Saperi

Sotto l’albero di Natale… niente

È giusto trasformare una pandemia virale in una pandemia angosciante? Poco conta nel panorama delirante di un pugno di individui che, pur non rappresentando più una volontà popolare, decidano che non sia così importante che si rompa la tradizione, ma ancora più grave è che questi decidano della nostra libertà. La “legge” dei numeri? È quel qualcosa che non viene detto in modo compiuto e leale

Massimo Cocchi

Sotto l’albero di Natale… niente

Si suole dire che non c’è niente che non finisca, bene, per me quest’anno è finito il Natale.

Non ci sarà né albero, né presepe nella mia casa rompendo una consuetudine cui manca non moltissimo per avviarsi verso il famoso quanto inquietante “quasi secolare”.

L’ipocrisia benpensante di tutti i nostri media si farà in quattro per sollecitare tutti a mantenere sane tradizioni, anche quella dei governanti, ma io romperò questa tradizione.

Perché?

Perché mi troverò, amaro destino, a essere stato obbligato a rompere la più importante delle tradizioni, quella di riunire gli affetti, il sottoscritto, mia figlia e mio fratello, ultimi residui di famiglia, abitiamo in tre comuni diversi, seppur limitrofi, nella stessa città metropolitana, eppure ci è impedito di trovarsi.

La solita ipocrisia benpensante dirà che ci possiamo riunire prima del giorno di Natale e questo è un po’ come dire che si può festeggiare il ferragosto il 15 di gennaio, oppure che si può festeggiare il compleanno un giorno che non è quello in cui sei nato, oppure che i doni sono sempre bene accetti e che i Re Magi potevano anche arrivare a Betlemme nel mese di luglio ecc. ecc.

Quale il senso di rispettare quel giorno che ha cadenzato il nostro venire al mondo?

Certo, nella vita, come tutto finisce è anche tutto possibile, ma non è così.

E se questo fosse l’ultimo Natale che io avrò la fortuna di vedere?

Poco conta nel panorama delirante di un pugno di individui che, pur non rappresentando più una volontà popolare, decidono che non è così importante che io rompa la mia tradizione, ma ancora più grave è che decidono della mia libertà.

Quando all’uomo, qualunque sia il motivo, viene tolta la libertà, si compie uno dei delitti contro l’umanità più efferati che si possa pensare, e di questo ne abbiamo ben “contezza” per dirla con la parola insostituibile che usano i miei amici siciliani.

Abbiamo “contezza” ancora vivida dalle cronache che raccontano passati remoti e più recenti di vessazioni libertarie della libertà.

Dove è finita tutta la prosa della socializzazione famigliare, dei richiami a curarsi dell’anima del nostro prossimo, del pensiero rivolto al richiamo al triste ricordo dei nostri cari che non si affogherà e non si affogheranno più nel piacere della grande abbuffata del Natale?

Ecco, forse, nella demenziale situazione che quest’anno separa gli affetti, c’è un unico aspetto positivo, ci renderemo conto che non è l’abbuffata che conta ma che è il pensiero che rimane, quello non possono toglierlo.

In questo Natale ci renderemo conto di tanti perché della storia delle vessazioni umane, ci renderemo conto del perché qualcuno decide la corsa al potere sui suoi simili, perché “lui” troverà sempre il modo di non fare quanto lui ha obbligato agli altri, forse, nel nome della ragione di stato e allora, io vorrei vedere chi ha concepito e avvallato questa ignominia, mangiare solo in un tavolo spoglio per dare, almeno, il buon esempio.

Vorrei vedere qualcuno nelle grandi stanze del potere consumare un frugale pasto nella più completa solitudine.

In un momento terribile come si giudica quello attuale, dove la paura si insinua negli anfratti della mente, quello sarebbe un messaggio di coerenza e di giustizia.

Il “popolo” sarebbe contento di vedere che siamo tutti uguali.

Non credo che questo accadrà.

Vorrei scrivere, dalle pagine del magnifico giornale che ha il coraggio di ospitare anche le mie idee, che la vita è uguale per tutti.

Quello che mi disturba, pur riconoscendo che siamo certamente di fronte a un fenomeno che in questo momento risulta difficile da spiegare, è la “legge” dei numeri, è quel qualcosa che non viene detto in modo compiuto e leale.

Io non sono molto forte in matematica ma credo di sapere leggere i numeri, quello che non so mai è se sono veri oppure no, tuttavia, con una banale ricerca, a tutti possibile e da fonti accessibili, i numeri sono quelli che appaiono.

Se sono questi, mi meraviglia non poco osservare che l’anno 2020 non presenta un disastro così imponente rispetto ad altri recenti anni.

Allora mi corre un pensiero, come si fa a capire quali sono le differenze fra i morti della consuetudine e i numeri spaventosi che quotidianamente ci vengono propinati nella fredda cronaca dello tsunami virale?

Quali sono le ragioni che hanno traghettato a “miglior vita”, come si suole dire, i nostri connazionali?

Meno di 100 mila decessi oltre la media, ammesso che quelli che si registreranno negli ultimi quattro mesi dell’anno siano coerenti con i primi otto mesi, hanno sconvolto milioni di vite togliendo loro la libertà, siamo sicuri che sia giusto trasformare una pandemia virale in una pandemia angosciante?

Qualche zelante servitore si premurerà di ribatter “ma se non facevamo come abbiamo fatto e se non li curavamo” quei numeri sarebbero stati molto più alti.

Allora io rispondo che se avessero capito prima quale era la cura di questa pandemia, forse, i numeri sarebbero stati di gran lunga inferiori e saremmo nel naturale corso delle cose.

Ci sarà qualche zelante media asservito al potere che ci dirà con la stessa preoccupante freddezza quante persone si sono rifugiate nelle magiche pillole della felicità?

Che ci dirà degli intimi turbamenti dei tanti cui è stata negata la consolazione di assistere o accompagnare i loro cari durante il viaggio della sofferenza?

Non lo so, ma non credo.

In apertura foto di Olio Officina: un’opera di Venturino Venturini (1918-2002), “Maschere”, 1980-1985 circa, cartapesta, Archivio Venturino Venturini; opera esposta a Lucca, “Museo della Pazzia”, mostra a cura di Vittorio Sgarbi

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