Codice Oleario

C’è posto per tutti

L’errore è stato compiuto all’inizio, quando si è voluto introdurre il treno di nomi: olio extra vergine di oliva. In realtà, bastava chiamarlo semplicemente “olio d’oliva”, come viene chiamato abitualmente. Per il resto la confusione è tanta. Certe diciture (legali, purtroppo) sembrano mirate a confondere, trovando facile presa nei consumatori distratti

Ettore Franca

C’è posto per tutti

Relativamente agli oli da olive, ritengo che al mondo ci sia posto per tutti e ciascuno può fare quel che crede. Quello che non dovrebbe esserci, sono certe diciture, legali purtroppo, che sembrano mirate a confondere e che trovano facile presa nei consumatori distratti, la cui unica fonte di informazione è la pubblicità.

La mia è un’antica battaglia donchisciottesca che, nonostante sappia destinata a perdere, mi trova con altri, pochi, nel clangore di chi ha ben altri interessi. Atavicamente consolidato nell’immaginario dei più, l’olio quello “buono” e “genuino”, è quello che richiama le macine quando girano in un locale pervaso dal profumo delle olive schiacciate. E’ quello che, nel lessico famigliare, si chiama “l’olio” tout court o, al massimo, “l’olio d’oliva”. Perché è stata codificata la corrente definizione con quel treno di nomi e aggettivi laudativi (olio, extra, vergine, di oliva – di cosa, sennò ?).

Non bastava chiamarlo semplicemente “olio d’oliva” come viene chiamato quando si chiede?
Perchè un olio lampante – non commestibile – dopo un trattamento di rettificazione anziché “rettificato”, come sarebbe logico, e che ancora non è commestibile, perché viene definito “raffinato”? I due aggettivi hanno valore ben diverso nelle informazioni trasmesse ai consumatori.

La dicitura “olio raffinato” sarà poi ostentata sull’etichetta nella “spiegazione” che, bontà sua, informa l’“olio di oliva” è la miscela fra un “vergine” e un “rettificato” – scusate, “raffinato” – senza dire che, talvolta, è un pasticcio di quaglia ed elefante.
Altrettanto vale per l’“olio di sansa e oliva” le cui etichette si premurano di far sapere che quella miscela si ottiene, senza obbligo di rapporto fra i due, fra l’olio delle sanse, anche questo “raffinato” e un vergine, extra (?) o no. E’ questo il modo di passare informazioni?

Discorso a parte è quanto riguarda l’introvabile “olio vergine di oliva” che, essendo di categoria inferiore all’extra, ovviamente vale meno ma, miscelato con saggezza ad un extra di bassa acidità (oggi facilmente rintracciabile grazie agli sforzi di olivicoltori e frantoiani per ottenerlo) ecco che si nobilita nel prezzo diventando “extra” pure lui, oppure, se non finisce nelle bottiglie etichettate “extravergine di oliva”, eccolo pronto per le miscele con i “raffinati” di oliva o di sansa.

In questo quazzabuglio di denominazioni l’olio, variamente ottenuto dalle olive o manipolato, si presenta con ben otto definizioni diverse delle quali quattro sono a pro- consumatori costretti a scegliere spesso con l’unico riferimento: il prezzo, possibilmente basso.
Sarebbe più semplice chiamare “olio d’oliva” quello che la legge definisce “extra vergine di oliva”.

Se si togliesse dal mercato degli oli “commestibili” quel fantasma chiamato “olio vergine” ci sarebbe meno confusione. E se l’attuale “olio di oliva” e il “di sansa e di oliva” avessero diciture chiare: “miscela di olio rettificato e di olio d’oliva” o “miscela fra olio estratto e rettificato dalle sanse, con olio d’oliva” chi si accinge ad acquistarli – padronissimi – saprebbero cosa comprano.

Consentitemi una chiosa. Non bastasse la confusione esistente, s’è alzato un polverone sulla origine degli oli. Ecco i “100% italiano”, i “made in Italy”, i “kilometro zero”, le proposte di denominazioni comunali (!), i marchi di qualità, i “super-extra”, … e altre ridicole amenità.
Uno che sia uno a spiegare che una Dop parla di un olio estratto dalle olive di piante che vivono in un territorio ben evidenziato, lì sono i frantoi che hanno operato, lì è stato imbottigliato, … tutto con precisione indicato in un disciplinare sull’applicazione del quale vigila un Consorzio di produttori.
Più “italiano” di così. E’ tanto difficile?

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