Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Nuovi approcci al mondo animale tra tarda antichità e Medioevo

Ritornare ai classici. Nel Medioevo gli animali diventano il campo in cui si coltivano metafore infinite. Dopo l’età classica, il Medioevo cristiano è l’epoca in cui si affacciano maggiormente all’arte incredibili animali ibridi, mostruosi, frutto di una complicata fantasia. Gli animali fantastici si fanno carico di rappresentare non solo gli aspetti irrazionali e oscuri della vita e del mondo, ma l'infinita e molteplice varietà di ciò che si cela al di là delle cose del mondo

Anna Ferrari

Nuovi approcci al mondo animale tra tarda antichità e Medioevo

Animali e tradizione cristiana

Nella tradizione religiosa cristiana delle origini gli animali ricorrono con frequenza nella simbologia cristologica. Il cristianesimo delle origini si trovava di fronte alla presenza di una ricca serie di riferimenti al mondo della natura citati nelle Sacre Scritture: a partire dalla descrizione biblica dell’Eden e della natura rigogliosa che lo popolava, via via, attraverso il racconto di Giona nel ventre della balena o di Daniele nella fossa dei leoni, gli episodi della storia del popolo eletto che era un popolo di pastori e viveva in un mondo agropastorale, fino alle vicende dei discepoli di Cristo, molti dei quali pescatori, i legami con il mondo naturale offerti dai testi sacri erano molti. Cristo stesso, attraverso le immagini evocate in molte delle sue parabole, aveva creato una fitta serie di riferimenti che attingevano al mondo naturale e alle figure di animali più familiari ai suoi discepoli: il buon pastore e la pecorella smarrita, i “pescatori di uomini”, gli “uccelli del cielo” che non mietono e non seminano, e un gran numero di altre immagini, fino a quella dell’agnello del sacrificio supremo.

Al tempo stesso, l’iconografia cristiana delle origini, nei sarcofagi come nelle pitture delle catacombe o nei mosaici delle basiliche paleocristiane, si trova a dover fare i conti con la necessità di esprimere contenuti del tutto nuovi senza disporre, ancora, di un apparato di simboli codificato. E’ inevitabile, quindi, che essa attinga all’arte pagana; e che progressivamente soggetti e immagini già presenti nella tradizionale iconografia classica si carichino di nuovi significati, assumendo poco per volta nuovi valori e consolidando progressivamente le piccole ma significative variazioni che rispetto alla tradizione si rendono necessarie.

Perciò, per esempio, per esprimere l’immagine centrale del buon pastore, che ha un ruolo tanto importante nella predicazione cristiana, è inevitabile che gli artigiani cristiani delle origini si guardino intorno e attingano, tra le innumerevoli iconografie consolidate dalla tradizione classica, a quella che più sembra avvicinarsi per forma, se non per contenuti, al concetto che devono esprimere. Così la raffigurazione tradizionale di Orfeo, il cantore tracio che con la sua cetra sapeva incantare tutte le creature e addomesticare anche le fiere, può diventare un buon modello, fatte salve alcune piccole modifiche allo schema iconografico di fondo, per l’immagine del buon pastore.

 

I due volti di Orfeo: da cantore tracio a Buon Pastore

La vicenda delle trasformazioni di Orfeo è interessante e curiosa. In origine Orfeo, considerato il più antico e venerato poeta dell’antichità, prima ancora di Omero, partecipò alla spedizione degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro e visse dunque ottant’anni prima della guerra di Troia, almeno stando alle cronologie tradizionali. Suo padre Apollo gli fece dono della lira, le Muse gli insegnarono a suonarla e da quel momento egli divenne il più incantevole dei cantori, capace di muovere, dietro le soavi note del suo strumento, non solo le creature più selvagge, ma persino gli oggetti inanimati. È nota la sua tragica, successiva vicenda con la ninfa Euridice, della quale si innamorò, che sposò ma che morì prematuramente: il grande scacco di Orfeo consistette nel non riuscire a salvarla dagli inferi, dove pure era sceso e aveva ottenuto di portarla seco nel mondo dei vivi, a condizione che non si voltasse indietro a guardarla. Cosa che al suo cuore pieno d’amore e di desiderio non riuscì. La definitiva perdita di Euridice trasformò il soave cantore in un misogino incallito, che le donne tracie alla fine uccisero facendolo a pezzi. Il complesso problema delle credenze e dei riti raccolti sotto la definizione di “misteri orfici”, legati alla figura di Orfeo e a noi solo lacunosamente noti per l’appunto per la loro caratteristica di credenze di tipo misterico, riservate cioè ai soli iniziati, non interessa qui in modo specifico; è importante però sottolineare che la vita degli iniziati sembra fosse condizionata da una serie di proibizioni e prescrizioni di tipo alimentare (dieta di tipo strettamente vegetariano, proibizione di mangiare fagioli, uova e di bere vino) e dall’astinenza sessuale. Platone dava una spiegazione per tali rinunce, attribuendo ad Orfeo e agli orfici la convinzione che “l’anima debba soffrire delle punizioni” in questa vita e che essa sia tenuta rinchiusa e prigioniera nel corpo, che la deve proteggere “finché essa non abbia pagato il dovuto”. La colpa originaria che va espiata è quella dell’uccisione di Dioniso da parte dei Titani: una sorta di peccato originale che deve essere espiato fino in fondo con la sottomissione della carne e con un sostanziale capovolgimento di tutti i valori tradizionali della vita, che deve essere sentita come espiazione (e da questo concetto nasce per l’orfismo la proibizione del suicidio, che a tale espiazione metterebbe anticipatamente e indebitamente fine). E’ evidente che una simile concezione della vita come sofferenza ed espiazione poteva offrire una ragione all’esistenza delle classi più povere, che trovavano un perché ai loro patimenti; ma è ancora più evidente che il cristianesimo non poteva non sottolineare, con tale concezione, le affinità insite nella propria dottrina, e vedere quindi in Orfeo non solo un riferimento iconograficamente molto pertinente per la figura del buon pastore evangelico, ma addirittura un personaggio singolarmente vicino alle convinzioni più profonde del cristianesimo delle origini. Non appariva dunque blasfemo ricorrere a una figura della mitologia pagana come questa per esprimere un concetto tipicamente cristiano.

 

Animali e iconografia cristiana

Altre immagini legate al mondo animale ricorrono con frequenza nell’arte cristiana delle origini. La più caratteristica è quella del pesce, che diventa simbolo del Cristo per eccellenza in quanto la parola greca che indica il pesce (ichthus) può essere interpretata come acrostico delle parole, anch’esse greche, che significano “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. La presenza del pesce è frequente specie nelle pitture catacombali e ricorre regolarmente soprattutto in contesti funerari. Le creature delle acque erano spesso collegate, anche nella mitologia classica, all’idea della salvezza. Un animale che pesce non è, ma che tuttavia vive nelle acque e come pesce era correntemente considerato, il delfino, secondo la tradizione aveva salvato Arione: dunque l’idea del pesce come salvatore entrò con una certa facilità nella tradizione iconografica cristiana, trovando il terreno già pronto per questo tipo d’interpretazione. L’associazione del pesce con il pane, se non allude velatamente al miracolo della moltiplicazione del pane e dei pesci, è simbolo dell’ultima cena e della mensa eucaristica.

Con l’aquila e con l’agnello, il gallo è emblema di Cristo. La presenza di questo animale in contesto funerario, soprattutto sui sarcofagi, è però legata, oltre che al suo generico simbolismo religioso, anche al riferimento preciso a una figura di apostolo, quella di Pietro, che prima che il gallo cantasse rinnegò Cristo tre volte, secondo il racconto evangelico. Il gallo poi può avere un terzo significato, quello di ammonimento e di invito: come il canto del gallo è, nella vita quotidiana, il richiamo alle attività del giorno, così l’immagine del gallo rappresenta il monito alla vigilanza del cristiano. Gli animali assumono dunque nell’iconografia cristiana un significato triplice: da una parte sono elementi narrativi che contribuiscono a far comprendere immediatamente a quale episodio della storia sacra si sta facendo riferimento;  dall’altra possono essere interpretati nel loro valore e significato simbolico, soprattutto in quelle epoche del cristianesimo primitivo in cui era essenziale tenere nascoste le proprie convinzioni religiose per sfuggire alle persecuzioni; e infine fungono da insegnamento e da ammonimento, trasmettendo un precetto morale. È evidente che in questa polivalenza delle immagini dell’arte cristiana un ruolo fondamentale è affidato all’osservatore, al fedele che deve guardare, comprendere e interpretare su piani diversi ciò che vede. Perché ciò che vede sono, prima di tutto, figure che scaturiscono dalla tradizione delle botteghe artigiane dell’impero di Roma, e sono quindi estremamente vicine alle opere d’arte pagane.

Con la diffusione del cristianesimo e l’acquisizione di una progressiva autonomia del patrimonio figurativo cristiano rispetto a quello pagano, anche le figure degli animali si moltiplicano e acquistano un rilievo particolare soprattutto nelle immagini dei santi. La tradizione agiografica e le vite dei santi si popolano di aneddoti dove gli animali acquistano spesso un ruolo di protagonisti; gli animali diventano attributi inseparabili di alcuni santi e aiutano i fedeli a riconoscere immediatamente il personaggio rappresentato nelle sculture delle chiese o nelle pale d’altare. Fioriscono racconti e leggende: san Francesco che predica agli uccelli o che ammansisce il lupo di Gubbio, san Giorgio che uccide quell’essere mostruoso, a metà fra un serpente e un dinosauro, che è il drago, san Gerolamo nel deserto che si intrattiene con un leone, sant’Antonio abate che si affianca regolarmente a un porcellino; e poi gli animali che simboleggiano i quattro evangelisti; per non parlare di quelli che, nelle arti figurative, si assoceranno nei secoli successivi alle immagini della Vergine col Bambino: la Madonna del cardellino, il piccolo Gesù con un uccelletto fra le mani, la celebre duereriana Madonna della scimmia, eccetera. L’elenco di queste presenze sarebbe infinito.

In tutti questi casi, ci troviamo di fronte a una situazione singolare. Gli animali sembrano perdere, nel corso della storia biblica, gran parte della loro importanza e della loro dignità rispetto all’uomo a mano a mano che il tempo passa. Alle origini della creazione Adamo dà il nome a tutte le creature dell’Eden, che hanno una posizione rispetto a lui sicuramente subordinata, ma che tuttavia sono le prime creature del mondo dopo l’uomo. Il cristianesimo dei secoli successivi, invece, sembra mancare, per usare un termine moderno, di una vera sensibilità ecologica, e di tale mancanza di sensibilità fanno le spese anche, e forse per primi, proprio gli animali. Il cristianesimo pone infatti al vertice del creato soltanto l’uomo; e dunque tutte le altre creature sono viste più come mezzi che come fini. Il processo in questa direzione è lungo: se Cristo può ancora, nelle sue parabole, sottolineare che gli uccelli sono cari al Padre, poiché egli li nutre pur senza richiedere da parte loro né di seminare, né di raccogliere, il Medioevo non avrà nei confronti degli animali una sensibilità o tenerezze particolari. Nella vita quotidiana gli animali sono destinati a essere mangiati o ad aiutare l’uomo nelle sue quotidiane fatiche da una posizione subalterna; non hanno anima, non rientrano nel disegno della Salvezza, non sono destinati ad andare in Paradiso, né è per loro che Cristo si è immolato.

Semmai, il Medioevo darà agli animali il valore di emblematici portatori di significati simbolici, proseguendo in questo su una strada della quale è impossibile, data la sua antichità, definire l’origine. Svuotati di un significato proprio, essi riacquistano dignità divenendo portatori di un valore ad essi estraneo. Diventano simboli delle virtù o dei vizi, strumento di ammonimento e di persuasione nelle prediche e nelle arti figurative. Già Filone di Alessandria, commentando il libro della Genesi e l’episodio in cui Adamo attribuisce ad ogni animale un nome, osserva che gli animali della Bibbia alludono alle passioni umane, paragonabili ad animali selvaggi che devono essere domati: in questo senso, come dominio delle passioni, andrebbe interpretata la scena di Adamo che assegna ad ogni animale il suo nome. Ciascun animale rimanda a qualcosa d’altro:

 

“La natura di ogni animale è dotata di una parentela con le varie parti dell’universo: il bue con la terra, la capra con l’acqua, perché è un animale iroso e impetuoso come l’acqua agitata dei fiumi e delle maree…l’ariete assomiglia all’aria, perché come questa è violento…i pianeti si possono confrontare con la colomba, perché è un animale dolce, così come i pianeti ci sono propizi; le stelle si confrontano con la tortora, che ama la solitudine… gli uccelli, in generale, si potrebbe aggiungere, ci riportano alle stelle perché il loro volo è apparentato al movimento delle stelle e il loro canto alla musica delle stelle” (Quaestiones in Genesim, 3,4).

 

Gli animali diventano così, soprattutto nel Medioevo, il campo in cui si coltivano metafore infinite. Il repertorio doveva essere immenso e perfettamente padroneggiato dai poeti e dai predicatori; ma non solo. Anche la gente comune doveva avere con il significato simbolico degli animali una grande dimestichezza, che la metteva in grado di comprendere tutte le implicazioni delle immagini religiose che, come monito, campeggiavano nei luoghi sacri. Analfabeti in gran parte, i fedeli del Medioevo avevano però una conoscenza approfonditissima di un linguaggio di immagini che qualche volta siamo noi, letterati figli del ventunesimo secolo, a non saper decifrare. E a questo patrimonio di conoscenza comune attingevano indifferentemente tanto il pellegrino che visitava i santuari quanto Dante Alighieri che popolava il suo poema di animali veri e fantastici dai mille travestimenti allegorici.

 

La zoologia fantastica del Medioevo cristiano

Animali veri e fantastici, s’è detto: qualche parola va spesa anche per i secondi, perché proprio il Medioevo cristiano è l’epoca in cui più numerosi – dopo l’età classica – si affacciano nell’arte incredibili animali ibridi, mostruosi, frutto di una complicata fantasia.

I mostri non sono un’invenzione del Medioevo e abbiamo già ricordato che il mondo antico aveva fatto coniugare più volte creature diverse generandone ibridi più o meno aberranti. La tradizione degli animali mostruosi, nel mondo classico, era d’importazione: veniva dall’Oriente, dove chimere e ippogrifi, sirene e grifoni avevano un loro posto preciso in mitologie antichissime delle quali ci è spesso difficile ripercorrere il cammino e le origini. La tradizione classica aveva anche cercato, assimilando quell’inquietante zoo di mostri, di farsene una ragione e assorbirlo nel più razionale universo degli dei olimpi affidandogli il compito di rappresentare le forze dell’irrazionale. Così a ogni mostro, dai centauri ai draghi e alle sirene, poteva contrapporsi un eroe, Lapita o Eracle o Odisseo che fosse, capace di debellare quei simboli della ferinità e dell’irrazionalità più oscura e di far trionfare, alla fine, la ragione.

Con singolare specularità anche il Medioevo assimila le sue creature mostruose dall’Oriente, sia pure con passaggi mediati e con l’intervento fondamentale e preponderante della tradizione nordica e soprattutto celtica. Ma le specularità si fermano qui. Perché se l’animale mostruoso, nel mondo classico, è un elemento di disturbo, che simboleggia l’agguato di forze negative e oscure che la ragione deve saper superare, nel Medioevo cristiano queste ibride creature hanno un significato più complesso. Esse nascono dall’atteggiamento cristiano verso la vita, che comporta un distacco progressivo dalle cose del mondo e uno sguardo fisso verso realtà ultramondane. Non necessariamente, per il cristianesimo, ciò che non cade sotto il dominio della ragione è sinonimo di ferinità e di oscurità: può anche essere indicazione di una vita altra, superiore alle cose del mondo, più vicina a Dio. È a quel mondo che l’uomo deve saper guardare, con occhi che non sono naturalmente soltanto quelli del corpo, bensì sono quello sguardo interiore di cui già parlava Plotino e che sembra aver avuto un ruolo non secondario nel conferire a tanta scultura tardoantica quello sguardo immenso, fisso e perso in un vuoto ultramondano.

Gli animali fantastici si fanno carico dunque di rappresentare non, univocamente, gli aspetti irrazionali e oscuri della vita e del mondo, ma l’infinita e molteplice varietà di ciò che si cela al di là delle cose del mondo. È un compito immenso; tanto più sconvolgente, poi, se esso è rivolto a far capire questo patrimonio ultramondano non soltanto a un pubblico colto e aristocratico, ma al popolo tutto. Concorre così, nella definizione di certe inquietanti figure dell’arte medievale (e non solo in quelle di animali) la dimensione popolare che essa deve conquistarsi. Per parlare a un pubblico sterminato di fedeli bisogna adottare modi espressivi che quel pubblico popolare sappia capire. E quindi attingere a un patrimonio figurativo che non aveva, prima, avuto dignità di arte perché non interessava alle élites, ma che ora è l’unico capace di toccare corde prima mai sollecitate. Così l’arte popolare entra nelle chiese, e l’iconografia di regioni un tempo estranee al mondo classico, ma recentemente entrate a far parte della comunità cristiana, come quelle del nord Europa, con il loro repertorio figurativo così diverso da quello di tradizione classica, diventa patrimonio comune del linguaggio figurativo medievale: con le sue figure bidimensionali e sproporzionate rispetto ai canoni classici, ma anche con i suoi animali fantastici, le sue creature ibride, le sue convenzioni rappresentative che fanno apparire mostruosi (a uno sguardo viziato dal classicismo) anche gli animali presenti in natura.

 

In apertura: Annibale Carracci, Due bambini molestano un gatto, circa 1590

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