Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Oltre le quinte: intervista a Emanuele Aldrovandi

Questa storia – la storia di un giovanissimo drammaturgo classe 1985 – inizia tra i banchi di scuola, quando al liceo appuntava i dialoghi dei suoi amici come desiderio di non perdere pezzi di vita che sembravano significativi, con la volontà poi di scrivere di narrativa, di fare cinema. Pluripremiato attraverso i più importanti riconoscimenti in campo cinematografico e teatrale, oggi è anche coordinatore del corso Drama alla Scuola Holden di Torino

Mariapia Frigerio

Oltre le quinte: intervista a Emanuele Aldrovandi

Giovanissimo e pluripremiato incontriamo il drammaturgo Emanuele Aldrovandi alla Scuola Holden di Torino, dove è coordinatore del corso Drama.

Aldrovandi è autore, tra l’altro, di Farfalle (premio Hystrio 2015). Fino al 2 aprile è stato in scena all’Argot di Roma con il suo spettacolo La pace non è mai un’opzione.

“Farfalle” – ph. Laila Pozzo

Che cos’è la scrittura teatrale e cosa vuol dire per te scrivere per il teatro?
Ho iniziato trascrivendo i dialoghi di miei amici al liceo: mi appuntavo le cose che dicevano i miei compagni come desiderio di non perdere dei pezzi della mia vita che mi sembravano significativi, con la volontà poi di scrivere narrativa, di fare cinema. In ogni caso il mio approccio è sempre stato quello di voler raccontare delle storie.
Solo durante l’università ho scoperto il teatro e la sua forma dialogica fondata sull’azione. Quel fare agire dei personaggi in scena mi era congeniale, mi veniva bene. Così mi sono dedicato a quel tipo di scrittura che per me è diventato come una palestra, un gioco in cui poter esplorare tutti i dubbi che avevo e il mondo interiore anche in personaggi lontanissimi da me.
Resta comunque un gioco profondo, con dei significati. Devo dire però che quando scrivo qualcosa di teatro mi diverto, e mi diverto anche quando mi faccio piangere da solo, anche quando soffro, perché c’è un godimento che non ha eguali e ritrovo una matrice ludica importante. A differenza poi di molti che arrivano al teatro come attori, io ci sono arrivato fin da subito come narratore e quindi per me teatro, cinema e narrativa sono le tre teste della stessa pulsione che in questa fase della mia vita ha avuto più il teatro, ma nei prossimi dieci anni avrà più le altre due.

Che cos’è l’Associazione Teatrale Autori Vivi di cui sei direttore artistico?
È un’associazione che ho fondato nel 2019, dopo dieci anni di lavoro come “scritturato”, perché mi chiamavano le produzioni per fare gli spettacoli, o anche i registi per scrivere o io stesso proponevo i miei testi e loro li mettevano in scena, ma l’input produttivo veniva sempre da altrove, cioè dai teatri pubblici, da teatri nazionali.

Cosa volevano da te i teatri pubblici? Testi?
Mi è capitato che il teatro nazionale dell’Emilia Romagna mi chiedesse di scrivere un testo su un determinato tema. Poi io liberamente l’ho scritto ed è diventato Allarmi. Oppure che la regista Serena Sinigaglia [regista italiana, vincitrice nel 2015 del Premio Hystrio per la regia, NdC] mi chiedesse un testo per la sua compagnia sulla nostra società, definita dal filosofo coreano Byung-chul Han «la società della stanchezza».
Abbiamo lavorato insieme ed è venuto fuori il monologo Isabel Green. Spesso ho lavorato con la compagnia MaMiMò di Reggio Emilia con esperienze bellissime.
Ho sempre scritto testi che mi piacevano e che poi hanno avuto vita anche all’estero e nei quali mi riconosco.
A un certo punto però mi sono reso conto che l’input produttivo veniva sempre da altri. Quindi, quando ero fortunato ad avere input che sposavo al 100% come questi che ho descritto, era bello, ma spesso mi capitava di dover dire di no a lavori che non mi andava di fare o, al contrario, di non riuscire a fare lavori che avrei voluto. Per questo ho creato l’associazione: per essere io a far partire i miei progetti.
È chiaro che non potevo essere completamente solo, perché i progetti che ho fatto finora sono stati supportati da teatri nazionali, come l’ERT, l’Elfo-Puccini o l’anno scorso, per L’estinzione della razza umana, il Teatro Stabile di Torino.

“L’estinzione della razza umana”

Ho avuto così l’aiuto economico di teatri importanti, ma con la possibilità di essere io a far partire un progetto, dicendo «vorrei fare questo, vorrei parlare di quest’altro»: una grande libertà.
Il nome dell’associazione deriva poi dal fatto che, guardando le stagioni dei teatri di provincia, ma anche di città grandi, gli autori “morti” sono più degli autori “vivi”. Quindi la mia volontà era anche quella di fare una piccola rivoluzione con il sogno che la mia compagnia mettesse in scena tanti autori “vivi”.
Per ora mette in scena solo testi miei, perché le energie sono poche, però, in un’ottica futura, se io potessi avere mezzi per far partire dieci produzioni l’anno, ne vorrei produrre una mia e nove di altri autori “vivi” italiani ed europei, per far vedere al pubblico storie scritte da persone che vivono insieme a loro la stessa realtà, come succede in tutte le altre arti, e infatti escono romanzi nuovi, vengono fatti film nuovi.
Il teatro è l’unica forma d’arte che riempie le stagioni di riproposizioni di cose vecchie.
Questo perché in Italia abbiamo una tradizione di teatro di regia, un teatro museale per cui bisogna scegliere se rappresentare il museo o rivoluzionarlo mettendo in scena novità. In Inghilterra, ad esempio, le stagioni dei teatri importanti sono pieni di opere nuove. Hanno i teatri che fanno Shakespeare, Molière, Čechov, Ibsen per restare giustamente attaccati alle nostre origini, ma i teatri sono ricchi di presente, di classici del presente.
Qua no. Ecco il perché della mia piccola rivoluzione: per avere spazi nei grandi teatri.

Eros Pagni sostiene che si rappresenti ancora Pirandello perché non esiste niente di nuovo.
Ovviamente non sono d’accordo.
Penso che Orsini, Branciaroli, Populizio, che hanno loro compagnie, potrebbero fare spettacoli, ad esempio, con i ragazzi della Scuola Holden. Ma non lo fanno per scelta.

Puoi spiegare?
Semplice: sono in lotta col passato. Partono dall’intenzione di fare spettacoli migliori rispetto a chi li ha messi in scena prima di loro, confrontandosi sui medesimi testi.
Dovrebbero, invece, essere al servizio del teatro e non del proprio ego che spesso è nemico del sistema teatrale.
Branciaroli in un’intervista a «Rolling Stones» sostiene che il teatro italiano non offra niente di nuovo…

Un anno, una notte è un film del 2022 sul Bataclan che ho trovato lungo e noioso. Diverso il tuo corto Bataclan del 2020.
Sono pienamente d’accordo. Da spettatore voglio fare fatica intellettuale o fatica emotiva, soffrire, piangere, pensare, ma non voglio combattere con la noia.
Spesso il teatro, ma anche il cinema, confonde la profondità con la noia e questo è sbagliatissimo, perché Shakespeare, che è l’autore più profondo che io conosco, non annoia mai, come Dostoevskij.
Noi italiani pensiamo che fare delle cose lente, in cui si ripetono gli stessi concetti più volte, in cui non accade nulla, sia sintomo di profondità. Io, nel mio piccolo, cerco di fare cose profonde, ma che siano anche coinvolgenti. Vorrei che succedesse con me quello che io provo con Beckett: rido, ma poi sto malissimo…

Perché hai deciso per questo corto?
Quella sera dovevo partire per Londra. Sono rimasto tutta notte in aeroporto a vedere tutte le notizie del Bataclan, mentre un altro aereo mi aspettava per andare a Londra dove pure c’erano attentati. Da qui la mia domanda: «Perché giovani della mia età, della mia generazione, nati in Europa, sacrificano sé stessi e altri della stessa età che vanno a divertirsi?».
Di solito scrivo quando ho delle domande a cui non riesco a rispondere. In quel caso mi è venuta voglia di scrivere mettendomi nei panni di persone lontane da me. Poi il film è stato girato con tutti i mezzi necessari, ma low badget e mi è servito per far vedere che ho fatto una cosa fatta bene (ha vinto il Nastro d’Argento grazie a cui ora sto girando il mio primo lungo), ma che è costata alla produzione poco, rispetto magari a un film con dieci ambientazioni. È una sorta di opera teatrale: alta qualità in poco spazio.

Qual è il tuo atteggiamento quando devi ridurre per il teatro testi letterari, visto che hai scritto la versione teatrale della Peste di Camus?
La regista Serena Sinigaglia mi ha telefonato durante il lockdown e mi ha chiesto di fare La peste. Conosco molto bene l’autore su cui ho fatto anche la mia tesi di laurea. Quindi ha sfondato una porta aperta e le ho subito detto di sì, sia per stima nei suoi confronti che per amore di Camus, ma ho cercato di farlo con il massimo rispetto perché io quando faccio gli adattamenti li considero diversamente dalle mie opere originali. Cerco di essere un megafono: di adattare il mondo originale dell’autore alla scena, ma, ripeto, non le considero opere mie. Così mentre scrivo testi miei sono libero di essere me stesso, quando riduco sono fedele.
Tengo separate le due attività, perché se cercassi di essere me stesso dentro Camus rimarrei schiacciato io e rovinerei Camus.

È stato lo stesso anche per Le nostre anime di notte di Haruf con la regia sempre della Sinigaglia?
Vale quanto ho detto per Camus. Io tendo a sparire e a usare la competenza artigianale per far funzionare le opere con i temi che ci sono già.

Che cosa pensi della censura a Roal Dahl, visto che tu hai scritto La donna più grassa del mondo
Riguardo a La donna più grassa del mondo il mio traduttore inglese mi ha detto che fa molta fatica a tradurlo per la questione della parola “grasso” e in Italia è successo tante volte che la compagnia che vende lo spettacolo abbia ricevuto dei no per il titolo, quando poi è uno spettacolo che parla di ambiente. In realtà la cosa paradossale che la metafora della donna grassa è una metafora per parlare di crisi ambientale e sovra consumo di risorse.
Quel testo parte da una persona di 400 chili (ho volutamente esagerato) che per la sua felicità mangia tantissimo, senza porsi il problema di mettere un limite alla sua felicità. È lo stesso problema che abbiamo noi come civiltà nel consumare e nel produrre: mettiamo la felicità come obiettivo principale, una felicità limiti.
Invece la natura ha dei limiti per cui, per quanto contrario a ogni forma di body shaming, non posso negare che se pesi 400 chili non puoi camminare, farai fatica ad avere figli, e che se noi consumiamo 100 volte di più di quello che produce la natura, il pianeta collasserà.
Il testo parla di questo e se uno si ferma alla parola “grasso”, all’offesa “grasso”, ne dà una lettura superficiale e rinuncia al fatto di cogliere una profondità maggiore. Per me è aberrante.

Ma, secondo te, quello che stanno facendo a Dahl…
Io penso che siamo arrivati a un punto in cui la società capitalista occidentale si rende conto che fa molta fatica a promulgare forme di giustizia sociale, per cui è difficile che i poveri non siano poveri, è difficile che altre parti del mondo riescano ad avere le possibilità che abbiamo noi che facciamo morire la gente in mare mentre attraversa il Mediterraneo per raggiungerci. Amazon, poi, sfrutta i lavoratori senza che nessuno dica niente, perché i politici non possono combattere contro chi ha così tanti soldi e quindi, di fronte a questa impossibilità, ripeto, di promulgare giustizia sociale, si promulgano piccole giustizie linguistiche, per darsi l’impressione di fare una lotta, ma si fa una lotta non contro chi si dovrebbe lottare (e che non dà neppure benessere alle persone nei confronti delle quali è fatta). Così, invece di fare una critica sociale profonda su certe dinamiche aberranti, ci si concentra su aspetti superficiali.
Lo stesso vale per la questione femminile che non si può ridurre a una lotta per i pronomi: la cosa importante è che le donne non vengono pagate come gli uomini, che le donne non hanno diritto alla maternità, più che la questione delle parole. Quando hanno rappresentato un mio testo a Londra, hanno elencato tutte le categorie che non potevano essere insultate. Il regista ha detto che hanno fatto una croce su tutto, perché potenzialmente era offensivo per tutti.
Io di certo non volevo essere offensivo. Erano i miei personaggi in condizioni estreme che si offendevano e si scambiavano insulti razziali, insulti sessuali, cannibalismo. C’era di tutto, ma perché erano personaggi così.
È che adesso non c’è più questa separazione, c’è una “cattiva educazione” per cui se un personaggio dice “negro” è l’autore che dice “negro”, mentre un personaggio dice “negro” per insultare un’altra persona, perché quel termine fa parte del suo background culturale. È ovvio che io come autore, come Emanuele, come persona con la mia cultura non direi mai “negro”, ma se ho un personaggio che ha la terza media, che è arrabbiato, che è razzista devo esser libero di potergli far dire “negro”, perché se lui dicesse “persona di colore” non starei più raccontando un personaggio razzista e in quanto autore scriverei qualcosa di non esatto.
Sarebbe come accusare Shakespeare di avere ucciso dodici re: lui ha scritto persone che uccidevano re, non li ha uccisi lui, li hanno uccisi gli altri.
Credo inoltre sull’intenzione a offendere o meno. Su questo, purtroppo, il mondo anglosassone sta un po’ girando su sé stesso.
Non c’è razzismo nelle parole, ma c’è il razzismo economico della povertà. In centro a Parigi, nei teatri, ci sono solo bianchi.

Dove si trovano i tuoi testi teatrali?
Non in libreria dove ci sono Fo e Pirandello. Sono online.

Quali consideri i tuoi autori di riferimento?
Alle superiori non andavo mai a teatro. Ho iniziato a diciannove anni, quando mi sono iscritto a filosofia. Quello che mi ha colpito di più è stato Beckett e poi leggere Jarry con Ubu, il primo che mi ha fatto ridere. Ho pensato che quella cosa polverosa in cui gli insegnanti avevano invano cercato di coinvolgermi senza riuscirci, anche perché, va detto, preferivo il basket e gli amici, poteva essere una cosa divertente. Da lì ho scoperto Ionesco e tutti gli altri, colmando le mie lacune quando decisi, dopo il corso di teatro alla Paolo Grassi, di trasformare la mia passione in lavoro.
Tra i contemporanei quello che mi piace di più è Juan Mayorga, drammaturgo spagnolo “vivo” [ride]. Ma cerco di non avere maestri, come tanti che scimmiottano Beckett cosa che io non voglio fare.

Roberto Herlitzka ha detto: «Il vero Shakespeare è Čechov». Tu che ne pensi?
Čechov ha inventato qualcosa che è alla base del teatro, del cinema, della scrittura di tutto il ‘900, cioè separare le parole dall’azione e per un attore capisco che sia il maestro massimo, perché è il primo che l’ha fatto, mentre in Shakespeare c’è ancora la coincidenza tra parola e azione. Čechov dà invece all’attore la possibilità di parlare di qualcosa facendo qualcosa d’altro: un vero maestro in questo ed è universale come Shakespeare.

Già fa capolino, fuori dall’aula in cui ci troviamo, un’allieva. Salutiamo così Aldrovandi con la speranza di assistere presto ad altri suoi spettacoli.

Questa intervista è stata pubblicata in anteprima, in forma ridotta, sul quotidiano Avvenire e ora, in versione integrale, su Corso Italia 7.

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