Non lasciamo soli gli ulivi salentini
Qualcosa, lo sappiamo bene, non va. Alcune piante stanno soffrendo. Vi sono oggi oliveti in stato di abbandono. Anche il temuto volo della mosca olearia, il lombrico invasore e le calate degli storni affamati, diventavano armate nemiche da affrontare. Così, se dopo anni di erogazioni si chiedesse a qualche produttore il senso della funzione algoritmica che ha definito l’aiuto per le proprie piante secolari, farebbe spallucce. In un periodo difficile come quello attuale, il popolo degli ulivi esige solidarietà, comprensione e rispetto
È sufficiente sostituire una vocale all’interno del termine tecnico di olivicoltura per rafforzare il rapporto che questo settore ha con la civiltà rurale. La cultura all’interno di tale apparato produttivo è sinonimo di esperienza, trasparenza, tradizione ed evoluzione.
L’olivo è un supporto comunicativo in perenne sintonia con le frequenze dell’universo. Gli alberi sono lo sforzo della terra per parlare al cielo e gli oliveti del Salento della Puglia hanno molto da dire.
In un periodo difficile del suo cammino, il popolo degli ulivi, di questa terra bellissima, esige solidarietà, comprensione e rispetto. Le comunità salentine fanno cerchio intorno alle proprie piante, si radunano come frutti sotto il loro pedale e s’interrogano sul loro futuro.
Dai tempi della dea madre e del mito di Atena, nei pressi di Otranto, tra ulivi a secco e muretti medievali, esiste un monumento che tutti conoscono, il cosiddetto “Masso della Vecchia”, un enorme corpo levigato che diventa una sorta di sfinge salentina cui s’implorano, alla luce del sole, le sorti della propria esistenza.
La Vecchia può esaudirti a condizione che tu stesso sia all’altezza di replicare ai suoi difficili rompicapo. La leggenda dice che essa riserbi segreti e saggezze solo ad alcuni e che un giorno li riferirà solo a quel popolo che l’ha riverita fino ai giorni nostri.
Il riverente popolo degli ulivi ha sempre deciso le sue scelte, con umiltà, in base alle illuminazioni che l’esperienza gli ha palesato, forse, senza quasi mai chiedersi le ragioni di quel che gli accade intorno, vagando alla mercé di rese, prezzi, costi di produzione e incertezze di vario tipo.
Ovviamente, siamo molto distanti dal periodo in cui si auspicavano le buone produzioni con la forza della preghiera e i tempi in cui si sfregavano le mani rattrappite dal freddo prima della raccolta. Eppur ci si accontentava di poco. Il progresso ha facilitato il lavoro dell’olivicoltura, non c’è dubbio, ma è evidente che qualcosa non va, alcuni ulivi stanno soffrendo.
L’analisi potrebbe partire dalle contrade d’ulivi in stato di abbandono più che dalle loro patologie. Il distacco dall’agricoltura è un dato oggettivo, chi potrebbe negarlo? Sono gli stessi genitori che consigliano i figli a non tornare tra il duro lavoro dei campi perché poco appagante. Il giovane disinteressato, annuisce e non si preoccupa se le olive cadono o restano attaccate sulla pianta sofferente. In questo fallito ricambio generazionale, gli ulivi che restano a guardare sono soli come non mai.
Quel fenomeno biologico della resilienza che è la caratteristica di un habitat di reagire, con una certa rapidità, agli eventi estremi, in tal caso, diviene puramente di carattere sociale oltre che economico. Nonostante l’apparente mutamento, i crucci e le speranze sono le stesse.
Con il fenomeno dei cambiamenti climatici, le specie animali possono spostarsi e riadattarsi ad altre latitudini ma gli ulivi nel Salento non possono traslocare, ci sono anche delle precise leggi a riguardo. Da quelle parti, negli ultimi tempi, le precipitazioni sono state violente e improvvise, ci sono stati attacchi di lebbra e le produzioni ne hanno risentito. Un contadino mi disse che le città si allagano anche perché tra le campagne, alcuni servizi di smaltimento idrico sono intasati da detriti e il terreno, non più coltivato e ormai duro come un lastricato, non assorbe come dovrebbe.
Un altro contadino, mi dice, che se dovesse confrontare l’olivicoltura, dal dopoguerra, anni della ricostruzione ma anche dell’avvento della chimica di sintesi, con quella corrente e informatizzata, non riuscirebbe a trovare in fondo concrete differenze. L’asserzione mi piace e mi sembra credibile, forse perché tra gli stessi oliveti ritrovi sempre gli stessi volti, le stesse illusioni, le stesse richieste.
Un tempo l’uso dei veleni in agricoltura non era tanto regolato quanto quello che se ne fa oggi. Il loro impiego prevede l’obbligo di una qualifica, a tergo di un’attenta valutazione. Nonostante le regole esistenti, il Salento agricolo sembra primeggi in Puglia (per l’ISTAT la regione è quarta in Italia) per uso di pesticidi, lo ribadiscono i rapporti locali dell’Arpa Puglia e i moniti delle associazioni (vedi “Pesticidi e Salute – Profilo Sanitario della provincia di Lecce” Legatumori 2015).
Con un onere del genere è fondamentale studiare, altrimenti, come si fa a sostenere un esame e leggere un’etichetta. Poi occorrerebbe aggiornarsi fino a quando la volontà di raccogliere olive non si placa del tutto. In questo contesto si avverte una sorta di irrefrenabile aritmia, un moto asincrono a tratti surreale.
Il registro di campagna e dei trattamenti, ti offre l’intimo quadro di ogni singolo caso e lì ti accorgi poi che le cosiddette Buone Pratiche Agricole che la PAC impone, in fondo, non sono poi così buone. I cartelli d’avviso “zona avvelenata” che ho ripreso tra i campi potrebbero non smentire tali usanze e non solo la sostanza organica nel terreno rischia uno scompenso.
Proviamo a chiederci, nel frattempo, quanti tra gli olivicoltori hanno il quaderno di campagna o il patentino che li autorizza ad acquisire e registrare un fitofarmaco. Cosicché quell’abilitazione che ha durata cinquennale poi occorre rinnovarlo. Proviamo a domandare a un frantoiano se gli adempimenti annuali che ha da svolgere sono adeguati alle loro possibilità di esaudirli e anche qui ci sono delle scadenze. Temi caldissimi.
Anche se non si ha un censimento per singoli agri comunali, nel Salento, ci sono tanti fertili feudi ulivetati lasciati come vuoti a perdere, sfruttati come bene strumentale per i contributi o, peggio, come beni virtuali finalizzati a scopi elettorali. Questa non è la razionalità che caratterizza il buon agricoltore salentino che ama le sue piante seppur qualcuno di loro si presenti ancora con la sua spiccata ansia dell’erba infestante.
Con tali assilli, le “malerbe” non sono altro che un’orda di demoni da tener d’occhio perché si sviluppano troppo in fretta, s’impicciano tra i mezzi e fanno avariare le olive. Per alcuni è necessario tener “ben pulito”, sistemare il salotto della non coltura, affinché il vicinato non brontoli o che il suo podere sia una prerogativa d’ordine, di disciplina e di buona educazione.
Allora giù con i trattamenti suggeriti, in certi casi, superflui ed errati, senza remore nei riguardi dell’agro ecosistema. È una consuetudine su cui non hai il diritto di disapprovare perché quegli alberi non ti appartengono, che non sono patrimonio dell’umanità. È proprio qui che iniziano le complessità.
I vecchi modelli di erogazione e sostegno all’agricoltura sono oltrepassati. Al loro posto, l’ultima Politica Agricola Comunitaria, prima dell’attuale è un altro fattore, seppur indiretto, che ha contribuito al fenomeno che riguarda la fuga dalle campagne. Quel misero contributo per unità di superficie, infatti, previsto per una miriade di piccole aziende, peraltro, gestite con contratti di comodato gratuito, bastava appena per un paio di arature. L’ingresso al nuovo agricoltore, per così dire, non era incoraggiato abbastanza.
Se dopo anni di erogazioni, chiedi a qualche produttore il senso della funzione algoritmica che ha definito l’aiuto per le sue piante secolari, ti fa le spallucce; l’interesse principale era che i centri di assistenza agricola risolvessero le eventuali anomalie che limitavano la sua pratica di sostegno comunitario per non perdere la priorità acquisita.
Sembrerà piuttosto bizzarro che i casi di diserzione olivicola, seppur parziale, si possano riferire perfino a quei tagli di potature inaspettate che stravolgono il naturale portamento della specie. Basta un’energica potatura per buttare giù un bel po’ di tronchi da ardere e non produrre per almeno un quinquennio. Con una mancanza o con un eccesso, ti puoi ritrovare la coltura direttamente al purgatorio. Non sia mai che, il legislatore, definisca delle linee guida per le potature, come si usa in altri paesi europei. Su tale tema sono pochi quelli che chiedono consulenza e altrettanti modici i portelli informativi disponibili.
Nel frattempo le concorrenze continuano a produrre, si specializzano a vendere, a comprare, promuovere le loro produzioni, sostenere i giovani che vogliono ritornare alla terra e aiutarli a occuparne delle altre.
Nel tumulto molitorio dei singoli paesi, ci puoi trovare anche l’olivicoltore sbadato che confonde il recipiente che destina alla vendita con quello dell’autoconsumo. In genere, la scorta familiare d’olio, nel complesso, nel Salento non è mai mancata. Qui, assieme al palato si apre anche il gusto di consumare, molto spesso, grandi quantità di prodotto a scapito della sua qualità pur di non alienarlo.
Il miglioramento della qualità è avvenuto con grandi sforzi. Le industrie di trasformazione hanno dato il massimo per promuovere e difendere il prodotto. A lungo termine, gli impianti finanziati di varietà a drupa grossa ma a legno tenero hanno floppato a causa dell’attività della mosca e del rodilegno giallo. Oggi, di quegli impianti rimane ben poco, non mi pare abbiano convinto il popolo.
Gli interventi organizzati in merito alla qualità, presso consorzi e cooperative, sono stati davvero tanti. Si è parlato al cospetto di migliaia di conduttori resistenti e zelanti a produrre. In questa delicata fase, pur di migliorare la qualità a tutti i costi, il temuto volo della mosca dell’olivo, il lombrico invasore e le calate degli storni affamati, diventavano armate nemiche da affrontare.
Alla luce di tanti impegni, l’abbandono della coltura è sempre irrazionale. Nel Salento, probabilmente, si è perso un po’ il senso della campagna. In alcuni casi, l’olivo è diventato un ripiego alle faccende dell’anticamera della terza età, in altri, è fondamentale per la sussistenza. La maggior parte degli olivicoltori pretende che cada ai suoi piedi l’ultima oliva dell’inverno e ripassa più volte la scopa sulla piazzola di raccolta per ripulirla da foglie e sassi.
Queste sono le scene che riscontri tra i frantoi salentini: una coda di motocarri, la bolla d’ingresso, l’attesa, della molitura, l’attenzione che il resoconto delle sue olive non si mischi con quelle altrui, il ritiro del prodotto.
Il produttore, rientra con i bidoni colmi di nuovo olio, allegro in parte, lo ripartisce per raccolta e acidità, per quello da offrire, da vendere o da consumare subito. Succede così da decenni. Le stagioni si ripetono e il popolo degli ulivi, nonostante tutto, ha ancora la forza di rialzarsi. Oggi chiede di non essere lasciato solo.
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