Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Miti d’inverno

Ritornare ai classici. La Grecia antica, che ci viene spontaneo collegare all’immagine del mare, aveva però un territorio montuoso dove il clima nel periodo invernale poteva diventare molto rigido, e non ignorava la neve, associata inoltre nei testi letterari antichi a terre lontane, spesso aspre e selvagge. Di quei paesaggi rudi e freddi la neve e il ghiaccio erano elementi essenziali. Può allora essere interessante provare a vedere che idea se ne fossero fatta scrittori e poeti classici, anche quelli che per ragioni geografiche non avevano con essi particolare dimestichezza

Anna Ferrari

Miti d’inverno

Descrivendo i Campi Elisi, paradiso dall’eterna primavera riservato ai beati, Omero, nell’Odissea, associa quel luogo incantevole a precise caratteristiche climatiche: “non c’è nevicata né gelo invernale né pioggia, ma senza posa l’Oceano invia, a rinfrescare gli umani, brezze di Zefiro che spira sonoro” (IV, 563-68). Non fa troppo freddo d’inverno né troppo caldo d’estate; e l’inverno, in particolare, non è funestato dalla neve e dal ghiaccio che noi associamo di solito (ma per quanto tempo ancora?) alla stagione fredda.

La Grecia antica, che ci viene spontaneo collegare all’immagine del mare, aveva però un territorio montuoso dove il clima nel periodo invernale poteva diventare molto rigido, e non ignorava la neve, associata inoltre nei testi letterari antichi a terre lontane, spesso aspre e selvagge. Di quei paesaggi rudi e freddi la neve e il ghiaccio erano elementi essenziali. Può allora essere interessante provare a vedere che idea se ne fossero fatta scrittori e poeti classici, anche quelli che per ragioni geografiche non avevano con essi particolare dimestichezza.

Benché meno violenta ed estrema della pioggia nelle sue manifestazioni, anche la neve, come tutti gli eventi naturali, poteva a seconda dei casi spaventare gli uomini, stupirli o affascinarli. Per spiegare l’etimologia del nome della neve, in greco chion, il mito aveva scomodato un dio, Poseidone, e un’isola dal nome simile a quello della neve, Chìos.

Situata a circa otto chilometri dalla costa turca, di fronte alla penisola di Eritre, essa si trovava lungo la rotta degli eroi greci che, dopo la guerra di Troia, intrapresero il viaggio di ritorno in patria.

Per una volta, però, gli eroi della guerra di Troia qui non c’entrano: una tradizione leggendaria raccontava che “Poseidone giunse sull’isola quando questa era priva di abitanti e qui si unì a una ninfa; durante il parto della ninfa dal cielo cadde della neve (chion) e di conseguenza Poseidone impose al neonato il nome di Chio”, nome che sarebbe poi passato all’isola stessa (Pausania, VII, 4, 8). In modo singolare e suggestivo, la neve che caratterizza di solito le montagne veniva qui messa dal mito in relazione col dio Poseidone, signore degli abissi marini.

Più spesso però la neve appare collegata non alle assolate isole dell’Egeo, bensì alle terre più selvagge,  montane o collocate agli estremi confini settentrionali del mondo. Regioni con le quali si aveva scarsa familiarità, e che per questo venivano descritte spesso con toni favolosi e pieni di mistero.

Plinio il Vecchio, per esempio, riprendendo fonti più antiche, e come lui Strabone, descrivono con un certo stupore, parlando della leggendaria e favolosa isola nordica di Thule, il fenomeno del mare solidificato, il mare concretum, ossia la banchisa polare, chiamato Cronio, a distanza di un solo giorno di navigazione da Thule (Plinio, Nat. Hist., IV, 104; Strabone, I, 4, 2).

Lo stesso Plinio, altrove, ricorda poi che a ridosso dei Monti Ripei, una catena da alcuni identificata con le Alpi o gli Urali, ma spesso collocata ancora più a nord, si trovava una regione chiamata Pteroforo, ossia ‘piumata’, “per i fiocchi di neve che vi cadono ininterrottamente, a somiglianza di piume: una zona del mondo condannata dalla natura, affondata in una foschia compatta, sottoposta solo all’azione del freddo, gelida tana per il vento del Nord” (Nat. Hist., IV, 88). Anche nella nordica Scizia, situata nel più remoto settentrione, si estendevano terre inavvicinabili e inquietanti: “non è possibile, si dice, né vederle né attraversarle, a causa delle piume che vi cadono: sia la terra che l’aria ne sarebbero piene e proprio le piume impedirebbero la visuale”. A scriverlo è lo storico greco Erodoto (IV,  7, 3) ed è lui stesso a precisare che le piume sono da identificare anche qui con i fiocchi di neve: “i fiocchi di neve assomigliano a piume […]; credo dunque che gli Sciti e i loro vicini, ricorrendo a un’immagine, chiamino piume la neve” (IV, 31, 2).

Se le montagne sono il luogo naturale sul quale si incontra la neve, esiste però un monte speciale sulla cui vetta gli agenti atmosferici, compresa la neve, non trovano spazio per manifestarsi: è l’Olimpo, la montagna degli dèi, la cui cima imperturbabile “non da venti è squassata, mai dalla pioggia è bagnata, non cade la neve, ma l’etere sempre si stende privo di nubi, candida scorre la luce: là il giorno intero godono i numi beati” (Odissea, VI, 43-46).  Al contrario, il Citerone, monte della Beozia ai confini con l’Attica, teatro dei culti di Dioniso, è perennemente incappucciato di neve, come scrive Euripide nelle Baccanti (“Il Citerone, dove non cessano mai i bianchi fiocchi della neve splendente”, vv. 661-662).

Innevate erano anche le cime del Caucaso, i cui abitanti solevano coprirsi i piedi con apposite calzature fatte di pelli di bue e irte di spunzoni, simili ai moderni ramponi, per non scivolare sul ghiaccio e sulla neve che copriva le vette anche d’estate; per scendere a valle i caucasici, anticipando di svariati secoli l’invenzione degli sport invernali,  si sedevano su grandi pelli di animali e si lasciavano scivolare sulla superficie nevosa, in una specie di discesa in slittino ante litteram (Strabone, XI, 5, 6).

L’episodio mitico più famoso che abbia a che fare con la neve è probabilmente quello del cinghiale d’Erimanto, che si aggirava presso il massiccio omonimo, tra l’Arcadia e l’Elide (Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 126-127); la belva devastava la regione e sembrava che non ci fosse modo di liberarsi da quel flagello. Nell’impari lotta si cimentò Eracle, che aveva avuto ordine dal re Euristeo di portargli vivo il gigantesco animale. Egli riuscì a fiaccarne la resistenza inseguendolo a lungo nella neve alta della montagna; se ne impadronì catturandolo con le reti e così legato lo portò al re.

La belva era di mole così imponente e spaventosa che quando lo vide Euristeo, terrorizzato, scappò a nascondersi entro una botte di bronzo (Diodoro Siculo, IV, 7; la scena appare più volte rappresentata sulla ceramica greca, in gustose raffigurazioni satiriche). La pesantezza goffa e massiccia del cinghiale e la potenza tutta muscoli di Eracle creavano un vivace contrasto con la soffice leggerezza suggerita dalla neve dei monti.

Non propriamente al mito, ma a una una leggenda forse non priva di verità si faceva risalire una diceria che circolava a proposito dell’imperatore Eliogabalo: si diceva che durante un’estate particolarmente calda avesse fatto raccogliere della neve sufficiente a innalzare una montagna nel giardino della sua dimora (Historia Augusta, Eliogabalo, XXIII, 8). La frescura assicurata dalla neve doveva costituire un meraviglioso refrigerio dalla canicola, e l’imperatore non aveva badato a spese per assicurarsi quel principesco piacere.

Il fresco sollievo offerto dalla neve nella calura estiva aveva il suo contraltare nel gelo che caratterizzava le pendici dei monti. Lo constatò Annibale, che nella sua calata in Italia passò attraverso un imprecisato valico alpino (il Moncenisio, il Monginevro, il Grande o il Piccolo San Bernardo?) in un’impresa che assunse ben presto le sfumature della leggenda. Per incitare i soldati a continuare nella marcia verso Roma una volta superata la barriera alpina, Annibale non esiterà a ricordare che indietro non si può tornare, proprio perché bisognerebbe riattraversare quelle giogaie tanto pericolose; cosicché è giocoforza “vincere o morire”, secondo un’espressione diventata poi proverbiale (Livio, XXI, 43, 5: “Hic vincendum aut moriendum”).

Quell’impressionante avventura ispirò anche alcuni versi drammatici di Silio Italico, che rievoca nella sua Guerra Punica la calata di Annibale in Italia: benché arrivare fino ai piedi di quei monti non fosse stata una semplice passeggiata, “ogni ricordo delle prove passate svanì quando gli occhi spaventati dei soldati videro le Alpi da vicino: là tutto è coperto da uno strato di ghiaccio […] Fino al cielo la montagna erge una parete ripida e fredda, e nonostante l’ardore di Febo che la colpisce fin dal suo sorgere, essa non può sciogliere ai raggi del sole la sua neve indurita” (III, 477 ss.).

Nonostante le parole d’incoraggiamento di Annibale, i soldati devono duramente lottare contro l’avversità dell’ambiente, contro il ghiaccio che resiste al ferro, contro i crepacci che si aprono improvvisi e li inghiottono, contro le valanghe che rotolano dalle cime. Qui non c’è nulla della soave poesia dei fiocchi di neve come piume leggere d’uccello; qui c’è la natura fiera e ostile contro la quale è vano battersi. E un nuovo pericolo si aggiunge ai molti altri, quello di “lasciare nella neve un membro sezionato dal ghiaccio” o di perderlo, dopo la frattura, a causa dell’irrigidimento dovuto al freddo (Ibid., III, 552-553).

Oltre alle Alpi, numerose sono nella letteratura antica le montagne che offrono spettacolari paesaggi di neve e di ghiaccio. Leggiamo Orazio:  “Vedi come il Soratte si leva biancheggiante di molta neve, né ormai reggono al peso le selve sovraccariche, e i fiumi stanno fermi per il ghiaccio pungente” (Odi, I, ix, 1-4). Oppure Stazio, che sottolinea l’elemento del gelo e del ghiaccio parlando di due monti famosi, l’ “Ossa indurito dal gelo” e il “Pelio ghiacciato” (Tebaide, VI, 720-721).

O ancora Strabone, che descrive gli scenari innevati dell’Armenia: “Là, si dice, sui colli delle montagne, capita spesso che intere carovane vengano inghiottite dalla neve, per il fatto che essa in quei luoghi cade in abbondanza. Per mettersi al sicuro da tali pericoli i viaggiatori si muniscono di bastoni che sollevano fino alla superficie della neve, al tempo stesso per poter respirare e per segnalare la loro presenza a quelli che passeranno dopo di loro, sperando che in tal modo possano essere soccorsi, che si possa scavare la neve là dove essi si trovano e che li si possa salvare dalla morte”.

Un sistema, come si vede, ingegnoso e sostenuto da un certo ottimismo, che anticipa di svariati secoli gli accorgimenti degli scialpinisti di oggi.

“Si ritiene anche che all’interno della neve si formino come delle bolle gelate, cave al loro interno, che racchiudono un’acqua eccellente”, dove nascono, per generazione spontanea, degli animali simili a larve. Ma soprattutto, “in queste bolle è trattenuta un’acqua squisita che si beve dopo aver spaccato l’involucro di ghiaccio” (Strabone, XI, 14, 4).

Nessuna descrizione di paesaggi sotto la neve assume però tonalità più impressionanti di quella che Ovidio riserva a un’inquietante sequenza di creature mitiche, tra le quali spicca la Fame. Nel Caucaso, “montagna ghiacciata” situata in un luogo remoto e isolato della gelida Scizia, essa ha la sua sede: “C’è nelle estreme contrade della Scizia un luogo gelato, una terra desolata, sterile, priva d’alberi e di messi; abitano lì l’inerte Gelo, il Pallore, il Brivido e la Fame digiuna” (Ovidio, Metamorfosi, VIII, 788-791).

Altri tempi, altri luoghi, altre credenze: non, come oggi, gli inverni miti, bensì piuttosto i miti dell’inverno.

In apertura, foto di Olio Officina©

Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui

Commenta la notizia

Iscriviti alle
newsletter