Corso Italia 7

Rivista internazionale di Letteratura – International Journal of Literature
Diretta da Daniela Marcheschi

Tanto osano i poeti

Navigando in solitaria, fuori da ogni corrente e lontani da comode rive, cantano le potenze a cui non sfuggono nemmeno gli dèi, ma che gli umani credono di poter sconfiggere

David Fiesoli

Tanto osano i poeti

Emily Dickinson avvertiva nella sua stanza l’Immortalità come «compagno invisibile», e la vide sulla carrozza insieme alla Morte, quando  –  «gentilmente» –  si fermò per lei. Giacomo Leopardi sentì Morte e Immortalità nel profumo della ginestra che resiste sull’arido vulcano, Emily Brontë   tra l’erica mossa dal vento, Virginia Woolf nel moto incessante delle onde, Hölderlin nelle querce «figlie dei monti» o nella «primavera musica di Dio», Dino Campana nel «segreto delle stelle», e Sandro Penna nei corpi nudi degli adolescenti al sole. Tutto diventò letteratura, «interminati spazi» «via dalla solitudine del tempo» (Leopardi, Hölderlin), poiché, come scrisse Marcel Proust, «la vera vita, la vita finalmente scoperta e illuminata, di conseguenza la sola vita pienamente vissuta, è la letteratura»[1].

Emily Dickinson

Sono le visioni e le apparizioni che visitano quei poeti e quegli scrittori che anche quando non nominano mai alcun dio, o alcuna dea, ne vedono il profilo attraverso una nave, un carro, il volo di un’ape, la luce della Luna, un cielo stellato, il volto di un fanciullo, uno stormir di fronde. È la freccia della letteratura che scocca soltanto se l’arco è forgiato sul sacro: non mira al passato, al presente o al futuro, ma a quell’infinito «di mari non visitati da rive» «ove per poco il cor non si spaura», e dove è dolce naufragare.

Proiettati molto in avanti rispetto all’epoca in cui vissero, le loro opere non ebbero successo immediato: furono invendute e stroncate dalla critica (come le Cime Tempestose di Emily Brontë), andarono perdute in soffitte polverose e ritrovate decenni dopo (come i Canti Orfici di Dino Campana), non furono  mai pubblicate quando i loro autori erano ancora in vita (come i romanzi di Kafka e le poesie di Emily Dickinson) stentarono a farsi strada tra gli intellettuali del tempo (come le poesie di Hölderlin) o furono osteggiate e censurate dal potere che tentò di distruggerle (come i versi di Marina Cvetaeva, Osip, Mandel’štam, Anna Achmatova).

Alcuni di loro (Leopardi e – il secolo dopo – Sandro Penna) godettero di una certa considerazione per quanto marginale; pochi assaporarono un certo successo (i romanzi della Woolf e i racconti della Mansfield ebbero più risonanza perché nell’Inghilterra del Novecento ebbero la possibilità di inventarsi case editrici e circoli letterari).

Ma che cos’è il successo? Pasolini ne godette, e fu talmente potente, illusorio e controverso da gettarlo tra le braccia della morte. Molti altri ne cercano avidamente i fumi, le esalazioni assuefacenti. Avverte Elias Canetti: «Successo, veleno per i topi che si usa per l’uomo, pochissimi ne scampano»[2].

E Sergio Quinzio si chiede:  «Necessarie le opere e necessario il fallimento delle opere. Ma è possibile compiere opere sapendo che sono destinate al fallimento, compierle cioè, con tutta la fatica che comportano, come segni e non come opere? Anche questa è un’impossibilità». Ma poi aggiunge: bisogna credere nei segni, per rischioso che sia, perché «se non vediamo segni nella nostra vita, allora vuol dire che per noi Dio non c’è»[3].

Coloro, poeti e scrittori, che hanno navigato in solitaria, in pieno oceano, fuori dalle correnti letterarie che andavano per la maggiore, mai vicini alle comode rive della narrazione del momento, né alle spiagge affollate della morale corrente, furono tutti veri pionieri, quando non autentici profeti. E, come sappiamo, «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua»[4]

Ma in loro, la scrittura non servì mai il corpo e le sue esigenze, non servì all’amore, al sesso, alla fama, alle gratificazioni materiali. Fu una necessità. «Pro domo mea – scrisse Anna Achmatova – dirò che mai, né in volo né strisciando, mi sono allontanata dalla Poesia, sebbene ripetutamente, con forti colpi di remi alle mani rattrappite e aggrappatesi al fondo della barca, fossi invitata ad andarmene a fondo»[5].

Anna Achmatova

Per sé stessi e per il futuro, in stretta confidenza con la vita e con la morte, questi poeti-scrittori, poetesse-scrittrici accolsero la castità della mente con una fede incrollabile nella parola e nel suo ritmo, che registra, riassume, suggerisce, evoca, costruisce un’invisibile fortezza, un formidabile e lucidissimo osservatorio sul mondo, e non scandisce tempo.

Con quella indomita certezza, gli eroi e le eroine della letteratura  – come Cassandra quando capisce che la sua sorte è voluta dagli dèi – compiono un atto di fede potente e umile, e così facendo scagliano la freccia con la quale penetrano tempo e spazio, anime ed epoche, individui e collettività: la poesia-letteratura, in tutte le sue forme, è l’unica freccia che può penetrare il nodo strettissimo e inflessibile che lega le code di serpente di Ananke e Chronos, il Tempo e la Necessità, intrecciate ancora prima che esistesse il mondo.

Quell’arco invisibile è  teso tra mani che non  tremano neanche quando i fili del destino si incrociano verso una conclusione tragica e inevitabile, con la quale Tempo e Necessità impongono la loro rivincita, ma lasciando ormai libere le parole e il loro ritmo che per un po’ li ha incantati, proprio perché li ha cantati.
Tanto osano i poeti: cantare quelle potenze a cui non sfuggono neanche gli déi, e cantare le tragiche conseguenze dei mortali che invece quelle potenze credono di averle sconfitte, o di poterle sconfiggere.

 

[1] Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. di G. Raboni, 4 volumi, Milano, Mondadori, 1983 – 1993, IV, p. 577.

[2] Elias Canetti, La provincia dell’uomo, Quaderni di appunti 1942 – 1972, Milano, Bompiani, 1986, p. 36.

[3] Sergio Quinzio, Dalla gola del leone, Milano, Adelphi, 2019, p. 21.

[4] Vangeli, Matteo 13, 57.

[5] Anna Achmatova, Io sono la vostra voce…, a cura di E. Pascucci, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1990, p. 29.

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