Economia

La distribuzione moderna del cibo. Gli albori

Cosa sappiamo di quel che oggi diamo per scontato andando al supermercato? Quasi nulla. Eppure l'attuale sistema distributivo degli alimenti, così come viene concepito, ha tutto un suo percorso che si è andato delineando progressivamente nel corso dei decenni, già a partire dall'Ottocento. Si va dai negozi alimentari, passando per i mercati comunali all'ingrosso fino ai grandi magazzini [1. continua]

Alfonso Pascale

La distribuzione moderna del cibo. Gli albori

Fino alla prima guerra mondiale a distribuire il cibo provvedevano direttamente i contadini. La società era ancora rurale. E dunque prevaleva la pratica dell’autoconsumo. Anche negli ambienti aristocratici esisteva, ma era un lusso che praticavano in pochi. Ad esempio, nella Francia del re Sole, a permetterlo erano le consuetudini. I nobili impoveriti che si davano ad attività prezzolate perdevano i loro titoli. Ma se spingevano l’aratro sulle loro terre, cingendosi il capo con il classico cappello a piume e il fianco con la spada, conservavano la qualifica: produrre cibo al di fuori del circuito monetario era considerata una deroga ammessa.

Nella cultura contadina, il “colmare la mensa di cibi non comprati” – come canta Virgilio nelle Georgiche – e l’accedere ai riti religiosi venivano vissuti come un marchio di nobiltà: unici lussi aristocratici di cui godevano anche i ceti popolari. “Povero figlio mio – conclude la nonna di Ignazio Silone quando egli si reca a salutarla prima di emigrare – mangerai pane comprato”.

Soprattutto per i prodotti freschi, ma anche per la gran parte dei trasformati, erano i contadini stessi ad attendere alla vendita. Provvedevano, coi propri mezzi, alla consegna nei centri urbani. Alle famiglie della media e alta borghesia veniva fatta la vendita diretta a domicilio. C’erano anche negozi alimentari, ma in numero sensibilmente inferiore a quello degli ambulanti. Quella modalità della distribuzione alimentare è continuata anche durante il fascismo. Nel frattempo, proseguiva incessantemente il lento processo di urbanizzazione.

Nella Torino degli anni Trenta, per esempio, si contavano circa duemila negozi alimentari e quattromila bancarelle. Le prime leggi che tentarono di disciplinare in qualche modo il commercio vennero emanate nel 1926 e nel 1927. Esse introdussero requisiti minimi per l’esercizio di tale attività. Innanzitutto, bisognava dimostrare l’idoneità sanitaria. Tuttavia, quelle normative non favorirono la crescita professionale degli operatori e non servirono a migliorare il sistema commerciale.

I mercati comunali all’ingrosso in Italia

In quel periodo, conobbero un certo sviluppo i mercati comunali all’ingrosso. Va ricordato, innanzitutto, il mercato di Corso Ventidue Marzo a Milano, nato nel 1911. Ne parla Carlo Emilio Gadda nel racconto intitolato “Mercato di frutta e verdura” e inserito nella raccolta Meraviglie d’Italia del 1939: “Il mercato è interamente recinto: occupa 74.000 metri quadri: metà di quest’area è coperta: gli edifici di magazzino e le tettoie di vendita dei grossisti fiancheggiano la via perimetrale, a ferro di cavallo, nella sua parte più curva.

Sorte nell’età del ferro, (1910-1911), tettoie e pensiline di ferro fanno un panorama di stazione ferroviaria medieuropea. Trasferendo altrove il suo mercato delle frutta e verdure, la civica amministrazione si troverà a poter disporre d’un tesoruccio impensato: cioè qualche centinaio di tonnellate del prezioso metallo. A una lira il chilo… Mancano, data l’età, impianti frigoriferi centralizzati, che insigniscono invece di lor presenza il macello nuovo. Singoli magazzini di grossisti ne sono tuttavia provveduti. Il fortore degli erbaggi in corso di transustanziazione non è un solletico molto piacevole dentro le canne del naso. […] Cedri ed arance e così le opulenze della cornucopia campana o dell’àpula e tutte le primizie maturate dalla terra e dal cielo di Sicilia a febbraio, col sole, qua, intirizzito in Acquario, nella stagione quando l’Alpe è un cristallo e il Po dilava magramente per mezzo a un crostone di neve, questi doni di una natura più azzurra e d’un vigore che non soffre la tùnica arrivano per treni e vagoni lungo i due litorali, trainati di piaggia in piaggia da locomotori caparbi, su, su, di maremma in maremma, o in vista dell’agro geometrizzato dalla bonifica”.

Anche a Roma nacquero i mercati generali delle derrate alimentari all’Ostiense. Previsti dal piano regolatore generale del 1910 elaborato da Edmondo Sanjust di Teulada, l’ingegnere del Genio civile di Milano, su incarico dell’Amministrazione Nathan, i nuovi mercati si inserivano in un organico sistema territoriale di infrastrutture e insediamenti produttivi sulle sponde del Tevere. Furono progettati da Emilio Saffi che elaborò anche il piano per i mercati di rivendita: sette mercati rionali semicoperti e 14 mercati scoperti, perimetrati e attrezzati con pavimentazione in cemento, fogne, impianti di acqua potabile, idranti, fontanelle e illuminazione. Era stato il sindaco Ernesto Nathan nel discorso d’insediamento in Campidoglio della nuova Giunta, il 2 dicembre 1907, a delineare le linee di una moderna rete di distribuzione commerciale per affrontare in modo innovativo i problemi emergenti dell’approvvigionamento annonario della città: “L’attenzione nostra deve concentrarsi intorno alle derrate ed ai commestibili artificiosamente rincarati dai trusts grandi e piccini, da mercanti che, assorti nel loro guadagno, sono insensibili ai bisogni altri, quand’anche implichino dolore, freddo, fame, malattia o morte. Se, rimpetto al gravissimo problema, chiedete quale sarà il nostro contegno, la risposta è semplice: guerra al bagarinaggio in tutte le forme ovunque si presenti, comunque si larvi. Abbiamo scarsa fede nella virtù operativa e permanente del calmiere, così facile da eludere; l’abbiamo grande invece nella moltiplicazione dei mercati, per porre le derrate in immediato contatto coi consumatori”.

“Au bon marché” e “Les Halles”

Nelle grandi città s’iniziavano a vedere i primi effetti del progresso tecnico. Insomma, prendeva corpo la funzione distributiva in senso moderno: un insieme di attività volte a ridurre le disparità fra i luoghi e i tempi della produzione e quelli del consumo. Un fenomeno che era nato alla metà dell’Ottocento in Francia, dove alcuni economisti avevano pensato di restringere la forbice tra sovrapproduzione e sottoconsumo, nel senso di aumentare i consumi. A tale esigenza obbedivano sia la nascita dei mercati all’ingrosso e dei grandi magazzini, sia la vertiginosa crescita della pubblicità per incrementare e orientare i consumi.

Tra il 1852 e il 1870 era nato nel centro geografico della “rive droite” di Parigi “Les Halles”, il mercato all’ingrosso per gli scambi agroalimentari della città. Lo aveva descritto Emile Zola nelle prime pagine del romanzo “Le ventre de Paris” del 1873: “Lungo il viale deserto, nel profondo silenzio della notte, i carri degli ortolani, diretti verso Parigi percuotevano con l’eco dei loro monotoni scossoni, a destra e a sinistra, le facciate delle case immerse nel sonno dietro i filari confusi degli olmi. Un carro di cavoli e un altro di piselli si erano riuniti sul ponte di Neuilly ad otto carri di rape e di carote calati da Nanterre; e i cavalli procedevano a testa bassa, con andatura pigra e uguale rallentata dalla fatica della salita. Su in alto, sdraiati bocconi, sul carico dei legumi, sonnecchiavano i carrettieri coi loro mantelli a righe nere e grigie, le redini arrotolate ai polsi. Nell’ombra una fiamma improvvisa di gas rischiarava a tratti ora i chiodi di una scarpa, ora la manica azzurra di una blusa, o il cocuzzolo di un berretto in mezzo alla fioritura enorme dei mazzi rossi di carote e bianchi delle rape, tra la verdura traboccante dei piselli e dei cavoli. E sulla strada, e da quelle vicine, avanti indietro da ogni parte, il cigolio lontano di altri carri annunciava che altri convogli stavano arrivando tutti insieme, alle due del mattino, nelle tenebre della città, cullata nel sonno profondo di quell’ora dal rumore di tutte quelle provvigioni che la attraversano”.

Sempre a Parigi, all’incrocio tra la Rue de Sèvre e il boulevard Raspail, era stato aperto nel 1852 da Aristide Boucicault l’”Au bon marché”, il primo grande magazzino al mondo, ampliato nel 1872 da Gustave Eiffel, dotato di una sala di lettura per i mariti che aspettano le signore durante i loro acquisti e di un angolo dei giochi per i bambini. Diverse furono le novità introdotte. Nei mercati all’ingrosso e nei grandi magazzini si stabilirono prezzi fissi. Cosa non ovvia: anche in Europa si procedeva allora a mercanteggiare come ancora oggi nei suk arabi. L’acquisto di enormi stock di merci portò, inoltre, all’abbassamento del prezzo unitario dei prodotti. Insomma, si materializzava quella che Zola, nel romanzo “Au bonheur des dames” del 1884, chiama la “democratizzazione del lusso”. Un fenomeno che per esplodere ha avuto bisogno di tecniche persuasive strutturate per promuovere i prodotti: la pubblicità.Il marketing Il termine “pubblicità” venne utilizzato per la prima volta in tale accezione nel “Dizionario politico nuovamente compilato ad uso della gioventù italiana” (Torino, 1849): “In America più ancora che in Inghilterra si fa grandissimo uso delle gazzette per diffondere ogni generazione di annunzj e di avvisi commerciali. La quale immensa pubblicità non è ancora fra noi che al suo nascere”. Con la pubblicità nacquero gli esperti di marketing. Come spiega Vincent Packard nel suo libro, pubblicato a metà Novecento, dal titolo “I persuasori occulti”, gli esperti di marketing raggiungono i loro obiettivi agendo sull’inconscio degli individui. Lo fanno generando la domanda di generi di qualsiasi tipo: da quelli di prima necessità a quelli voluttuari. Per indurre a comprare, sollecitando bisogni veri o fittizi, devono conoscere le varie “nicchie” dei potenziali consumatori in una compagine variegata, benché tendenzialmente massificata, dal punto di vista culturale e politico. Lavorano sott’acqua, operando in modo subdolo, nascosto, non immediatamente rilevabile. In un contesto di ascesa complessiva dei redditi e di produzione massificata degli status symbol, la pubblicità che si rivolge a una grande massa indifferenziata di consumatori in tempi rapidissimi esalta (e insieme immediatamente modifica) il ruolo di questi status symbol. Dove è giunto e ha prevalso, il consumismo ha provocato una vera e propria rivoluzione antropologica, modificando radicalmente la struttura dei desideri e della vita delle persone. In tutte le culture umane il desiderio è stato, infatti, frenato o inibito dalla scarsità delle risorse disponibili. La tecnica messa in atto per combattere il desiderio insaziabile di avere sempre più, consisteva nell’abbassare la soglia delle pretese degli individui. Con la nascita dei mercati all’ingrosso e dei grandi magazzini e lo sviluppo dei consumi, l’antico modello di sobrietà non ha funzionato più. Già con l’avvento della modernità, la legittimità di soddisfare i desideri aveva avuto esplicito riconoscimento. Il declino virtuale delle tradizionali gerarchie sociali che separavano l’aristocrazia dal resto della popolazione, con il parallelo sviluppo dell’idea di eguaglianza politica ed economica, avevano inoltre fatto balenare a tutti una vita piena di appagamenti. Ancora oggi il consumismo caratterizza la società, suscitando in molti desideri superiori alle possibilità di essere soddisfatti e alimentando l’individualismo della scontentezza e del rancore. Ma senza il consumismo la società industriale non si sarebbe affermata.

[Prossima puntata: Distribuzione moderna del cibo. Il secondo dopoguerra]

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