Saperi

Noi usavamo l’olio di Doria

Racconto. Tutto parlava a bassa voce. Poi si sollevava l’enorme coperchio che custodiva l’olio giallo: papà e zia lo facevano, a volte c’era bisogno di Amalia, c’era una lentezza e una solennità nei gesti, poi il capo si chinava quasi in ossequio ad annusare la provvidenza che anche per quell’anno Dio ci regalava

Alessandra Paolini

Noi usavamo l’olio di Doria

Un flusso inarrestabile, corposo, pieno, fatto di onde morbide, rotonde, vellutate, scolpite nella memoria con la plasticità che solo il potere evocatorio dei ricordi può serbare.

Scendevamo le scale consumate di San Sisto, grigie mangiate dagli anni, i passi, e i respiri e sembravamo una devota, antica, clandestina processione che andava ad incanalarsi in catacombe segrete, buie e sconosciute. Nell’arco, sul mini ballatoio, papà chinava il capo ed io lo imitavo pedissequamente, crucciandomi di non averne avuto apparente bisogno, ma chissà che non fosse un inchino venerabile a ciò che andava a dischiudersi ai miei occhi e alla mia fantasia, invero, forse, era la risposta d’istinto al cenno d’occhi di mia madre che, in apprensione, serviva a ricordargli di non rompersi la nuca contro quegli spigoli ricamati di ragnatele che poi neppure si sarebbe potuto disinfettare per non offendere zia Sara. Lei scioglieva la chiave dal grembo che per vezzo aveva infilato lì, nel breve spazio di pochi gradini che separavano la casa dalla cantina e la girava imponente nella toppa, a quel richiamo un odore si raccoglieva in fretta, come il trambusto che agitava il mio cuore bambino, lì sul ciglio ad avvolgerci nel benvenuto.

Era un misto inscindibile di eccitazione e quiete.

Vivevo quei minuti di ansia preparatoria mordendoli velocemente, per poi tornare a ruminarli ed assaporarne meglio il gusto intenso e pacificatore. Era il rito che si compiva tutti insieme programmandolo come si fosse trattato di un propiziatore rito di campagna, cosa che forse per la generazione della guerra fu. Zia indossava, non so se in verità o nei miei ricordi, lo scialle, quello di San Sisto, le calze spesse e la gomma più vecchia contenuta nell’armadio, papà il cappotto che poteva macchiarsi, io andavo lì, come se lì fossi stata convocata dalla parte più bella della vita, quella che si profumava del fumo dei comignoli, delle voci argentee nei vicoli ventosi e chiacchieroni dei paesi, dove il ridere garrulo delle fontane accompagna e copre il chiacchierio continuo e querulo delle vecchie che si affacciano per le lamentazioni e le giovani che spostano le vigorose anche sull’acciottolato e di là rispondono come ad un obbligo alle salutazioni degli anziani che rotolano giù dai ballatoi.

Andavo lì, sperando di restarci, catturata dagli sguardi oziosi sopra le panchine di pietra addossate ai palazzi in mezz’ombra, portavo vuota la valigia della fantasia che come si girava il vertiginoso curvone e si lasciavano alle spalle le mal coltivate terre, si apriva per riempirsi dell’odore dei ciclamini e del sottobosco che avevo serbato gelosamente nelle narici, andavo lì, con i pantaloni di vellutone largo e i capelli tagliati alla maschiaccio indomiti in quella ribelle vertigine che sembrava volesse risucchiarmi i pensieri verso l’alto, verso il cielo; vestivo il controvento, un grosso maglione su e mi sfregavo le mani contro il freddo attivando una grande gioia dentro il cuore, la macchina senza il riscaldamento si appannava dei nostri respiri e ciò ce la rendeva immensamente più vicina, più sicura, meno ignota.

Io raccontavo favole alla mia memoria, quando non chiedevo a papà l’ennesima sosta sotto i tornanti per andare a scavare la terra e prelevarne bulbi di ciclamini da ripiantare a casa sul davanzale.

Andavo lì, a prendermi l’olio che aveva riposato che, chissà?, forse anch’esso era bambino e appena nato non era proprio il caso di spostarlo troppo. Andavo. Ed aspettavo di andare di anno in anno, e credo fossi anche la più felice di farlo, quella non lambita da obblighi o incombenze programmazioni o limiti da conciliare, limare, disattivare nel paziente minuetto che le volontà adulte attuano per mantenere unita la famiglia ampliata. Andavo, correndo veloce a perdifiato con la fantasia, spezzando il fiato come facevo nei lunghi corridoi di casa della nonna e poi fermandomi imbizzarrita davanti alle porte delle stanze più buie e meno abitate per assaporarne la paura della sosta che tagliava il passo e il respiro ma prolungava infinitamente il piacere di quella corsa che altrimenti avrei divorato in poco, troppo poco.

Nella cantina tutto parlava a bassa voce, tranne le nostre voci che rimbombavano nell’eco. Io impastavo le poche parole che mi uscivano con l’acquolina che quell’odore immediatamente e imperiosamente mi richiamava.

Poi si sollevava l’enorme coperchio che custodiva l’olio giallo: papà e zia lo facevano, a volte c’era bisogno di Amalia, c’era una lentezza e una solennità nei gesti, poi il capo si chinava quasi in ossequio ad annusare la provvidenza che anche per quell’anno Dio ci regalava.

Lo ricordo che zia saliva sopra un rialzo perché la sua statura non le consentiva di arrivare a padroneggiare l’enorme cilindro che conteneva l’olio. Io vibravo figurandomi che un giorno, accidentalmente o volutamente, ci sarei caduta dentro, immersa fino al collo e ancora di più, a sguazzare coperta avvolta sormontata d’olio e gorgoglii gialli avrei emesso! Temevo di morirvi, proprio come i temutissimi topi, e di rinascervi, facendo schizzi e spruzzi bellissimi insoliti vivacemente colorati.

Poi si prendeva il mestolo e, neppure ora, capisco perché ve ne fossero tanti, davvero tanti, variavano le dimensioni e forse variava anche la lunghezza (e questo mi spiegherebbe ad oggi la necessità di quella varietà di attrezzi). Zia operava in assoluto silenzio, pareva un meticoloso chirurgo o forse un officiante sacro, non si poteva interrompere, distrarre, infastidire, non so cosa ci fosse di così sacralmente laico, ma so che c’era. Ogni tanto era lei che parlava e la sua voce usciva da quel cilindro in cui era chinata e quasi sparita immergendo il mestolo per richiamarne olio, la sua voce usciva con un sigillo di ufficialità che autorizzava gli altri, in primis mio padre, a rompere il silenzio circostante, a qual punto anche io potevo essere sollevata di peso e introdotta alla visone di quel mare d’olio, lì mi si spalancava l’infinito, quell’infinito che, da piccoli, ci fa visita così generosamente, nelle piccole immense cose quotidiane. Annusavo, annusavo, con gli occhi, con gli orecchi, con il cuore, con quella bramosia e voluttà che ha sempre contraddistinto i miei sensi quando c’era da impadronirsi in fretta, in sintesi ed in profondità di brevi, intensi, irrinunciabili attimi di felicità! Poi venivo riposta nuovamente sul pavimento gelido consunto e un po’ unto, fino a quando lo sguardo di mia madre avrebbe nuovamente impetrato per me la preghiera silenziosa di essere ripresentata ancora lì, in estasi davanti alla visione. Non so se zia ne fosse infastidita o ringalluzzita, forse ne era orgogliosa e al contempo si imponeva di esserne stizzita con quella concretezza pratica, saggia e conclusiva che nella vita bisogna avere da adulti ed iniziare a coltivare da bambini senza stare lì a coccolare quel lato estatico e fanciullesco che poi di pratico a nulla porta e nulla costruisce.

Lei lentamente e laboriosamente muoveva le braccia affaticate e il mestolo elargiva ampie sorsate d’olio agli imbuti ferrosi, ammaccati, sbilenchi, gole avide e generose che travasavano ricchezza ed abbondanza come miti umili servienti strumenti di passaggio ai recipienti che noi avevamo approntato.

Lì ho imparato a riconoscere la voce dell’olio. Cadeva calda, profonda, liscia corposa, con note dorate come lamelle scalfite dalla vita e dagli ulivi, nei fiaschi, nelle damigiane, cadeva, si lasciava andare, rotolava, si tuffava, scivolava, faceva tutte quelle cose che io amavo fare, e le faceva con una grazia e una pienezza che io non potevo che invidiare; mai, mai di certo imitare o pareggiare.

L’olio giocava con gorgogli, vortici, risucchi, onde, risate che io avrei voluto miei.

Amalia era chiamata a leggere i gesti di mia zia, a prevenirne l’infastidimento se subito la carta di giornale non era pronta ad accogliere il mestolo che lei porgeva richiedendone, con solo un stizzito impercettibile movimento delle spalle, quello che ora sarebbe stato più consono usare, era un rituale da camera operatoria e se a volte mio padre ci si infilava dentro con quella opportunità maldestra che gli uomini adottano sfasciando un rituale di domestica femminea quotidianità, sentivo i borbotti di mia zia che si accavallano a soverchiare quelli dell’olio. Io fremevo e tremavo di freddo e di piacere, quanto sarebbe stato bello rimanere lì tutta la vita, magari sarebbe pure comparso, quel dannato temuto topo, che mai, a dire il vero, vidi annegarsi nell’olio!

Quanto sarebbe stato bello restare a raccogliere ciclamini ed ancora, avida, attivare il senso dell’olfatto per impadronirmi ancora e ancora anche di quel profumo da portare via, da portare dentro come quelle bottiglie preziose di olio che stavano a sgomitarsi dentro il bagagliaio del maggiolino dove io impenitente mi affacciavo e desideravo di tuffarmi, con mamma che lanciava occhiatacce dentro lo specchietto prima che papà lanciasse spazientito qualche rimbrotto e mia sorella ligia e composta con la gomma a piegoni mi tirasse giù a frenare la mia impazienza e la mia curiosità sul morbido sedile. Viaggiavamo sul curvoni a trattenere il fiato negli strettissimi viadotti e se avevo dietro il panino da mangiare allora l’incanto era perfetto, io ero in viaggio per l’olio, l’avevo preso, protetto, accudito e lo portava a casa come un bottino sacro e prezioso. Quello avanzato dalla campagna precedente andava a chi era meno fortunato di noi e a chi di noi intendeva usarlo per le fritture delle feste.

A casa l’olio si provava anche se zia l’assaggio l’aveva già fatto con il cucchiaio anch’esso parente sghimbescio e sgangherato dell’imbuto e del ramaiolo perché, come incipit del rito, l’olio veniva sollevato e poi ricalato dentro il recipiente a formare nastri preziosi, come battesimo che ne sancisse l’idoneità e poi ancora risollevato per l’assaggio.

Noi tornavamo a casa e lo usavamo per poco, perché il colono di San Sisto non si rassegnava proprio a raccoglierle più verdi quelle olive, zia Sara non doveva saperlo, ma noi lo regalavamo a quei parenti a cui piaceva così tanto e noi usavamo l’olio di Doria, papà ci teneva tanto che le olive venissero raccolte presto e lasciava a disposizione del fattore il frangivento di cipressino perché lui metteva le tele sotto che l’olio è buono quando le olive sono mature. Per noi no. Noi andavamo per quella strada che un architetto, non bene aduso alle cose di campagna, aveva individuato come giusta… ma quante vertigini, in quei tornanti!

La foto è di Simone Maviglia, vietata la riproduzione.

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