Filippo de Raho, pioniere della modernizzata viticoltura
A partire dagli anni '70 dell'Ottocento vi fu in Terra d'Otranto un forte interesse verso il settore vitivinicolo che, nel decennio successivo, avrà una decisa espansione. È in questo spaccato di storia, caratterizzato da ingiustizie sociali e disparità, che il nobiluomo fece rifiorire la sua tenuta “Calizzi”, dove le capacità imprenditoriali furono fondamentali per la crescita dell’azienda, decisamente all’avanguardia per i tempi
Michele Mainardi
A partire dagli anni ’70 dell’Ottocento vi fu in Terra d’Otranto un forte interesse verso il settore vitivinicolo che, nel decennio successivo, avrà una decisa espansione: lo dimostra l’aumento della superficie coltivata a vigneto; ciò fu dovuto alla crescita della domanda di vini da taglio da parte di imbottigliatori del Settentrione d’Italia; ma soprattutto furono i francesi ad alimentare le correnti di esportazione dei mosti.
L’attacco della fillossera alle piantagioni dei cugini d’Oltralpe si rivelò un affare per i produttori nostrani, che trasformarono ettari su ettari di terreni a basse rese in redditizi campi vitati.
La battuta d’arresto della cerealicoltura (in séguito alla concorrenza americana) e la perdita di competitività del prodotto oleario (che non poteva gareggiare con le rinomate etichette toscane e baresi) fecero da innesco alla spinta a investire sulla vite.
Avveduti proprietari terrieri diedero così corso alla stipula di contratti di colonìa parziaria a migliorìa, le cui clausole e la durata variavano a seconda della qualità dei suoli coinvolti. I patti differivano da comune a comune: ciò che non cambiava era lo sfruttamento del lavoro contadino.
Gravava la maggior parte delle spese di coltivazione sul colono, sul mezzadro. La disparità stava nei fatti. Il peso ricadeva sulla parte impossidente. Nelle annate particolarmente negative non era raro che i fittavoli abbandonassero le quote loro assegnate per mancanze di risorse. Diventavano salariati a giornata, disposti anche a emigrare (più o meno temporaneamente) pur di sopravvivere. La famiglia bisognava sfamarla.
Di questo spaccato di terra e fatica siamo riusciti a tracciarne un esempio di circoscritta storia compulsando vecchie carte d’archivio. Rovistando tra i rogiti di notaio è venuto fuori quanto esperito da un intraprendente agrario leccese che, nelle campagne del vecchio feudo di Nubilo, poi Convento, portò a compimento un riuscito esperimento di messa a coltura della profittevole pianta vitacea.
Il nobiluomo Filippo de Raho fece rifiorire la sua tenuta “Calizzi”, il cui margine di Nord-Ovest segna il confine amministrativo di Lecce con Novoli.
L’estesa proprietà (106 ettari), lambita da un lato dalla linea ferrata, nell’arco di un quindicennio (dal 1885 al 1899) mutò faccia. Dall’assoluto abbandono del pascolo passò a vitalizzarsi grazie all’intensività colturale figlia della conduzione a vigneto dei ritagliati appezzamenti, tutti distaccati e segnati mediante l’apposizione di termini lapidei (le cosiddette “finite”).
Le quote create a più riprese avevano ampiezza oscillante: andavano dalle 2 tomola (pari a 125 are e 98 centiare) alle 18 (vale a dire 11 ettari, 33 are e 64 centiare).
La durata della concessione a mezzadria variava dai 18 ai 21 anni: un lunghissimo periodo di tempo che legava l’affittuario al suo concedente, esigente nel richiedere massima cura e diligenza nei lavori del campo.
I fittaiuoli dovevano far prosperare la vigna, assistendola da buoni e solerti padri di famiglia. Non potevano seminarci negli spazi interstiziali: l’unica eccezione permessa consisteva nello spargere il germe di qualche leguminosa (escluso i ceci), ma solo per i primi quattro anni dall’avvio. La piantagione per quelli a venire era assolutamente vietata.
Si permise di coltivare l’orzo “a pizzico” lungo i filari delle viti: a calcolata distanza onde non arrecare sofferenza alle piante.
La magra integrazione dei redditi che ne discese fu poca cosa. Occorreva allora davvero darsi da fare. I modi andavano trovati.
Gli obblighi contrattuali impegnavano i mezzadri in misura tale da non lasciare spazio a rallentamenti di sorta.
La pota delle viti andava fatta a regola d’arte e a piena soddisfazione del proprietario, il quale, se avesse riscontrato delle irregolarità, era nel pieno diritto di ricorrere a persona perita di sua fiducia, con accollo delle conseguenti spese ai contadini (molti di essi provenienti dalla vicina Arnesano).
Gli stessi, che già si sobbarcavano per intero quelle per l’iniziale dissodamento dei terreni e la successiva piantagione, non potevano esimersi, in aggiunta, dal solforare la vigna nel caso i sarmenti fossero rimasti nelle loro disponibilità.
Tutte le altre clausole dei contratti giravano a favore della parte dominante, come d’uso nella pattuizione di quei tempi, non certo benigni nei riguardi dei faticatori. Gli utili della vendemmia poi si contavano col bilancino.
L’apprezzo delle uve veniva eseguito occhiutamente. Guai a sgarrare di qualche chilo: la partita sarebbe finita male. Il perito del signor padrone incombeva (a Lecce come a Novoli: ovunque).
Non c’erano santi che tenessero. La pesa si ripeteva se qualcosa non filava liscio. Se poscia si associava che dietro si celava puzza di bruciato, addio!, il contratto veniva rescisso, senza indennizzo alcuno ai furbi (tali per necessità?).
I documenti ci dicono tutto sulla coltivazione della tenuta de Raho, divenuta podere modello per lungimiranza del signor barone. A “Calizzi” il vigneto prosperava, prima che l’attacco fillosserico dell’inizio del Novecento mietesse le sue vittime.
Le capacità dell’imprenditore fecero crescere l’azienda, dotata di moderno stabilimento per la vinificazione, con strumento attivato per via meccanica, a vapore, per mezzo di generatore locomobile: una novità per l’epoca.
Il suo azionamento richiese perizia nel manovratore: dovette conseguire apposito brevetto di fuochista l’àlacre proprietario.
Filippo de Raho, per essere all’avanguardia nella produzione vinicola, dotò i locali (le cantine) della masseria (nella tavoletta dell’Istituto geografico militare di Firenze del 1913 toponomasticizzata “Casino”) di impianto di illuminazione ad acetilene, che veniva ricavato dal carburo di calcio in un’altra apposita installazione fornita di macchinario adeguato: un vero prodigio per i tempi.
Validi canali di commercializzazione del prodotto semilavorato fecero il resto: partivano per il Nord Italia le botti di negro amaro e di malvasia, facendo conoscere le sanguigne uve locali ai clienti di palato fine di Milano e di Torino.
La “lacrima” de “li Calizzi” sarebbe servita a configurare un vino sostanzioso, di tipo costante, discretamente alcolico, ricco di materia colorante, abbastanza resistente alle intemperie e ai viaggi per ferrovia: ricercato dai fabbricanti settentrionali, adatto per essere tagliato, come i suoi parigrado altrettanto corposi, aromatici, del resto della regione otrantina.
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