Visioni

Quale Unione Europea nella prima civiltà planetaria

Alfonso Pascale

Con la guerra di Putin all’Ucraina si è rotto il vecchio ordine globale faticosamente costruito dopo la seconda Guerra mondiale. Si sono, infatti, lesionati i due pilastri fondamentali di quell’ordine: l’apertura dei mercati e l’interdipendenza tra gli Stati.

Un ordine progettato da statisti come Roosevelt o economisti-pensatori come Keynes che avevano una visione sovranazionale dei problemi globali.

Per essi non era sufficiente fare degli accordi internazionali. Secondo il loro pensiero, i problemi globali (pochi e ben circoscritti) si sarebbero potuti affrontare e risolvere solo edificando istituzioni sovranazionali.

Istituzioni efficaci, cioè dotate della sovranità occorrente per svolgere compiutamente il proprio compito.

Senza subire pressioni dagli Stati, inevitabilmente mossi dagli interessi nazionali.

Ma quel sogno non si è realizzato.

L’ordine mondiale che ha preso forma in questi quasi ottant’anni è stato precario, incerto, fondato su rigidi equilibri politico-militari delle potenze degli Stati.

A nulla è valso, negli ultimi trent’anni, favorire le interdipendenze economiche, mediante la costruzione di meticolose norme giuridiche planetarie.

Nel frattempo, agli antichi problemi globali se ne sono aggiunti di nuovi.

Accanto ai temi della sicurezza – tra cui quella alimentare ed energetica – sono emersi altri problemi: consapevolezza della scarsità delle risorse naturali, cambiamento climatico, demografia e migrazioni.

Questioni tra di loro fortemente interconnessi.

L’esaurirsi del vecchio ordine e la complessità tecno-economica della globalizzazione, che si è realizzata negli ultimi decenni, fanno emergere un problema che i padri fondatori non avevano considerato: non basta edificare istituzioni sovranazionali efficaci senza dotarle di legittimazione democratica.

Agli albori della civiltà planetaria che sta prendendo forma, un nuovo ordine mondiale potrà sorgere se si porrà mano alla democrazia oltre lo Stato.

Dalla visione sovranazionale alla logica intergovernativa

Nella “Carta Atlantica” firmata da Churchill e Roosevelt nell’agosto del 1941, nell’Oceano Pacifico, su di una nave nei pressi dell’isola di Terranova, furono fissati alcuni principi comuni dell’ordine mondiale da ricostruire dopo la guerra. Essa da poco era iniziata e aveva un nemico comune: il nazismo.

Due erano i principi essenziali della “Carta Atlantica”: l’autodeterminazione dei popoli, cioè il loro diritto a scegliersi la forma di governo sotto la quale vivere, e la liberalizzazione dei commerci internazionali e dell’accesso alle materie prime del mondo.

Nella “Dichiarazione delle Nazioni Unite”, sottoscritta il giorno di Capodanno del 1942, oltre che da Roosevelt e Churchill anche da Litvinov (Urss) e Soong Tse-ven (Repubblica della Cina), vennero ribaditi i principi contenuti nella “Carta Atlantica”, a cui fu aggiunta, su richiesta del presidente statunitense, la libertà religiosa.

Sulla base di quei principi, nel 1944, furono negoziati gli accordi di Bretton Woods. Tali patti definirono l’ordine monetario che sarebbe rimasto in vigore fino all’inizio degli anni settanta.

E in quelle trattative vennero anche previste le principali organizzazioni economiche mondiali: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Mentre le prime due vennero istituite immediatamente, la terza vedrà la luce solo negli anni Novanta. Nel frattempo, la graduale liberalizzazione degli scambi commerciali fu avviata con il General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt).

Nel testo finale della Conferenza di Yalta, in Crimea, tra Stalin, Roosevelt e Churchill, conclusasi l’11 febbraio 1945, quando la guerra era ancora in corso, furono trascritte e firmate diverse decisioni comuni. Si riaffermarono i principi sanciti nella “Carta Atlantica”.

I Paesi liberati dal nazifascismo avrebbero dovuto esercitare la propria sovranità e scegliere liberamente la forma di governo sotto cui vivere.

Il 25 aprile di quello stesso anno si sarebbe aperta la Conferenza delle Nazioni Unite a San Francisco per istituire l’organizzazione sovranazionale che avrebbe dovuto occuparsi del mantenimento della pace e della sicurezza.

Anche nella proposta progettuale elaborata, tra il mese di giugno 1943 e l’ottobre 1945, dalla commissione insediata dalla Conferenza di Hot Springs in Virginia per l’istituzione della Food and Agriculture Organization (Fao), ritroviamo i principi della “Carta Atlantica”.

L’agenzia fu originariamente pensata come un organismo incaricato di amministrare le politiche alimentari mondiali: una struttura dotata di pieni poteri per fissare i prezzi delle derrate, acquistare il surplus produttivo e redistribuirlo globalmente.

La Fao avrebbe assolto a queste funzioni attraverso uno specifico organo interno: il World Food Board.

E così avrebbe assicurato ai popoli di diversi continenti non solo la quantità e la qualità del cibo necessarie per vivere in salute, ma anche la prosperità e la pace.

Il progetto di World Food Board fu inizialmente approvato dall’Assemblea plenaria della Fao, ma venne accantonato già nella prima fase di realizzazione.

Alcuni grandi Paesi ne presero le distanze o lo boicottarono.

L’Unione Sovietica aveva partecipato alla Conferenza di Québec City e avrebbe potuto far parte della Fao fin dall’inizio con lo status di membro fondatore, ma non sottoscrisse, assieme alla Bielorussia e all’Ucraina, lo statuto.

Altri Paesi, tra cui l’Amministrazione americana, approvarono l’atto di fondazione dell’organismo e il suo modello organizzativo, ma poi ne ostacolarono l’attuazione.

E così la Fao rinunciò ad una funzione nell’ambito del processo decisionale delle politiche alimentari e si adattò ad una condizione di mera dipendenza dalle priorità imposte dagli Stati membri.

Si ritagliò un ruolo ridotto nella disseminazione delle conoscenze e delle tecniche agricole.

Va ricordato che gli esperti che avevano lavorato al progetto iniziale della Fao provenivano dall’Agricultural Adjustment Administration (Aaa), creata da Roosevelt nel 1933 per fronteggiare la Grande Depressione provocata dalla crisi del 1929.

Il presidente americano era, infatti, convinto che la sicurezza alimentare planetaria si dovesse conseguire con politiche gestite a livello sovranazionale e analoghe a quelle messe in atto con il New Deal.

Ma con la morte precoce di Roosevelt nell’aprile 1945, quel disegno era stato rapidamente abbandonato.

E l’amministrazione Truman aveva sostituito gran parte dei tecnici e degli esperti non solo nelle strutture pubbliche nazionali, ma anche nella Fao.

L’idea di implementare il nuovo ordine mondiale di organismi sovranazionali, dotati di sufficiente autonomia decisionale e svincolati dalla pressione esercitata dagli Stati nazionali, non si affermò.

E prevalse la logica intergovernativa e negoziale, propria delle relazioni internazionali e che produceva forti elementi di precarietà, incertezza e instabilità.

La lunga Guerra fredda

Nel frattempo, alla logica intergovernativa degli organismi internazionali si aggiunse un ulteriore elemento che segnò negativamente l’ordine mondiale che si stava edificando: l’inizio della Guerra fredda.

La contrapposizione tra il blocco atlantico e il blocco sovietico sui temi della democrazia, della libertà e dello stato di diritto, che darà vita al sistema bipolare, emerse gradualmente.

Come si è visto, l’Urss aveva sottoscritto l’impegno a rispettare i principi sanciti dalla “Carta Atlantica”.

Dunque, sembrò che il diritto di autodeterminazione dei popoli valesse anche come criterio delle nuove sistemazioni da imporre ai vinti e da far rispettare dai vincitori.

Ma nell’Europa centro-orientale l’Unione Sovietica non rispettò tale principio.

E fu allora che – come altre volte nel passato, e come nella storia del continente non aveva mai realmente cessato di accadere – la contrapposizione tra Occidente e Oriente si sostanziò immediatamente di forti connotazioni ideologiche e culturali.

La divisione dell’Europa in due aree di potenza derivò non dagli accordi di Yalta, bensì precisamente dalla loro violazione.

E questo già a partire dall’autunno del 1945.

Durante la Guerra fredda, la visione delle relazioni internazionali che ispirava le scelte dei leader occidentali era la seguente: l’ordine globale è fondato sulla lotta per il potere politico-militare tra i due blocchi contrapposti e le interdipendenze economiche sono subordinate a quell’ordine.

Nel Dopo-guerra fredda, quella visione si è modificata e si può così sintetizzare: l’ordine globale è fondato sempre di meno sulla lotta per il potere politico-militare tra gli Stati e sempre di più sulle interdipendenze economiche tra i Paesi.

Per di più, una pluralità di attori internazionali non-statali (imprese multinazionali, istituzioni finanziarie, organizzazioni non governative) partecipano al processo che conduce a decisioni globali, così riducendo la possibilità della rivalità diretta tra gli Stati.

Attraverso quei regimi internazionali, le dispute tra Stati e tra attori privati sono state risolte attraverso negoziati basati sul reciproco riconoscimento dei loro interessi legittimi, oppure ricorrendo alle decisioni di magistrature internazionali (quando necessario).

Sabino Cassese ha spiegato come negli ultimi trent’anni si sia venuto a consolidare un vero e proprio ordine legale globale, ispirato dai principi del liberalismo internazionale che proteggono i diritti degli individui e non solo gli interessi degli Stati.

Il Presidente emerito della Corte costituzionale ha contato circa duemila regimi regolatori globali. La sola Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) consterebbe di un corpus ricco di circa ventimila regole.

Avrebbero dovuto addomesticare le pulsioni aggressive degli Stati, contribuire a delegittimare la guerra come strumento per la soluzione delle contese.

Ma l’aggressione dell’Ucraina dimostra che si è trattato di una grande illusione. Si è riprodotta una nuova e più ampia frattura: democrazie, da una parte, e autocrazie, dall’altra.

Sergio Fabbrini sostiene che la crisi dell’ordine mondiale dipenda dal fatto che “l’interdipendenza basata sugli scambi economici e le norme giuridiche non è sufficiente per pacificare il mondo”.

L’economia russa si è venuta, infatti, ad intrecciare con le esigenze economiche dei Paesi europei, traendone non pochi vantaggi; il Pil russo è stato sostenuto dalle esportazioni di gas e materie prime nei Paesi dell’Europa (tra cui il nostro); la nuova classe media russa si è riversata sui consumi occidentali; i ricchi russi hanno trovato estese e convenienti occasioni di investimento finanziario, immobiliare e industriale in Paesi come il Regno Unito.

Nonostante le sanzioni successive al 2014 (in risposta all’annessione della Crimea da parte della Russia), la dipendenza di Italia e Germania dal gas russo è addirittura cresciuta. Eppure, ciò non ha fermato Putin.

Durante la Guerra fredda, la forza che rendeva possibile le interdipendenze economiche era costituita dalla deterrenza reciproca dei due blocchi militari contrapposti.

Nel dopo-Guerra fredda, tale forza è stata rappresentata dall’egemonia Usa. Venuto meno quel ruolo, come ha dimostrato la fuga da Kabul nell’agosto 2021, si è caduti nel cosiddetto “mondo di nessuno”.

A quel punto si sono aperti spazi all’azione unilaterale di tiranni con le armi nucleari (come Putin).

La prima civiltà planetaria

La crisi che si è aperta non deve, tuttavia, indurci a compiere un errore di valutazione: non siamo alla vigilia di un declino o addirittura di una catastrofe della modernità.

Come sostiene lo storico Aldo Schiavone, il vecchio ordine mondiale, nonostante i suoi difetti, ha permesso l’avvento di una prima civiltà planetaria.

Il suo allargamento e la sua consolidazione possono avere battute d’arresto, ma è impossibile pensare ad una regressione totale, che ci faccia tornare indietro.

Bisogna essere consapevoli che questa prima civiltà planetaria in cui viviamo non ha affatto esaurito il suo corso.

Si potrebbe dire che siamo ancora agli albori.

Siamo nel pieno di un passaggio d’epoca.

Si tratta di una civiltà che è un esito fecondo della tecnica dell’Occidente e della sua diffusione.

Una tecnica complessa e caotica che mobilita conoscenze e risorse.

E quanto più ne mobilita, tanto più essa tende a produrre intorno a sé assetti di dominio, a presentarsi cioè come un saper fare corazzato di potere.

Ma tale problema non attiene alla tecnica in quanto tale.

È, in realtà, un problema che riguarda la politica, la democrazia, l’etica, il diritto, la capacità di controllare e orientare la potenza – complessiva, anche tecnologica – raggiunta dall’umano, attraverso l’impiego di altri poteri che dovrebbero guidarla.

Inoltre, il capitale industriale e quello finanziario – come la tecnica sono anch’essi un esito fecondo dell’Occidente.

Questa prima civiltà planetaria in cui viviamo vede fuse in un unico sistema la tecnica e l’economia, con le loro continue innovazioni.

E la macchina sovranazionale e planetaria dell’ultima versione dell’intreccio fra tecnica e capitale è l’entità che ha vinto la Guerra fredda, ancor più dell’America come Stato e come impero.

Gli apparati di questa immane macchina economica, le sue istituzioni, i suoi centri di decisione disegnano una rete globale che è ancora Occidente e che già non lo è più completamente: perché è ormai Occidente-mondo.

La modernità che stiamo vivendo è una specie di proto-modernità cominciata nelle città italiane del Rinascimento e conclusa sulle rive del Pacifico con l’avvio della rivoluzione tecnologica del tardo novecento e con il culmine politico dell’”impero” americano che hanno gettato un ponte tra i due lembi dell’oceano.

All’Occidente-mondo, per funzionare in modo efficace e farci entrare finalmente nella modernità, mancano però due elementi: la politica e la democrazia.

Queste continuano, infatti, ad operare nella esclusiva dimensione degli Stati e delle culture nazionali.

Ma la globalizzazione dell’Occidente potrà finalmente affermarsi ed esprimere compiutamente le sue potenzialità solo se la politica e la democrazia assumeranno una dimensione sovranazionale.

Come allargare l’Ue all’Ucraina e ad altri Paesi europei

L’Unione Europea è dall’atto della firma del Trattato di Roma sempre in bilico tra dimensione internazionale e quella sovranazionale.

E ancora oggi è questa la sfida che deve affrontare.

La Commissione di Bruxelles è favorevole a considerare l’Ucraina un paese candidato a entrare nell’Unione europea. L’opinione della Commissione verrà discussa nei prossimi giorni dal Consiglio europeo (dei capi di governo dei 27 stati membri dell’Ue), cui spetta la decisione per avviare il processo.

È indubbio che l’allargamento dell’Ue costituisce la condizione imprescindibile per stabilizzare il continente europeo.

Più Paesi europei entrano nell’Unione, più alte saranno le barriere alle mire espansionistiche della Russia di Putin.

La prospettiva dell’allargamento senza una riforma interna dell’Ue è sostenuta dagli alti funzionari degli stati nazionali (diplomatici, militari).

Per essi l’Ue è un’organizzazione internazionale, un Consiglio d’Europa più strutturato.

E così deve rimanere.

Per costoro, lo stato nazionale costituisce la base necessaria della cooperazione internazionale, cooperazione che non può che avere un carattere intergovernativo.

La logica intergovernativa è accentuata dalla necessità di accomodare gli Stati che di volta in volta entrano nella “famiglia europea”.

È indubbio che i vari allargamenti hanno portato a una maggiore stabilità del continente europeo.

Così come è indubbio che, una volta entrata nell’Ue, l’Ucraina potrà opporre all’aggressività russa la solidarietà immediata dell’intera Ue (l’art. 42.7 del Trattato sull’Ue afferma che “qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso”).

Ma è anche indubbio che i vari allargamenti hanno reso assai meno efficace l’azione politica dell’Ue.

Per i diplomatici e i militari tale esito è del tutto ininfluente.

Così non è per le imprese, le Università, la società civile molto più interessate alla prospettiva della “politica interna”.

Per tale prospettiva, i vari allargamenti hanno allontanato il processo di integrazione dalla sua missione originaria (creare “un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa”, Preambolo del Trattato sull’Ue), proprio perché hanno indebolito il carattere sovranazionale dell’Ue.

L’Ue non è nata per essere il complemento civile della Nato, ma per contenere gli Stati nazionali all’interno di un framework decisionale sovra-statale.

Senza le decisioni della Corte europea di giustizia o l’azione della Commissione e poi del Parlamento europeo, sarebbe stato impossibile costruire il mercato continentale più integrato al mondo.

L’Unione Europea dinanzi alla sfida della riforma del Trattato

Il 9 giugno scorso il Parlamento Europeo ha approvato con una larga maggioranza una risoluzione che invita il Consiglio all’avvio del processo di revisione del Trattato sull’Unione Europea.

È giunto, dunque, il tempo di completare l’integrazione europea, affrontando innanzitutto la questione democratica delle istituzioni europee, rimasta irrisolta.

Il Parlamento Europeo dovrebbe poter svolgere pienamente i propri compiti: esercitare la funzione legislativa e di bilancio in modo esclusivo; dare o revocare la fiducia al Governo dell’Unione.

Questo non significa annullare il ruolo degli Stati nazionali nell’architettura istituzionale dell’Unione.

Il Parlamento dovrebbe essere composto di due Camere: la “Camera dei popoli” e la “Camera degli Stati”.

L’Unione dovrebbe assume il principio dell’integrazione differenziata.

C’è un gruppo di Stati interessati a costruire una serie di politiche unionali.

Altre a giovarsi quasi esclusivamente del mercato unico. Si dovrebbe differenziare questa evoluzione dell’Unione, adattando le istituzioni europee a questa diversità di approccio.

L’Unione dovrebbe poi poter agire liberamente. Le due sovranità – quella unionale e quella delli Stati nazionali – andrebbero rese autonome.

Ciascuna di esse dovrebbe estrinsecarsi nelle specifiche competenze e attribuzioni.

L’Unione andrebbe dotata di un bilancio europeo: autonomo e non derivato; fondato su risorse proprie, attraverso una fiscalità diretta (uno dei fondamenti della cittadinanza europea).

Storicamente, nelle unioni di Stati, alla unione sono state assegnate le competenze relative alla sicurezza collettiva (dalla politica estera e militare a quella alimentare, dalla politica monetaria e fiscale a quella energetica), mentre gli Stati membri hanno trattenuto per sé tutto il resto.

L’Unione Europea non è stata coerente con questa impostazione ed è qui una delle ragioni di fondo della sua debolezza politica e della sua inefficacia.

Per questo dovrebbe procedere rapidamente ad un bilanciamento delle competenze.

Putin potrà essere sconfitto militarmente e politicamente solo se l’Unione Europea diventerà una potenza democratica, con una sua politica estera e di difesa e con una sua politica di sicurezza alimentare ed energetica.

Bisognerebbe ricalibrare le competenze in materia di “agricoltura”, per distinguere in modo razionale ed efficace le materie che dovrebbero rimanere nella competenza esclusiva dell’Unione e le materie che dovrebbero tornare nella competenza degli Stati membri.

Con il Trattato di Lisbona la materia “agricoltura” è attribuita all’Unione come competenza concorrente.

La politica agricola europea non è più una “politica comune”, com’è stata in passato.

Mentre la politica commerciale è un settore di competenza esclusiva dell’Unione.

Sarebbe opportuno che la materia “sicurezza alimentare” diventasse una materia di esclusiva competenza unionale, senza più interferenze da parte degli Stati membri.

E, nello stesso tempo, si restituisse a questa politica l’originario compito di assicurare il diritto ad avere cibo sufficiente e non solo quello di garantire la sicurezza igienico-sanitaria e informativa.

Come la guerra in Ucraina sta dimostrando, la crisi alimentare che è scoppiata negli ultimi anni ha un carattere planetario e dipende da un progressivo indebolimento delle politiche di sicurezza alimentare nei Paesi occidentali, a partire dall’Unione Europea (basta dare un’occhiata alla recente strategia Farm to Fork).

Non così dovrebbe essere per i “pagamenti diretti”: i quali già sono attribuiti di fatto alla competenza degli Stati membri e a quest’ultimi andrebbero assegnati anche formalmente. Solo così potrà essere eliminato il farraginoso ingorgo burocratico in cui si dimena la Pac.

L’Ue potrà essere protagonista nello scacchiere mondiale e potrà contribuire a delineare un nuovo ordine globale se supererà la prova della sua riforma istituzionale.

Potrà così acquisire l’autorevolezza politica necessaria per indicare al mondo anche il percorso più efficace al fine di giungere a una nuova combinazione democratica tra istituzioni nazionali e quelle sovranazionali.

Ci vorrebbe una nuova Bretton Woods, ma non c’è ancora il Paese o il gruppo di Paesi che guidi il processo. L’Ue si faccia avanti.

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