Olio Officina Festival

L’olio e i suoi contenitori

La mostra "Olio d'Artista" dopo quattro intensi anni in cui si è andata via via costituendo approda ora alla quinta edizione di Olio Officina Festival. L'appuntamento a Milano, dal 21 al 23 gennaio. Il momento in cui l’oggetto funzionale diventa oggetto artistico è un “accidente”, un casuale incontro tra l’artista e l’oggetto stesso. Le lattine e le bottiglie utilizzate sono tutte nel pieno della loro potenziale azione, nuove e non ancora “unte” dall’olio

Francesco Sannicandro

L’olio e i suoi contenitori

Siamo ormai al quarto anno di vita di una raccolta che, di allestimento in allestimento, si è andata allargando a macchia d’olio. Nata da un’idea dell’amico Marco Tribuzio e curata dal sottoscritto, con l’associazione culturale Golem, è probabilmente giunto il tempo di un primo bilancio intorno a quella idea che, nell’ottobre del 2011,condusse il primo gruppo di ventitre artisti ad aderire a questo stimolante progetto: la proposta era quella di elaborare una personale interpretazione/riuso dei tradizionali contenitori dell’olio, la lattina metallica e la bottiglia di vetro. Al primo allestimento, che vide la luce a Bitonto (ottobre 2011 ), hanno fatto seguito quelli di Modugno e Bitetto (novembre – dicembre 2011), dove gli artisti partecipanti erano già saliti a cinquanta, per poi lievitare nei successivi appuntamenti di Masseria Torre di Nebbia-Corato (gennaio 2012), Villa Romanazzi – Bari (maggio 2012), Pinacoteca “Michele de Napoli” -Terlizzi (dicembre 2012 – febbraio 2013), Palazzetto dell’Arte – Foggia (16 febbraio – 3 marzo 2013), nuovamente a Bitonto (21 dicembre 2013 – 6 gennaio 2014) nell’ambito di Girolio d’Italia, presso il Torrione Angioino, Pinacoteca Civica Miani Perotti – Cassano Murge (21 novembre – 14 dicembre 2014), Olio d’Artista in vetrina – Bari (6 dicembre – 6 gennaio 2015).

Con questo nuovo allestimento a Milano con Brera Milazzo presso Stecca 3 (18 – 27 settembre 2015, e ora a Olio Officina Festival dal 21 al 23 gennaio 2016) il tetto dei cento partecipanti è stato ampiamente superato, registrando nuove e qualificate adesioni, come quelle di docenti delle Accademie di Belle Arti di Bari, Lecce, Milano, Roma, Catanzaro e Foggia e di giovani artisti emergenti. Sul piano critico resta fondamentale il profilo della mostra vergato da Linda Roggio all’interno del catalogo della prima edizione di Bitonto, tra celebrazioni di uno dei simboli fondamentali della mediterraneità, recuperi di immagini della tradizione,virtuosismi concettuali,allusioni religiose e profane, citazioni mitografiche e letterarie. Indubbiamente si pone ora un problema di gestione e “rappresentività” della sempre più ampia raccolta, peraltro ancora tutt’oggi richiesta in diversi luoghi d’Italia, che ha raggiunto il notevole numero di 135 opere e che tende progressivamente ad assumere le caratteristiche di una summa dell’immaginario creativo sollecitato dall’olio e dai suoi contenitori, tra omaggi beuysiani e antiche memorie cromatiche, ricostruzioni ludiche ed elaborazioni trasgressive: un olio sempre più d’artista.

Protagonista di questa mostra non è il contenuto, ma il contenitore, che tuttavia non contiene più il contenuto per il quale è stato progettato e realizzato, bensì assume una nuova natura, quasi sacrale, di teca simbolica. Il processo non è certo nuovo per il mondo dell’arte: siamo al cospetto di una classica trasformazione dell’oggetto comune in oggetto artistico o opera d’arte, e penso subito al caro e grande amico Mimmo Conenna, artista di Bari scomparso prematuramente, che è stato il primo già dal 1978 ( un’intera sala gli fu dedicata alla Biennale di Venezia di quell’anno) a manipolare le lattine di olio . Di questa possibilità avevano già usufruito le avanguardie storiche, dadaismo e surrealismo, ma soprattutto Duchamp.

Il Novecento ha assistito anche a processi di smaterializzazione, da Cage a Fluxus, attraverso i quali si è giunti all’arte concettuale e alla performance, in cui l’opera diventa l’azione stessa nello spazio pubblico e sociale. In questo processo l’oggetto rivive attraverso molteplici forme: assemblaggio, appropriazione, archivio, raccolta. Ma nel caso delle lattine e delle bottiglie per la conservazione dell’olio ripensate nella mostra “Olio d’artista” è l’oggetto stesso che si trasforma in opera d’arte e nel contempo vede realizzarsi la perdita del suo valore d’uso: perde la funzione originale per acquisire altre proprietà, estetiche, simboliche, allusive, analogiche, allegoriche, in taluni casi persino anagogiche.

Il passaggio, la trasformazione, non sono insiti nell’oggetto, ma si “materializzano” nel momento in cui l’artista ripensa e trasforma l’oggetto stesso, facendone un’opera d’arte. Non ontologia, ma fenomenologia dell’oggetto, che nel momento in cui incontra l’artista cambia natura attraverso una processualità e una trasformazione registrati e fissati nella nuova opera d’arte.

Modello storico emblematico di questo processo è Fountain, il ready-made presentato nel 1917 da Marcel Duchamp, niente più che un orinatoio rovesciato e firmato, del quale si è discusso se l’oggetto in sé possedesse già una autonoma qualità estetica e formale oppure se queste qualità fossero solamente e indissolubilmente legate al processo di individuazione e trasformazione operate dall’artista, impossibili da rilevare nella pura forma dell’oggetto. Ma invero il momento in cui l’oggetto funzionale diventa oggetto artistico è un “accidente”, un casuale incontro tra l’artista e l’oggetto stesso, una occasione. Nel caso dei contenitori per l’olio la prosaicità provocatoria dell’orinatoio duchampiano lascia il posto alla “nobiltà”, la “sacralità” del contenuto, l’olio con cui si condiscono gli alimenti, ma anche il fluido con cui si ungevano i monarchi o si somministrano i sacramenti.

Gli artisti presenti in mostra propongono infiniti diversi modi di approcciare l’oggetto, che viene trattato in modi molteplici: la mostra stessa, in quanto unità di molteplicità, è quanto mai multiforme, anzi non ha una forma e un “numero” definito, si accresce di esposizione in esposizione, le opere già viste diventano “repertorio” per altri artisti, in una moltiplicazione apparentemente senza fine. Lo stesso oggetto, bottiglia o lattina che sia, muta la sua forma di opera in opera, rimanendo al tempo stesso immutata nella sua forma primigenia. Talvolta si fa fatica a riconoscerne la forma, talvolta viene smembrata, frantumata, fusa, nascosta, ri-creata, ma non possiamo non sapere che in fondo si parte sempre da una lattina o da una bottiglia.

Gli artisti si sono così appropriati di oggetti di uso quotidiano, ponendo in relazione le storie e le funzioni dei diversi oggetti nel momento stesso in cui ne hanno fatto un oggetto artistico. Sono stati messi in relazione, cioè, la storia dell’oggetto di uso comune e quella dell’oggetto artistico all’interno di un processo che modifica entrambi i termini: non più solo oggetto funzionale, non solo peraltro unicamente oggetto artistico totalmente indipendente dal suo alter ego funzionale. Come Mr. Hyde e il dottor Jeckyll di Robert Louis Stevenson sono due personalità dissonanti costrette a convivere nello stesso corpo, così funzione e arte non possono mai fare totalmente a meno l’una dell’altra nel momento in cui l’artista/alchimista le costringe a convivere in un unico oggetto, caratterizzato ormai da una indissolubile “con-fusione”.

Il tema particolare, l’olio e i suoi contenitori, nonché la particolare terminologia legata alla definizione tipologica dell’oro verde, ha sollecitato non poco i giochi di parole, i doppi sensi, le sovrapposizioni testuali e semantiche, gli scambi di parole: il titolo, in questi casi, non è solo convenzione per il riconoscimento catalografico dell’opera, ma diventa parte integrante fondamentale dell’oggetto d’arte, costituito dalla trilogia oggetto funzionale / oggetto artistico / testo.

Nel caso della mostra “Olio d’artista” non siamo, infine, nel campo della riciclart, non si tratta di oggetti che hanno già esaurito la loro funzione e attendono di essere abbandonati o riciclati: le lattine e le bottiglie utilizzate sono tutte nel pieno della loro potenziale azione, nuove e non ancora “unte” dall’olio. Potremmo dire che non hanno avuto modo neanche di espletare la funzione per la quale sono state realizzate: contenere l’olio.

L’immagine di apertura è l’opera di Vincenzo Bafunno, “Architettolio”

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