefinibile geografia omerica dell’Odissea non c’è forse luogo più accattivante e misterioso di Scheria: una terra remota e favolosa, che rivela solo un poco alla volta il fascino dei suoi paesaggi, celati dietro inaccessibili e altissime scogliere, e nella quale convivono la dimensione dello spazio fantastico e quella del mondo umano. Scheria è l’isola del popolo dei Feaci, del loro re Alcinoo, della loro regina Arete e della figlia dei due, Nausicaa; è il luogo dove Ulisse approda dopo essere salpato da un’altra isola, Ogigia, e da dove ripartirà per l’ultimo tratto del suo interminabile viaggio che lo porterà finalmente a Itaca.

È indubbio che una parte significativa del fascino di Scheria si deve alla figura, incantevole e indimenticabile, della giovane Nausicaa e alla storia, delicatamente accennata ma rimasta incompiuta, del suo idillio con Ulisse. Lo mette in pieno risalto un libro agile e seducente, Omero, Nausicaa e l’idillio mancato di Giorgio Ieranò (il Mulino, Bologna 2023), che ricostruisce con sapienza e insieme con garbo accattivante la vicenda narrata da Omero nel VI e VII canto dell’Odissea, evidenziando il ruolo centrale di Scheria nella dinamica del poema e al tempo stesso sottolineandone la sostanziale indecifrabilità.

Tutto, nella vicenda di Ulisse a Scheria, appare indecifrabile, a partire dalla natura stessa dell’isola: che sia un’isola vera e propria, per esempio, non viene mai esplicitamente detto, e qualcuno oggi ne dubita, anche se sulla sua natura insulare i commentatori di Omero anticamente sembravano non avere dubbi. Che ci sia, ciascun lo dice; ma dove Scheria sia, nessun lo sa.

Certo è che si trova lontano dalle rotte percorse dagli uomini, anche perché i suoi abitanti, il felice popolo dei Feaci, risiedevano un tempo nella remota regione chiamata Iperea, ossia “al di là”, oltre l’orizzonte: solo in un secondo tempo essi, che erano imparentati, stranamente, con i violenti e brutali Ciclopi, per salvarsi dalle loro razzie seguirono il proprio capo Nausitoo in quella nuova terra che doveva assicurare loro protezione e difesa e doveva essere, a quanto pare, ancora più lontana e inavvicinabile.

All’opposto dei Ciclopi, che incarnano la forza bruta e uno stadio primitivo di civiltà, i Feaci sono un popolo raffinatissimo; il loro paese presenta i caratteri dell’utopia, e forse anche per questo non si fatica a immaginare Scheria come un’isola (qualcuno ha pensato a Corfù): perché i luoghi ideali sono lontani dalle coordinate geografiche di questo mondo, e come le isole che sembrano svanire all’orizzonte sono spesso circondati dal mare, con le sue insidie che li rendono inaccessibili.

Scheria è dunque sfuggente  come una terra utopica, al pari delle Isole dei Beati o dell’Età dell’Oro; ha un clima benedetto, caratterizzato da un’eterna primavera, e i suoi campi producono spontaneamente tutto ciò di cui si può aver bisogno, dispensando gli uomini dal lavoro e consentendo loro di trascorrere il tempo nei piacevoli svaghi offerti dalla reggia di Alcinoo. Favorita dalla natura, è però anche arricchita dai ritrovati più sofisticati dell’arte e della tecnica: indimenticabili sono i cani d’oro e d’argento plasmati da Efesto, che, come perfetti automi, fanno la guardia alle porte della reggia. Solo nel palazzo degli dèi sull’Olimpo si può trovare qualcosa di  simile.

Non diversamente, le navi dei Feaci, popolo di grandi ed esperti navigatori, viaggiano da sole, non possono essere distrutte e sono pilotate dalla sola forza della mente.  Siamo ai confini della magia, davanti agli incantesimi del sogno.

Proprio il sogno e il sonno, come fa notare Ieranò nel suo libro, aleggiano su ogni verso dei canti VI e VII dell’Odissea dedicati alle avventure di Ulisse a Scheria. Dorme Ulisse dopo essere stato sbattuto, naufrago, sulla costa di Scheria; e mentre lui dorme all’aperto su un mucchio di foglie, “dietro le porte luminose” nella reggia di Alcinoo dorme la bella Nausicaa, alla quale Atena appare in sogno per indurla ad andare il giorno dopo alla spiaggia  a fare il bucato, giacché deve farsi trovare pronta per il matrimonio che ormai non può tardare troppo.

Le “porte luminose” sono quelle della stanza della ragazza; ma è difficile sottrarsi alla reminiscenza di altre porte, quelle dei sogni, dietro le quali – d’avorio e d’osso – secondo la tradizione si trovano i sogni, che in base alla soglia attraverso la quale passano per entrare nel mondo degli uomini saranno veritieri o ingannevoli. La topografia del sonno prevede infatti un confine preciso tra la veglia e lo spazio del sogno, e le porte rimarcano tale confine con grande evidenza.

Quando, il giorno dopo, Nausicaa segue il consiglio che le è arrivato dal sogno e si reca sulla spiaggia, dove avverrà l’incontro con Ulisse, c’è di nuovo un accenno al trapasso dal sonno alla veglia, quando la ragazza e le sue ancelle giocando a palla lanciano un grido che sveglia l’eroe ancora addormentato.

Ulisse si sveglia, ma è confuso e come stordito, incapace di distinguere l’origine di quelle voci che gli sembrano provenire, chissà, dalle ninfe; e tutto ciò che avviene dopo è come avvolto da quella sensazione straniante, che mescola realtà e immaginazione, concretezza e visione, divino e umano, sonno e veglia, come si conviene a una terra speciale, “remota, in mezzo al mare tempestoso, ai confini del mondo”:  così osserva Nausicaa, che sottolinea l’isolamento totale della sua gente con la quale nessun altro mortale ha rapporti (“questa è gente che non sopporta molto gli stranieri”, afferma la ragazza poco oltre).

Fiabesco è l’arrivo di Ulisse al palazzo di Alcinoo, dove compare dopo essere stato avvolto da una densa foschia per volere di Atena, in modo da passare inosservato; e prima di entrare si ferma meditabondo davanti alle solenni e luccicanti porte della reggia (“erano d’oro le porte che serravano la poderosa dimora, stipiti d’argento sormontavano le porte di bronzo, d’argento erano gli architravi, d’oro i battenti”), di nuovo evocando, forse (chissà?), quelle porte dei sogni che alludono a una dimensione altra e inafferrabile.

L’insistenza sulle porte sembra non essere casuale, anche se esplicitamente le porte dei sogni non sono mai citate, e si affianca alla descrizione degli straordinari automi che vigilano sull’ingresso in forma di cani d’oro e d’argento e in forma di ragazzi d’oro che reggono fiaccole.

Ai confini tra mondo umano e mondo soprannaturale appaiono poi i membri della famiglia reale riuniti nella grande sala, presentati come stirpe divina, discendenti direttamente da Poseidone signore del mare (anche Arete, la regina, è simile a una dea, e come tale la considera il suo popolo).

E a completare un quadro dall’apparenza incantata e come magica viene descritto il grande giardino recintato che richiama i Campi Elisi e che viene esplicitamente menzionato come un dono degli dèi. Dopo essere stato accolto nella sala del palazzo, infine, e aver saziato la fame che, molto prosaicamente, lo divora, Ulisse tornerà a dormire, e gli ultimi versi del canto VII ci presentano l’eroe sdraiato su un letto sotto il portico e i padroni di casa, Alcinoo e Arete, stesi sul talamo nella loro stanza da letto.

Così la dimensione onirica viene ribadita a suggellare con un velo impalpabile l’intero episodio, che sembra suscitare un sospetto: forse, chissà, tutto non è stato altro che un sogno. Tra le molte interpretazioni fantasiose che nel corso dei secoli sono state proposte per i viaggi di Ulisse potrebbe esserci spazio anche per questa. Che non è suggerita da Ieranò, beninteso, anche perché il suo discorso punta in un’altra direzione, verso l’indagine sui sentimenti della giovane Nausicaa e verso il suo mancato idillio con Ulisse.

Un mancato idillio che è una specie di incantevole fiaba, e delle fiabe ha molti degli ingredienti essenziali: la protagonista bellissima, il protagonista che si rivela diverso da quello che sembra e che solo in un secondo momento svela la propria reale identità, l’ambientazione in un luogo remoto e inaccessibile, la presenza del soprannaturale, il finale sospeso.

Non sarebbe sorprendente scoprire che quella di Ulisse e Nausicaa era una splendida favola originariamente indipendente dai racconti dell’Odissea ma in essa confluita ad opera di un cantore che sapeva tessere insieme storie diverse con straordinaria maestria. Su Omero è stato detto di tutto (anche che non è mai esistito, o che era una donna, o che veniva dal Baltico, o ancora che narrava di viaggi spaziali…), e Ieranò nel suo libro non manca di ricordare qualcuna di queste interpretazioni più o meno bizzarre.

Che si possa continuare a fantasticare sul vate cieco, in fin dei conti, non è che l’ennesima prova della capacità del mito di parlare al suo pubblico. Antico o moderno che sia.

In apertura, Juan de Valdés Leal (1622-1690) The Immaculate Conception of the Virgin, with Two Donors, probably 1661. The Immaculate Conception represents the belief that Mary was conceived without sin. She is shown standing on the moon and surrounded by cherubs who bear her emblems. The subject was especially popular in Seville, where Valdés Leal worked. The identity of the donors is not known. Foto di Olio Officina©

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