Saperi

L’agricoltura, non l’arcadia

“Ti deve piacere la terra, lavorarla e vedere crescere ciò che semini perché altrimenti è meglio cambiare lavoro”. Il narratore Guido Conti racconta di sè. “I vecchi poco alla volta sono morti. E’ mancata una generazione che passasse le conoscenze. Il mio padrone – prosegue – lavorava tutto il giorno. Delle notti si addormentava sul trattore acceso, crollava, poi ripartiva, perché la volontà era più forte e potente della stanchezza”

Guido Conti

L’agricoltura, non l’arcadia

Che il lavoro della terra non fosse l’Arcadia l’ho scoperto molto giovane. A quattordici anni ho cominciato a lavorare in campagna. Allora si poteva cominciare a lavorare anche a quattordici anni compiuti con tanto di libretto di lavoro. Si raccoglievano i pomodori a mano. Io svuotavo i cesti e aiutavo chi restava indietro o era più lento nel lavoro o aveva delle file dove i pomodori maturi erano pochi. Un lavoro che oggi fanno gli extracomunitari, un lavoro faticoso, che aveva degli aspetti anche molto divertenti come per esempio lavorare con quindici, venti donne e io ero l’unico ragazzo che ogni volta veniva preso in mezzo da quelle contadine talvolta terribili. Non farò alcun accenno alle storie e ai racconti che facevano per mettermi in imbarazzo e le domande che mi facevano per ridere e far passare il tempo. Il lavoro era bello, sotto il sole ci si abbronzava senza andare al mare, ma era davvero faticoso. Oggi non saprei più farlo e quelle donne che lavoravano nei campi quando tornavano a casa, avevano da rigovernare da cucinare e da tenere in ordine una casa e una famiglia. Otto, dieci ore di un lavoro sempre chinati o avanti e indietro con i secchi pieni e vuoti e un lavoro che oggi non vuol fare più nessuno, solo i disperati.

Due anni dopo sono stato assunto in una famiglia dove lavoravo tutto il giorno e durante l’estate, per pagarmi gli studi, stavo mattina e sera a lavorare, a mangiare con loro. L’ho fatto per quasi dieci anni, dai venti fino ai trent’anni, fino ai primi anni novanta, quando anche la raccolta dei pomodori si è evoluta con le macchine. Racconto questo perché in quei quattordici anni in campagna ho capito che cos’era lavorare la terra, grandi fatiche, lavoro continuo e poco guadagno. Un minimo. Ti deve piacere la terra, lavorarla e vedere crescere ciò che semini perché altrimenti è meglio cambiare lavoro. Io in famiglia facevo tutto, raccoglievo pomodori, patate, uva; pulivo la stalla e avevo anche imparato a potare e ad arare. Facevo tutto. Il pomeriggio, dopo mangiato, ci si riposava per un’ora e mezza sotto il portico, nel silenzio delle mosche che ronzavano continuamente, o sotto una pianta, al fresco dell’ombra.

E’ stata una scuola di vita che rifarei ancora. Lì, lungo le rive del torrente Parma, ho ascoltato storie, ho visto personaggi incredibili, e fatto esperienze che poi ho raccontato e ho riscritto in molti dei miei racconti.
Era un mondo contadino, quello che ho visto io, al tramonto. Finiva un’epoca. I campi si spopolavano perché le macchine facevano tutto, bene e con più velocità. Sono spariti i giovani che lavoravano in campagna, anche nella raccolta dell’uva e sono arrivati gli extracomunitari. I vecchi che t’insegnavano il lavoro, a potare e a coltivare l’orto e la terra, poco alla volta sono morti. E’ mancata una generazione che passasse le conoscenze a quella più giovane. C’è stata una frattura dopo la mia esperienza. Gli italiani non vogliono più fare quei lavori che erano dentro la nostra cultura millenaria.
A lavorare nella stalla e nel formaggio oggi ci sono gli indiani e nella terra ci sono marocchini e giovani di altre etnie che fanno questi umili lavori che, in verità, oggi rendono e anche bene in quanto non padroni ma assunti con tanto di paga. Insomma è cambiato il mondo in vent’anni. C’è stata una vera e propria rivoluzione.

Il mio padrone lavorava tutto il giorno, dopo mangiato si coricava dieci minuti, si alzava stravolto (e sottolineo dieci minuti) e poi ripartiva. Delle notti si addormentava sul trattore acceso, chino sul volante, perché crollava, poi, dopo un po’, ripartiva perché la sua volontà era più forte e più potente della stanchezza.
Una volta mi ricordo che lavoravamo dentro la golena del torrente. Era piovuto molto e i pomodori rossi galleggiavano in un’ansa del fiume dove non c’era corrente. Allora siamo scesi con le casse e cercavamo di raccogliere il più possibile. Con l’acqua alla pancia abbiamo raccolto i pomodori con il mio padrone in testa prima che il torrente si portasse via tutto.

Un’altra volta era piovuto talmente tanto che nella terra smossa vicino alle viti una delle signore che raccoglieva l’uva è sprofondata fino alla cintola nel fango. Era una vera matrona della bassa, corpulenta. Era talmente profondata nel fango che non riusciva più a muoversi. Allora il mio padrone ha preso una corda, l’ha legata sotto la pancia della signora e con il trattore l’abbiamo tirata su da quella specie di sabbia mobile da cui non riusciva più a venir via. Fu un pomeriggio memorabile di cui si continuò a raccontare per anni.

La vita vicino all’argine del torrente Parma, nella prima periferia della città, era difficile. Ho imparato per esempio che le mucche sono molto curiose e quando lavori vicino a loro, ti vengono a vedere e ti fanno compagnia. Ti leccano appena le avvicini con la loro lingua che gratta. Quando le mucche si piantano e non vogliono più andare avanti, mi hanno insegnato che basta tirargli la coda con forza e loro ripartono. Accadeva anche che durante le piene dovevamo portare fuori trenta mucche da una stalla in golena. Non volevano saperne di andar via. Così bastava che gli tirassi la cosa e con una corda al collo le guidavi dove volevi.

Ho lavorato vicino a decine di alveari e non sono mai stato attaccato anche se circondato da mille api. Loro sapevano che io non ero un pericolo per i loro favi. Mi studiavano ma sapevano che non ero una minaccia. Ho scoperto così che gli animali hanno una loro sensibilità, che a mezzogiorno c’è sempre una brezza in campagna che tira sempre in mezzo ai campi anche quando non c’è un filo di vento. “E’ la Madonna che mette la tovaglia!” dicevano le donne nei campi. E’ ora di andare a far da mangiare. E poi i riti con l’ulivo per far piovere ed evitare che grandini, le croci sulle viti contro le malattie, i riti tra scaramanzia e fede prima e dopo i lavori pericolosi. In campagna insomma ho scoperto una conoscenza tra fede e magia che poi avrei ritrovato nei libri di antropologia di De Martino, per esempio. E anche quel mondo ormai è scomparso. Ho fatto appena in tempo a vederlo ma pare non sia stato più trasmesso dopo centinaia di anni. E’ la fine di un mondo, è la rivoluzione finita di quel cambiamento antropologico degli italiani che avevano denunciato nel primo dopoguerra prima Guareschi e poi Pasolini.

Ho visto anche il mio padrone piangere. Un’estate, verso fine agosto, c’erano pronti intere biolche di pomodori da raccogliere e l’uva matura. Aveva fatto un anno come non si ricordava a memoria d’uomo per la ricchezza e la bellezza dei frutti. Un pomeriggio, un maledetto pomeriggio, verso le due, il cielo è diventato nero come catrame e ha cominciato a piovere e a grandinare. Cadevano chicchi grandi come mele e avevano spaccato tegole, vetri e macchine, pelando completamente i campi e le viti. In poco meno di due ore la grandine e il temporale si è portato via tutto, con una furia che non avevo mai vista. E allora non c’erano le assicurazioni. Il mio padrone allora è andato in camera e non è sceso dal letto per tre giorni. Quel giorno piangeva come non l’avevo mai visto piangere. Si vergognava di piangere. Non l’ho visto piangere nemmeno dopo la morte di suo padre. Non ha mai maledetto nessuno. Non ha mai bestemmiato, però quel pomeriggio ho capito la violenza della natura, la fragilità delle nostre ricchezze e soprattutto certe pagine bibliche e catastrofiche di Isaia, cosa che non mi è mai più capitato vivendo in città e facendo altri mestieri, ma solo in catastrofi naturali che vedi in televisione. Una parte di quell’esperienza è finita nei miei racconti de Il coccodrillo sull’altare e nei racconti de Un medico all’opera e nel mio primo romanzo Il tramonto sulla pianura, che mi hanno portato tanta fortuna..

Ho ritrovato quel clima in due romanzi che sono stati per me due modelli di scrittura, La malora di Beppe Fenoglio e Zebio Cotal di Guido Cavani. Due modelli di scrittura e di racconto che danno una chiave di lettura importante sul ruolo della realtà contadina nel Novecento. Lo dico perché la campagna, la vita dei campi, il mondo del lavoro contadino non esiste più nella nostra letteratura. Se i giovani parlano di lavoro lo fanno dal punto di vista dell’industria e della sua crisi, com’è capitato con gli ultimi tre premi Strega. I contadini, come sono spariti nella nostra realtà, così sono spariti nel nostro immaginario e nella nostra letteratura, oppure vengono recuperati se non come memoria della mamma o della nonna. Oppure il mondo contadino recupera certi tratti ancestrali come in Salvatore Niffoi. Ma sostanzialmente non esiste più un taglio del bosco di Cassola. O almeno nella pletora delle uscite e delle novità non mi sembra di averne visti, ma posso sempre sbagliarmi.

Il tema è complesso e andrebbe approfondito autore per autore. In scrittori come Rigoni Stern, dove la Natura è oltraggiata dall’uomo, o il poeta Bacchini, dove la Natura diventa un paesaggio ultraumano dove sono spariti gli uomini, nella sua ultima raccolta Canti territoriali, (Mondadori, 2010), la natura ricopre ancora un ruolo importante ma entrambi segnano quel confine come rotto.
Le grandi case coloniche abbandonate e che stanno crollando, di cui è piena tutta la pianura padana, è il simbolo e la rovina di un mondo finito che ritrovava in quella casa un modello non solo di vita ma di organizzazione della vita e del lavoro sostituite dalle villette a schiera e dai prefabbricati in cemento.

La devastazione e il problema dell’ecologia non è molto distante da questa separazione uomo natura. L’uomo non è più un vero e proprio contadino. Usa le macchine per coltivare la terra. Non ha più un rapporto diretto ma indiretto. Così la terra è qualcosa da sfruttare fino in fondo, non parte integrante della vita dell’uomo. Dunque dov’è finita l’Arcadia?

Agricoltura e non arcadia, si diceva. L’agricoltura è cambiata moltissimo, si è industrializzata e per molti aspetti disumanizzata. Il mito dell’Arcadia e della fuga nei campi come luogo edenico in un rapporto armonioso tra uomo e natura è durato fino alla Rivoluzione Francese. La ghigliottina ha ucciso anche le ultime arcadie settecentesche dove pastorelli, ninfe e satiri cantori sono i protagonisti di un’ultima stagione stanca ma non certo meno vera di un mito che ha attraversato tutta la letteratura dell’Occidente a partire da Virgilio. Forse la letteratura ha perduto questo elemento ma credo che si sia spostato e ritorni a vivere oggi in una metamorfosi molto più ammaliante e avvolgente in altri settori dove l’immaginario nella modernità conta ancora moltissimo.

L’Arcadia non è più nella letteratura ma nei giornali di progettazione, di arredamento. Oggi la campagna è un modello dell’immaginario abitativo dei giornali di moda e di architettura. Case arredate e perfettamente inserite in un giardino e in una natura che fanno sognare chi vive in appartamenti piccoli dentro condomini asfittici a contatto e in armonia con la natura. Ma non sono case di contadini, sono case di ricchi che si trasferiscono o traslocano in campagna. Gli ultimi respiri della vita contadina dentro la letteratura contemporanea è finita proprio mentre nascevano, con successo, i primi agriturismi che hanno avuto un vero e proprio boom, agli inizi degli anni Novanta. L’agriturismo ti porta nella natura dove puoi vivere a contatto con gli animali della fattoria, con i prodotti della terra, con la buona cucina, ma vissuta da turista. Si ritorna nell’agriturismo dove funziona lo stesso immaginario dei giornali di moda e di arredamento. Luoghi in armonia con la natura ma dove non vivi come contadino. Luoghi di pace, di serenità, di vacanza, lontano dai problemi del quotidiano. Un luogo, l’agriturismo, come le delizie estensi nate come realizzazione concreta del mito dell’Arcadia. Tutto si muove per essere sempre uguale. E’ una arcadia turistica e immaginaria dove la natura non sporca e dove la terra non appiccica alle suole delle scarpe. E soprattutto non si fatica e ci si riposa.

Il testo qui pubblicato è stato pubblicato nell’annuario 2013, in edizione cartacea, Olio Officina Almanacco

L’immagine di apertura è una foto di Luigi Caricato che riprende il quadro “Christina’s World”, 1948, tempera on panel, di Andrew Wyeth, esposto al Moma

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