Saperi

Il tempo che non c’è

“Trascorriamo la parte vitale del nostro percorso legando il tempo al ricordo” e a quei luoghi, a quei volti e a quelle voci affidiamo l’incarico di essere i nostri rifugi. Ed è così facendo che non permettiamo al futuro di assumere una forma e un’identità perché ancora offuscato da ciò che lo ha preceduto. Il divenire spaventa, l’incertezza di quello che sarà un domani spaventa. Ma questa dimensione è anche quella in cui noi possiamo ancora decidere di cambiare la nostra strada e rimediare a quel tempo che abbiamo perso o che non abbiamo saputo cogliere

Massimo Cocchi

Il tempo che non c’è

Massimo Cocchi

La vita e la morte, un tempo per la vita e un tempo per la morte.

Per noi comuni mortali il tempo è una strana cosa, è quel concetto in cui iscriviamo il nostro passato e immaginiamo il nostro futuro.

Pochi, o nessuno, ci hanno insegnato a valutare il tempo, alla stessa stregua pochi, o nessuno, ci insegnano a capire il concetto di morte a parte delle considerazioni legate al credo delle varie religioni.

Così trascorriamo la parte vitale del nostro percorso legando il tempo al ricordo, come se esso fosse l’ancora che ci garantisce che siamo ancora presenti e poco tempo lo dedichiamo a pensare al futuro del quale abbiamo sempre una certa incertezza.

Ecco le due dimensioni del tempo, la realtà del vissuto e del ricordo e l’illusione del domani.

Il tempo, pertanto, c’è nel passato e non c’è, non esiste, nel futuro.

Già, perchè al tempo futuro non siamo in grado di dare una dimensione, quindi lo definiremo come il tempo che non c’è. Mentre il passato ci riempie il pensiero di tutti i momenti che abbiamo trascorso, il fascino vero sta nel tempo che non c’è, lì lasciamo spazio alla capacità di pensiero e di pensare, molte volte con l’angoscia dell’ignoto.

È un po’ come se prima di addormentarci volessimo prevedere il giorno dopo e desiderassimo che il sogno ci garantisse il futuro del giorno che sta per arrivare, e questo non è, perchè, comunque, almeno a me, non è mai capitato di sognare quadri di futuro realistici ma quadri, con diverse pennellate e colori che, scavando in quel magnifico serbatoio che è la mente, il concetto impalpabile del cervello, vengono a galla con meccanismi che, fino in fondo, non ci è ancora dato di comprendere e, tantomeno, di spiegare.

Pochi giorni fa, con l’amico Jack Tuszynski, famoso biofisico, abbiamo discusso per un giorno intero sull’ipotesi che esistano “due cervelli”, uno che esprime la cosiddetta normalità e uno che esprime la follia, intendendo questa come disordine psicopatologico.

La distanza molecolare fra i due non è colmabile, cioè dal secondo cervello non si torna indietro, e, mentre piccole oscillazioni del primo sono assolutamente ben tollerate, piccolissime oscillazioni del secondo possono provocare danni devastanti.

Ecco, quindi che si pone nuovamente il concetto di tempo, un tempo per la “normalità” e quale tempo per la follia? Siamo certi che quel “lucido pensiero” che porta alla privazione della propria vita non sia la capacità della follia di prevedere e attuare il futuro? Se questo ragionamento fosse plausibile ci troveremmo di fronte al mistero del tempo, laddove anche la morte non esisterebbe nel momento che non esiste il tempo futuro.

Non v’è dubbio che il cervello, nelle funzioni che legano l’interno della cellula neuronale con il suo esterno, rimanga un grande mistero, che fa della vita il tempo che c’è e della morte il tempo che non c’è, o, forse, per qualcuno esiste.

Fabio Gabrielli

Nel pensiero greco antico si distingueva una vita biologica che accomuna ogni specie, un incessante susseguirsi di cicli, di nascite e di morti, chiamata specifica, un segmento, una individuazione di zoè, chiamata bìos, la nostra biografia, con un zoè, e una vita intesa come esistenza suo inizio e un suo termine ben precisi.

Ogni biografia cerca di ritagliarsi all’interno della comune vita biologica una durata, augurandosi che sia non solo protratta il più possibile nel tempo, ma, soprattutto, che sia anche piena, luminosa, appagante.

Non ci chiediamo solamente quanto durerà la nostra vita, ma che tipo di vita sarà, di quanta pienezza di senso saremo portatori.

Questo significa che la nostra vita biografica è caratterizzata da tre categorie fondamentali: quantità, qualità, misura.

La quantità come effettiva durata, la qualità come senso e valore, la misura come limite dell’eccesso.

Dunque, stare all’altezza della vita che ci è stata assegnata, significa attribuire una qualità e un limite alla durata.

La semplice durata senza senso e valore è solo un vuoto susseguirsi di anni; nel contempo, la durata senza limite rischia di naufragare nell’eccesso di esperienze solo quantitative o, all’opposto, in forme di rassegnazione, di rinuncia alla vita.

Un grande filosofo dell’antichità, Seneca, scrive con la consueta lucidità: “Non abbiamo poco tempo, ma ne perdiamo molto. La vita è sufficientemente lunga e ce ne viene elargita in abbondanza per il conseguimento di ciò che vi è di più grande, se si fa uso saggiamente di ogni sua parte; ma quando scorre via nel lusso e nell’ignavia, quando non la si mette a frutto e alla fine, con l’incalzare della estrema necessità, ci accorgiamo che è passata, ma non ci siamo resi conto del suo trascorrere. È così: non è breve la vita che ci è stata data, ma tale la rendiamo e non siamo poveri di essa, la sprechiamo”.

Insomma, dobbiamo attrezzarci per evitare di sprecare la vita, cioè, come suggerisce il significato di questo verbo, di disperderla, dissiparla, spargerla inutilmente in giro. Una vita piena, una vita buona, reclama una durata qualitativa in cui nulla sia sprecato, in cui ogni frammento contribuisca a illuminare la nostra irripetibile scena. In questo senso, la tristezza più cupa, forse, non è tanto la rassegnazione o l’impotenza, ma la dissipazione della vita.

La foto di apertura è di Olio Officina, tratta dal Museo della Follia di Lucca, Cavallerizza di Piazzale Verdi, mostra a cura di Vittorio Sgarbi, 27 febbraio – 22 settembre 2019

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