Come una volta mai
Il sistema di coltivazione super intensivo non è nemico della natura, basta semplicemente usarlo con i giusti criteri. Non possiamo permetterci di essere l’unica grande nazione produttrice di olio a vedere la propria produzione in continuo calo. E non vale appellarsi a esperienze del passato, quando le acque di vegetazione erano scaricate nei fiumi che ribollivano di trote. Dobbiamo accettare il fatto che si stia lavorando in un’industria alimentare che produce la più alta quantità di sottoprodotti/scarti/rifiuti
Dopo l’anno orribile per la produzione olearia del mondo e, in modo particolare, dell’Italia, l’olivagione 2015 è iniziata con una forte voglia di riscatto. Le valutazioni che ho sentito più spesso sono “quantità media” (che nel mondo contadino è traducibile in “più che buona”) e “qualità eccezionale”, giudizio che nasconde approssimazioni, ma in senso inverso.
È proprio questa positività e questa energia che ho avvertito negli olivicoltori più impegnati, nella speranza che facciano da enzima e da collante, affinché questo settore trovi in Italia energie nuove per cambiare e far riprendere all’Italia il ruolo di paese leader che gli compete. Se ormai è impossibile pareggiare sul fronte della quantità la Spagna, la quale si colloca in una posizione irraggiungibile e, oserei dire, nemmeno troppo interessante; è invece sulla qualità, sulla ricerca, sulla sperimentazione di prodotti nuovi e – perché no ? – anche su usi diversi del nobilissimo prodotto oliva che si devono investire le forze.
Perché tutto ciò possa anche solo iniziare, occorre che la spinta verso il cambiamento prenda il sopravvento sui legami con il passato. È necessario che la curiosità per il nuovo faccia sembrare vecchie e pesanti le abitudini che ci tramandiamo da generazioni. Forse è ora di guardare con obiettività al passato e non giudicarlo positivo solo perché corrisponde a un nostro rincuorante stato mentale.
Mi piacerebbe vedere una filiera priva di pregiudizi e ideologie, a partire dalla campagna dove la biodiversità italiana, con centinaia di cultivar riconosciute, può essere terreno di coltura per ogni ricercatore, con il chiaro obiettivo di scegliere la varietà giusta per la zona e rendere realizzabile il prodotto olio che abbiamo in mente. Non ha senso insistere solo su piante come le cultivar Frantoio, Leccino e Moraiolo, della grandissima tradizione toscana, che tuttavia, ricordiamolo, non ha mai prodotto più del 6 per cento dell’olio italiano, e meno dell’1 per cento della produzione mondiale.
Il sistema di coltivazione super intensivo non è nemico della natura, basta semplicemente usarlo con i giusti criteri economici e pedoclimatici. È chiaro che non rappresenterà mai “l’opportunità” nelle colline del Chianti, ma potrebbe essere forse una delle migliori risorse per alcune aree del Sud. Sarebbe bello che non importassimo però il lavoro di selezione fatto per altre nazioni: possiamo e dobbiamo sviluppare un nostro profilo. Non possiamo permetterci di essere l’unica grande nazione produttrice di olio a vedere la propria produzione in continuo calo.
Nel frantoio, dovrebbe ormai essere associata alla storia della elaiotecnica qualsiasi immagine che riproduca una macina in pietra, una pressa o un decantatore statico. Come possiamo cercare la maturazione ottimale al fine di ottenere il miglior profumo dell’olio, se poi lo distruggiamo in un bacino ossidativo e contaminato come una molazza?
Un posto analogo nell’evoluzione industriale ormai la meritano le gramole. È anacronistico parlare di fase di gramolazione, intendendo un mix indistinto e incontrollato di fasi reologiche che vanno gestite separatamente. La pasta di olive va spesso riscaldata, ma sempre più frequentemente, a causa della raccolta anticipata e non per il riscaldamento globale, va anche raffreddata, e il tutto deve avvenire in pochi secondi, se vogliamo ottenere il massimo degli aromi dalle nostre olive. Una gramola tradizionale con camicia termica non potrà mai farlo. La sosta in gramola deve avvenire per il tempo minimo necessario, da far variare a seconda della varietà e maturazione dei frutti e, assolutamente, con un limitato scambio di ossigeno.
Spero che l’anacronistica definizione di gramola come “male necessario” sparisca presto insieme al suo uso scorretto, che nella migliore delle ipotesi prevedeva un tempo di 45 minuti e l’acqua di riscaldamento a 38 °C.
Anche la centrifugazione, per quanto ormai matura, merita attenzioni critiche legate all’uso che intendiamo fare dei sottoprodotti, avendo bene in mente che lo scarico combinato o separato di acqua e sansa non costituisce di per sé un vantaggio ecologico. Non vale appellarsi a esperienze del passato, quando le acque di vegetazione erano scaricate nei fiumi che ribollivano di trote. Si dimentica il fatto che la quantità di olive che un frantoio di un tempo processava in un anno è ora materia di pochi giorni. Dobbiamo accettare il fatto che si stia lavorando in una industria alimentare che produce la più alta quantità di sottoprodotti/scarti/rifiuti (la terminologia più appropriata la lascio scegliere agli esperti burocrati in funzione della norma più conveniente da applicare). Tra acqua e sanse per ogni 100 kg di olive, a fronte dei 14-16 kg di olio ricavati si producono ben 95-150 kg di sostanze da trattare. I sistemi per un uso rispettoso dell’ambiente esistono e i costi sono compatibili con lo scarico legale attualmente in uso, mentre altri confronti non si pongono.
Infine, in nome di un trattamento gentile dell’olio, evitare la centrifugazione finale, conservando olio sporco, costituisce un crimine assoluto: basti pensare agli spagnoli, che per ridurre i costi di produzione avevano “rivoluzionato” il ciclo produttivo con i decantatori statici, trovandosi poi gran parte degli oli declassati.
Fra gli obiettivi che ritengo si debbano raggiungere, c’è il lavoro per rendere riconoscibile a tutti (anche al consumatore meno evoluto) un extra vergine di eccellenza, che forse è ancora troppo simile a uno medio, e per avere un olio di oliva globalmente diverso da uno di semi.
Trovo necessario, inoltre, smettere di competere tra oli extra vergini di oliva per bandiere, in favore di una competizione per qualità oggettive, riconosciute e riconoscibili. L’olio da olive rappresenta solo il 3 per cento dei grassi edibili: sarebbe molto più proficuo lottare tutti insieme per conseguire un incremento generale delle quote di mercato, attingendo al restante 97 per cento degli altri grassi consumati nel mondo.
Mi piacerebbe vedere pubblicità non più legate alla famiglia seduta a tavola (che esiste ancora!), ma che propongano abbinamenti con cibi e ambientazioni che attirino i giovani. Ho visto con interesse e ammirazione quanto proposto dall’associazione interprofessionale spagnola (che promuove l’intero comparto) con la realizzazione di una serie di spot con solo giovani che consumano pasti veloci in bei locali, sempre abbinati a un ottimo olio rigorosamente spagnolo.
In conclusione, spero che guardando alla nostra tradizione sapremo rendere onore proprio allo spirito di innovazione che hanno avuto in passato coloro che in questo settore hanno lavorato, donandoci una posizione di prestigio universalmente riconosciuta. Troviamo il coraggio di fare nostro quello spirito, cosa che fino ad ora abbiamo fatto fin troppo poco. Vi invito a visitare il museo di Leonardo a Vinci: vedrete un frantoio del 1400. Non è molto diverso da quello che è stato usato sino a pochi anni fa.
La foto di apertura è di Luigi Caricato. Questo contenuto è possibile leggerlo anche sull’annuario, in edizione cartacea, “Olio Officina Almanacco” 2016
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