Codice Oleario

Xylella e olivo, quale futuro

Perché è tanto pericolosa? Sul batterio si è scritto di tutto e di più, si è dato parola e penna a uomini di scienza, ma anche a ciarlatani, questi più chiassosi e convincenti di quelli. La stampa dirama quasi quotidianamente bollettini di guerra con titoli sempre più allarmanti. Le misure istituzionali adottate sono risultate tutte in qualche modo inadeguate a fermare il dilagare dell’epidemia. Se ne potrà mai uscire?

Angelo Godini

Xylella e olivo, quale futuro

Dubito che in Italia ci sia ancora un connazionale che non abbia mai sentito o letto, anche più di una volta, del batterio Xylella fastidiosa Wells, Raju et al., subspecie pauca, e dell’ecatombe di olivi che esso sta provocando in Puglia. Anche la rivista online alla quale affido questo mio scritto, non ha mancato di informare con dovizia di particolari i propri lettori. Com’era logico che facesse.

Si è scritto di tutto e di più, si è dato parola e penna a uomini di scienza, ma anche a ciarlatani, questi più chiassosi e convincenti di quelli, come sempre avviene in simili casi. Adesso torno a raccontarvi come vedo io la vicenda.

Si dice che Xylella abbia fatto la sua comparsa in Puglia nel 2013 scegliendo come primo insediamento il territorio di Gallipoli, nel basso Salento jonico. Su tempi e modi di arrivo di Xylella in Puglia siamo ancora in attesa della conclusione delle indagini della magistratura.

Perché è tanto pericolosa Xylella? Perché, come riporta la bibliografia, esso penetra nei tessuti della pianta “ospite” attraverso microlesioni sul lembo fogliare provocate dal suo vettore, un insetto, trasmigra nei vasi legnosi che trasportano la linfa grezza all’interno dei quali prolifera attivamente fino ad occluderli, interrompendo il collegamento tra radici e chioma e finendo per uccidere la pianta.

Contro Xylella, come contro altre batteriosi che attaccano i vegetali, non esistono metodi di lotta diretti e risolutivi. Finora, sono state individuate in letteratura e riportate da EFSA Journal del 9 febbraio 2016, 359 specie vegetali, appartenenti a 204 generi e a 75 famiglie botaniche in grado di ospitare Xylella. Per fortuna nostra, la maggior parte delle specie aggredite dal batterio appartengono alla flora del continente americano, donde Xylella sarebbe arrivata a noi: per nostra sfortuna, il batterio in questione ha trovato un’eccellente pianta ospite nell’olivo.

In soli quattro anni Xylella ha sfondato quelle che sono state definite le “fasce difensive” e si è allargata nel tarantino e brindisino senza incontrare resistenza o almeno senza incontrarne di seria. Il quotidiano barese La Gazzetta del Mezzogiorno, sempre attento alla vicenda, dirama quasi quotidianamente bollettini di guerra con titoli sempre più allarmanti, come quello del 6 maggio 2017: «Brindisi-Taranto: la Xylella dilaga. Oltre 230 nuovi focolai», oppure quello del 18 maggio 2017: «La Xylella ora spaventa anche la Puglia del grano». Tutto ciò significa che le misure adottate per bloccare l’epidemia entro i confini del Salento in senso stretto hanno fallito. Ciò è avvenuto perché saranno anche state concordate strategie di difesa buone in teoria, ma messe in pratica in modo blando, poco coraggioso e perciò inconcludente. Soprattutto la terza, la lotta al vettore, sulla quale mi dilungherò tra poco.

È bene ricordare che, per portare a compimento il “lavoro”, il batterio non può fare tutto da solo, ma ha bisogno di uno o più insetti che lo trasportino da un organismo vegetale ad un altro. Dei possibili insetti vettori, in Puglia finora ne è stato individuato uno, Philaenus spumarius L., volgarmente detto “sputacchina”. Sembra che, finalmente, la lotta a “sputacchina” come prima e più importante misura per contenere Xylella stia finalmente cominciando a fare breccia. In questo mi sento confortato anche dal Prof. Giovanni Martelli, patologo vegetale, che ha testualmente dichiarato, sul quotidiano barese il 29 aprile 2017, che: «Non è possibile combattere Xylella fastidiosa senza l’impiego d’insetticidi».

Ho anche scritto che “sputacchina”, piccolo insetto lungo qualche millimetro, nulla sa dei guai che sta combinando, nulla capisce di batteri, inoculo, resistenze ecc., ma si comporta da molti millenni sempre allo stesso modo: vola da pianta a pianta e si nutre pungendo le foglie per succhiarne la linfa. Che colpa ha “sputacchina” se, da qualche tempo, le tocca succhiare linfa arricchita di nuovo ingrediente come il batterio Xylella, che poi inietta nelle foglie di alberi sani d’olivo e d’altre specie, infettandoli fino ad ucciderli? Insomma “sputacchina” è diventato un ignaro ma pericolosissimo insetto vettore di Xylella, malattia mortale per gli olivi salentini. E come tale, spiace per lui, da abbattere. Con una ragionevole certezza: niente “sputacchina”, niente Xylella.

Le misure istituzionali adottate sono risultate tutte in qualche modo inadeguate a fermare il dilagare dell’epidemia: l’abbattimento di alberi colpiti o presunti tali per ridurre le fonti di inoculo si è risolto in un “genocidio” d’olivi malati e apparentemente sani perché, taglio dopo taglio, quella parte di Salento è diventato una desolata landa, al più punteggiata di scheletri di alberi secchi d’olivo. La misura mirata all’eliminazione dei possibili ricoveri di “sputacchina” ed eventuali altri insetti vettori mediante lavorazioni al terreno e sfalcio delle erbe si è rivelata anch’essa un mezzo fallimento, se è vero che, nonostante le penali previste a carico degli inadempienti, a maggio 2017, la stampa locale riportava che solo il 20% della superficie interessata era stata “bonificata” nel modo indicato dall’Autorità regionale. Quella che ha funzionato ancora meno è stata la terza, cioè la lotta al vettore. Capisco che parlare di lotta chimica agli insetti in Italia è come toccare un nervo scoperto e ciò spiega perché è stato affrontato in modo blando e in sordina (forse troppo) per non turbare le coscienze dei gruppi “antagonisti a tutto” e contrari a priori all’uso d’insetticidi, salvo quando si tratti di liberare le proprie abitazioni da zanzare, formiche e blatte.

Sono state proposte anche misure per ripopolare un paesaggio in via di estinzione con la sostituzione delle varietà locali, sensibili, con altre resistenti. Quelli che hanno proposto questa misura lo hanno fatto perché hanno evidentemente già alzato le mani in segno di resa, dichiarato la propria impotenza, abbandonato ogni speranza, rassegnati e in attesa della lenta, inesorabile scomparsa da tutta la Puglia centro-meridionale degli oliveti di Cellina di Nardò e Ogliarola di Lecce. Forse, i proponenti questa misura credevano in buona fede che Ogliarola di Lecce e Cellina di Nardò fossero due varietà d’olivo dalla diffusione limitata al solo basso Salento (il tacco), ma ignoravano che la prima in particolare è la varietà base dell’olivicoltura pugliese che da Leuca si spinge fino alle porte di Bari, occupa una superficie superiore a 100.000 ettari, sia pure cambiando nome al cambiare del territorio comunale. Ad esempio, Ogliarola di Lecce diventa Pizzuta in provincia di Taranto, Cima di Fasano, di Monopoli e di Mola nel territorio di quei comuni. Quei 100 mila ettari di oliveti tradizionali comprendono molte decine di migliaia di alberi d’olivo dei quali già scriveva L. Alberti nel secolo XVI e perciò dalla documentata età anche superiore al mezzo millennio e dichiarati monumentali, come quelli di Cisternino, Carovigno, Ostuni, Fasano, Monopoli, ecc. tutti sensibili a Xylella.

Varietà resistenti sarebbero (il condizionale è d’obbligo) state trovate. A dire di un folto gruppo di ricercatori di Bari esse rispondono ai nomi di Coratina, Frantoio (alias Cima di Bitonto, Ogliarola barese, Paesana), Fs-17 (alias Favolosa) e Leccino. Va bene, e allora? Cosa si avrebbe intenzione di fare? Attendere passivamente che la strage d’olivi si compia e quindi provvedere alla sostituzione degli esemplari di Ogliarola di Lecce e Cellina di Nardò uccisi con dette varietà? Così – il loro pensiero – torneremo a popolare gradualmente il Salento di olivi. Tutto questo, poi, ammesso che “sputacchina” non si stufi di nutrirsi sempre della stessa linfa e non decida di cambiare menù, passando a varietà oggi ritenute resistenti, come qualcuna delle quattro segnalate. Aggiungo che, forse, non basta che una varietà sia resistente a Xylella, ma è necessario che abbia caratteri agronomici, biologici e tecnologici meritevoli di considerazione per la diffusione in coltura e che dimostri di adattarsi alle condizioni edafiche e climatiche del Salento. Compito del patologo vegetale dovrebbe essere quello di segnalare l’esistenza di varietà resistenti; compito dell’arboricoltore quello di segnalare, tra quelle resistenti, le varietà valide. Dubito che quella decisione sia stata presa con accordi interdisciplinari. Ad esempio, personalmente non ritengo che le quattro varietà segnalate siano tutte ugualmente meritevoli della stessa considerazione. Ma questo è solo il personale parere di vecchio arboricoltore, che ha trascorso metà della sua vita a valutare varietà di fruttiferi.

Sappiamo che la scienza non è ancora riuscita a darci metodi di lotta diretti e risolutivi contro i batteri delle piante: diamole tuttavia tempo e finanziamenti adeguati perché cerchi di riuscire a tanto. Però, io mi domando: “Visto che per ottenere risultati utili passeranno anni se non decenni, nel frattempo cosa abbiamo intenzione di fare? Escluso che sia da vedere positivamente il solo reimpianto degli oliveti defunti e di quelli che via via defungeranno, vogliamo lasciare che le cose seguano il loro corso, solo rallentato dalle misure in atto per come sono state messe in pratica?” Non credo. Perciò non mi stanco di ripetere quanto ho scritto a dicembre 2015 e cioè che sarebbe stato necessario aggredire direttamente il vettore per bloccare la trasmissione dell’infezione, così come si fece alla metà del secolo scorso per liberare l’Italia da un altro flagello endemico, quello della “malaria”.

Nel secolo scorso, il plasmodio agente della “malaria” causava in Italia alcune migliaia di vittime ogni anno e fu reso inoffensivo non aggredendolo direttamente (allora non si sapeva come fare), ma eliminando il suo vettore, una zanzara del genere Anopheles: dapprima, con la bonifica degli ambienti paludosi, che li rese meno “ospitali” e ne ridusse le popolazioni. Ma la misura non si rivelò risolutiva, così come non sembra essere risolutiva la misura in atto d’eliminare la vegetazione spontanea ricovero di “sputacchina”. Di conseguenza, nell’immediato secondo dopoguerra, si decise d’intervenire per eliminare direttamente la zanzara vettore della “malaria”. Per fare ciò fu utilizzato un insetticida, il DDT (Difenil dicloro tricoloetano), che ci liberò dal plasmodio venendo poi accusato delle peggiori nefandezze, delle quali rimane ricordo solo nella mente dei più vecchi. Certo, ci fu un prezzo da pagare e questo prezzo fu causato dall’uso decisamente troppo disinvolto del DDT. Fa impressione osservare le immagini d’epoca sui modi d’impiego del DDT nel mondo, dagli Usa all’estremo oriente passando per l’Italia; uso sicuramente esagerato con nuvole di polvere bianca a ricoprire integralmente non solo campagne e case, ma anche l’uomo, tanto nudo che vestito. Come attenuante, diciamo che in quell’epoca della pericolosità del DDT per gli animali a sangue caldo si sapeva poco o nulla. Un po’ come per l’amianto, del quale ricordo che l’insegnante di scienze al Liceo ci spiegava che il suo uso era addirittura imposto per legge nei teatri come sipario ignifugo per impedire il propagarsi d’incendi da palcoscenico a platea e viceversa.

Capisco che oggi siamo nel terzo millennio e che, dalla fine della seconda guerra mondiale molte cose sono cambiate. Una su tutte, la sensibilità all’ambiente e alla conservazione del territorio, che è molto più sentita di allora. Affermo tuttavia che, se la stessa sensibilità all’ambiente fosse stata vivace sessant’anni fa com’è ai nostri giorni, forse – ripeto forse – noi oggi avremmo ancora problemi con la malaria che, per quanto riguarda la Puglia, rendeva invivibili molte parti del Salento soprattutto nel periodo primaverile-estivo. Proprio il periodo dell’anno che oggi è fonte di meritata notorietà e giusto arricchimento, invaso da eserciti di vacanzieri, attirati, oltre che dall’impagabile ospitalità della popolazione locale, dal mare colore smeraldo e dagli splendidi oliveti che ne punteggiano (o forse dovrei dire punteggiavano?) l’entroterra, spingendosi fin sulla costa.

È ovvio che non chiedo di tornare al DDT, anche perché bandito dall’Italia nel 1978, ma di usare le nuove molecole insetticide più selettive e con minore impatto con l’ambiente, usandole senza risparmio e con la precisa volontà di eliminare il vettore! Mettendo in salvo preventivamente persone e allevamenti e sperando che si sia ancora in tempo. Ma quel dubbio non ci deve frenare.

Gli olivicoltori salentini stanno già pagando un prezzo molto alto per le migliaia di olivi uccisi direttamente da Xylella e le migliaia di esemplari di olivi e altre specie sani o presunti tali e abbattuti a scopo preventivo. Senza contare la minaccia che incombe su ciliegi e mandorli, specie ugualmente sensibili a Xylella, scarsamente rappresentate in Salento, ma molto importanti appena si lasciano le province di Taranto e Brindisi per entrare in quella di Bari. E, se tanto mi dà tanto, temo che non bisognerà attendere tempi biblici per avere le prime segnalazioni di aggressione a quelle due drupacee, perni dell’arboricoltura da frutto pugliese, insieme con la vite (da tavola e da vino) e l’onnipresente olivo.

Prendiamo atto del disastro: quello che è fatto è fatto. Per ciò che potrà succedere da domani in avanti, dobbiamo assolutamente intervenire per bloccare l’epidemia che sta portando alla scomparsa un patrimonio a forte valenza agricola, storica, culturale e paesaggistica. Bisogna agire non cavandosela soltanto sostituendo gli alberi morti con virgulti da vivaio di varietà resistenti. Rimettendo in sesto solo i bilanci delle aziende vivaistiche. So bene che, con la lotta chimica (che bestemmia!), c’è da mettere in conto che, insieme con “sputacchina”, scomparirà temporaneamente anche la zoosfera selvatica locale, che penserà poi da sola a ripopolare con calma gli ambienti disinfestati. A ben pensarci, la stessa cosa deve essere avvenuta negli ambienti bonificati dalla malaria, nonostante la tabula rasa operato dal DDT. Il primo focolaio di Xylella è stato individuato, infatti, proprio in una zona che un tempo fu malarica, risanata anche con lo sterminio di entomofauna e avifauna residente, tra cui – devo pensare – gli antenati dell’attuale “sputacchina”. Dopo circa sessant’anni, “sputacchina” è tornata a popolare in massa la zona dalla quale fu “eliminata”, tanto è vero che sta provocando i danni che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Bisogna dunque decidere: salvare da sicura morte qualche milione di olivi ancora indenni (e un domani i ciliegi e i mandorli) oppure salvare P.spumarius, alias “sputacchina” e i suoi piccoli amici?

Ho la vaga sensazione che i responsabili della cosa pubblica finiranno col replicare il fallimento della lotta contro Rhynchophorus ferrugineus Olivier alias “punteruolo rosso”, che ha portato alla quasi totale scomparsa in Puglia, a cominciare dal Salento, della palma delle Canarie (Phoenix canariensis Chabaud). Diciamola tutta: le palme sopravvissute lo devono alla lotta fai-da-te messa in atto dai privati, che hanno deciso di non vedersi distruggere un bene soltanto perché chi di dovere non ha avuto il coraggio, nel nome del “politicamente corretto”, di usare dentro e fuori i centri urbani i formulati adatti con le dovute cautele. Ripeto: con le dovute cautele. E, con tutto il rispetto, quelle palme, almeno in Puglia, hanno funzione solo ornamentale e importanza minimale rispetto all’olivo. Si spera forse, ma senza dirlo, che gli olivicoltori, nel silenzio delle istituzioni, ricorrano anche loro al fai-da-te per fermare il flagellante binomio Philaenus – Xylella? Lo ritengo difficile, data la vastità del territorio colpito in questo caso. Tuttavia, se così deve essere, ci vuole qualcuno che li avvisi che bisogna fare in fretta perché, se di tempo a disposizione per agire ne avevamo già poco due anni fa, figuriamoci adesso.

La foto di apertura è di Luigi Caricato

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