Codice Oleario

L’olivicoltura moderna fa paura?

Il rischio più grave di tutta la vicenda olivicola nazionale è l’immobilismo, la mancanza di spirito innovativo che inesorabilmente porterà l’olivicoltura italiana ad una crisi profonda, contribuirà ad appesantire ulteriormente la bilancia dei pagamenti. E’ necessario riattivare progetti a lungo termine

Salvatore Camposeo

L’olivicoltura moderna fa paura?

I sistemi di coltivazione dell’olivo dominanti in Italia e nel mondo sono per l’80% ascrivibili a quelli di tipo tradizionale caratterizzati da una bassa densità d’impianto, inferiori a 200 alberi per ettaro, da sesti spesso irregolari, da alberi di notevole dimensione dei tronchi e delle chiome con frequente presenza di esemplari secolari e monumentali, spesso in consociazione con altre colture e in assenza di irrigazione, che nell’insieme determinano una accentuata alternanza di produzione, alta produttività per singolo albero, ma scarsa per unità di superficie. Inoltre la dislocazione in suoli prevalentemente collinari molto spesso impedisce l’impiego di una razionale meccanizzazione con il conseguente elevato costo di produzione.

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, parimenti a quanto avvenuto per le altre specie arboree da frutto per esigenze di competitività e innovazione, si è assistito alla espansione dei sistemi intensivi o specializzati e che oggi rappresentano circa il 20% della superficie totale investita a olivo. I sistemi olivicoli intensivi, a prescindere delle varie forme di allevamento adottate, comportano un miglior utilizzo dei fattori terra, luce ed acqua. Questi sono contraddistinti da una densità di impianto di 250 a 400 alberi per ettaro con un numero di varietà limitato e con sesti regolari, generalmente in rettangolo, assenza di consociazioni e dotati di impianti di irrigazione; gli alberi presentano una riduzione della dimensione delle chiome, una anticipata entrata in produzione e una ridotta alternanza di produzione. Tutto ciò permette sia un buon livello di meccanizzazione, soprattutto della raccolta delle olive dall’albero, sia una alta produttività di olio extra vergine di oliva per ettaro. Nel complesso, quindi, tale sistema presenta una maggiore sostenibilità dell’investimento per le nuove superfici olivetate e conseguentemente una remuneratività economica maggiore, accompagnata da una verosimile riduzione della longevità economica dell’oliveto, ridimensionando così la vecchia credenza popolare che porta a considerare l’olivo come “albero dei nipoti” destinato cioè alle generazioni future. I sistemi colturali intensivi hanno in qualche modo sopperito alla imperante richiesta di riduzione dei costi di gestione dell’oliveto. Tuttavia, essa non può spingersi oltre ragionevoli limiti con i sistemi intensivi, in quanto la potatura deve essere eseguita ancora manualmente e la raccolta meccanica si attua alla pianta singola. La diffusione di questi sistemi infatti non è stata quella auspicata, tanto che oggi nelle aree olivicole mondiali solo il 20% circa dei nuovi impianti sono realizzati con tali sistemi a fronte dell’80% realizzati con i nuovi sistemi superintensivi.

Gli attuali impianti superintensivi o ad alta densità garantiscono una produzione di olio extra vergine di oliva pari ai sistemi intensivi e prevedono il passaggio dal concetto di albero singolo a quello di parete produttiva continua. Essi sono caratterizzati da densità di impianto superiore a 1.200 alberi per ettaro; forma di allevamento ad asse centrale; riduzione accentuata delle dimensione delle chiome e una ridotta base elaiografica; precocissima entrata in produzione; riduzione della longevità economica dell’impianto. Tale sistema colturale è l’unico che consente e l’impiego di meccaniche potatrici e di macchine raccoglitrici in continuo, usate per la vite, garantendo una elevatissima produttività di lavoro e una loro destinazione multifunzionale nel settore agricolo.

E’ ben noto quanto l’olivicoltura italiana sia complessa in quanto assolve a più funzioni. La coltivazione tradizionale dell’olivo, con ridotte spinte antropiche e a bassi inputs agronomici, riesce ad assicurare stabilità all’ecosistema oliveto, il quale possiede, in queste situazioni, una elevata capacità omeostatica; è altrettanto noto, infatti, che, in secoli di coltivazione in tutto il bacino del Mediterraneo, la coltura dell’olivo rappresenta un ecosistema in equilibrio biocenotico. Molto interessante, quale futuro per la sostenibilità degli impianti olivicoli tradizionali non soggetti ad azioni di intensificazione, è quella introdotta dalla passata Pac (Politica agricola comune) con il principio della “condizionalità ambientale”. Il concetto della condizionalità tende a far emergere con forza il legame fra l’agricoltura e territorio quale fattore strategico per creare condizioni favorevoli di valorizzazione reciproca e come risorsa principale delle aree rurali. In tale contesto, l’applicazione delle tematiche ambientali rappresenta un obiettivo prioritario al fine di favorire i metodi di produzione agricola finalizzati al contenimento degli impatti ambientali e incoraggiare la conservazione degli habitat naturali e di biodiversità del paesaggio agrario. In tal senso svolge un’importante azione la Legge Regionale della Puglia, che ha fatto scuola in Italia, per la tutela e la valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali considerati nella loro dimensione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica, nonché di elementi peculiari e caratterizzanti del paesaggio regionale (L.R. n. 14/2007). Il futuro di queste superfici olivetate deve essere rivolto in tale ottica, in quanto già dagli anni ‘60 era forte la consapevolezza che tale sistema estensivo non poteva garantire redditività adeguata al coltivatore. Dal 1966 fino ad oggi, infatti, gli aiuti alla produzione hanno garantito la sostenibilità economica di tali coltivazioni, ma è certo che dal 2015 tali aiuti saranno drasticamente ridotti. Quindi dovrebbe essere utile tale periodo di transizione per la ricerca di nuove forme di valorizzazione e promozione del prodotto “olio” ottenuto dai sistemi tradizionali sensu latu, sfruttando il legame al territorio. Interessante appaiono essere le possibilità offerte dall’olivicoltura biologica, che sembra garantire, meglio delle Dop (Denominazioni di origine protetta) e Op (Organizzazione produttori), un ritorno economico diretto al produttore. Il destino per gli oliveti tradizionali secolari e monumentali rivolti alla produzione dell’olio lampante, invece, appare ancora più difficile senza una concertazione fra mondo produttivo e legislativo per la valorizzazione turistico-paesaggistico-ambientale; è necessario salvaguardare ambiente e territorio, ma al tempo stesso garantire reddito ai proprietari dei terreni sui quali dominano belli e maestosi esemplari di olivo facenti parte della memoria storica e della cultura.

Oggi, purtroppo, tutta l’olivicoltura italiana è considerata un museo, anche se, a differenza di questo, non tutte le aree olivicole sono in grado di assolvere alla funzione estetica a causa della presenza sul territorio di oliveti abbandonati, costituiti da vecchie piante, malate e di frequente sopraffatte da piante infestanti, non più in grado di fornire un reddito oltre né di svolgere alcuna funzione ambientale. Sono proprio questi gli oliveti, giacitura del suolo permettendo, che potrebbero essere spiantati e sostituiti con impianti moderni e più produttivi a vantaggio sia del reddito per gli agricoltori sia per l’ambiente stesso. E’ ben noto che le aree agricole non sono e non lo saranno mai aree in cui vige un equilibrio tra le componenti naturali, come erroneamente molti credono o meglio come viene loro fatto credere, per cui maggiore sarà la produzione che può essere ottenuta per unità di superficie investita per l’impiego di varietà efficienti e pratiche colturali adeguate che ne limitano le perdite di prodotto, causate da stress di natura biotica e abiotica, minore sarà la necessità di aree sottoposte a coltivazione e di conseguenza maggiori saranno le superfici “verdi” disponibili.

Da una ricognizione effettuata nella Regione Lazio si è evidenziato che le aree olivicole regionali potrebbero essere distinte in quattro distinte parti:

1) zone da proteggere per peculiarità storico-culturale o in presenza di olivicoltura monovarietale (7 mila ettari);

2) zone ad alta-buona produttività (impianti di recente costituzione, intensivi, sesti regolari, meccanizzabili, imprenditoria valida e aperta all’innovazione tecnologica (26 mila ettari);

3) zone a media-bassa produttività (aree interne suscettibili di miglioramento e di trasformazione, parzialmente meccanizzabili, prevalente conduzione part-time (32 mila ettari);

4) zone a olivicoltura in versante (circa 10 mila ettari). In sostanza una buona parte delle aree olivicole improduttive potrebbero essere riconvertite a oliveti produttivi, con la conversione in oliveti intensivi. Questo che è solo un esempio di una ricognizione fatta in una regione, potrebbe essere un invito alle altre regioni italiane a farlo se ancora non lo avessero fatta al fine di predisporre insieme un programma di ammodernamento della olivicoltura nazionale.

Gli oliveti tradizionali hanno il pregio di essere costituiti da una amplissima base elaiografica ed è pratica ordinaria fare ricorso a cultivar locali o comunque appartenenti alla piattaforma regionale per la costituzione di nuovi impianti. La estrema longevità biologica dell’olivo è la ragione principale del mancato rinnovamento varietale in olivicoltura, cui hanno dato un contributo notevole sia una porzione consistente del vivaismo, refrattario al nuovo, che le ‘gabbie’ normative del secondo dopoguerra tuttora pienamente vigenti. Aspetto consistente della questione è sicuramente rappresentato dalle produzioni tipiche (Dop e Igp) le quali, proprio a partire dalle note interazioni genotipo per ambiente, dovrebbero costituire senza dubbio lo strumento principe per la valorizzazione della olivicoltura tradizionale, ma che purtroppo stentano a decollare ancora dopo oltre vent’anni dalla loro istituzione. Si apre allora un altro discorso che meriterebbe un necessario approfondimento.

Le cultivar ‘autoctone’, se da un lato garantiscono buone caratteristiche di tipicità e spesso anche di produttività, entrando di diritto nei disciplinari Dop, tuttavia mal si adattano a una coltivazione di tipo intensivo, per cui prospettare soluzioni per una ristrutturazione dell’olivicoltura tradizionale è veramente difficile. Per questa tipologia di olivicoltura, la scelta varietale si deve basare necessariamente sulla attitudine che questa possiede alla raccolta con macchine scuotitrici, tanto da limitarne la scelta, dimostrato dal numero esiguo di cultivar oggi diffuse in impianti intensivi che non supera la decina. L’ideotipo per i sistemi intensivi ad alta meccanizzazione è caratterizzato da un portamento semieretto; da una vigoria medio-scarsa, da una precoce messa a frutto e da una produttività costante; da una pezzatura dei frutti superiore a 2 grammi con buona consistenza della polpa e una riduzione progressiva della resistenza al distacco, oltre da una buona attitudine all’autoradicazione, con sistemi tradizionali o moderni. La meccanizzazione della raccolta delle olive dall’albero, infatti, è limitata sia da fattori strutturali (vetustà degli impianti, irregolarità dei sesti, forme di allevamento poco rigide) che da fattori varietali (portamento pendulo o semi-pendulo, notevoli dimensioni degli alberi e in particolare del tronco legate alla elevata vigoria e ridotte dimensioni delle drupe). Non è logico pensare che dove non sia possibile tecnicamente e economicamente effettuare la raccolta dall’albero, manuale o agevolata, per la produzione di olio vergine ed extra vergine, si debba ricorrere ad una raccolta meccanica delle olive da terra, che ineluttabilmente determina la produzione di olio lampante, col rischio di ritrovarlo poi etichettato extra vergine, in seguito a sofisticazioni a spregio dell’alta qualità e della tipicità dell’olio da olive.

Le possibilità concrete di costituire nuovi impianti ad alta densità su quei terreni occupati da oliveti abbandonati e/o improduttivi, accanto a quelli tradizionali produttivi o a quelli che svolgono altre funzioni importanti, ce ne sono. Un inizio molto incoraggiante potrebbe essere costituito dall’impiego di qualche vecchia cultivar a scarsa vigoria o quelle pochissime nuove varietà italiane o di quelle straniere già collaudate, scartando tuttavia di certo quelle a bassa resa in olio. Inoltre se si vuole far uso delle cultivar nazionali che non si adattano alla intensificazione colturale, perché troppo vigorose, l’innesto può essere la soluzione più promettente, a condizione di individuare portinnesti che inducono la riduzione del vigore. Per alcune cultivar già ne sono stati individuati, per altre si tratta di intraprendere uno lavoro sistematico.

I timori manifestati da alcuni nei confronti dell’impiego di cultivar straniere relativamente ad un eventuale ‘danno’ che potrebbero arrecare alla tipicità e alla qualità deglioli extra vergini di oliva, e i dubbi se gli oli provenienti da oliveti italiani che usano cultivar stranieresiano da considerare come un prodotto made in Italy, non hanno alcun fondamento né di fatto né giuridico; tali oli lo sono de facto, considerando il forte contributo dei fattori ambientali, colturali ed estrattivi sulla qualità olio, e lo sono de iure, obbedendo alla legislazione comunitaria e nazionale sull’etichettatura, oltre ai disciplinari Dop che lasciano molto spazio ‘varietale’. L’obiettivo auspicato, almeno da parte di ricercatori, era e rimane quello di usare genotipi di nuova costituzione partendo dal vasto germoplasma italiano, non tanto per una sola questione di campanilismo, ma perché consci che il materiale vegetale selezionato in ambienti diversi da quello dove dovrà essere posto a dimora spesso risulta più suscettibile ai vari stress sia di natura biotica che abiotica. Purtroppo ciò è solo una illusione considerato anche quanto avvenuto per la nostra frutticoltura, che oramai è costituita prevalentemente da varietà straniere che, tuttavia pur non fornendo un prodotto soddisfacente, ancora riesce a tenere il confronto sui mercati internazionali, o per lo meno l’indebolimento non avviene in modo così tanto rapido. Ciò che seriamente dobbiamo temere le sofisticazioni degli oli, che ineluttabilmente hanno un effetto devastante sul buon nome dei nostri oli extra vergini di oliva e che sono favorite anche dalla scarsa disponibilità di buoni oli da olive. Inoltre le diversificate condizioni ambientali italiane già menzionate, assieme alla presenza di una amplissima base elaiografica usata nei blend, che comunque resterebbe in produzione perché deve assolvere alle altre funzioni importanti per il nostro territorio, sarebbero sufficienti a mantenere alta la qualità e la tipicità dei nostri oli.

Ciò che è veramente deleterio è l’immobilismo nel settore del miglioramento genetico in Italia non solo per l’olivo ma per tutte le specie frutticole. Mancano programmi a lungo termine, partendo proprio dal quel germoplasma presente nel nostro Paese, peraltro in gran parte raccolto e caratterizzato e che aspetta di essere meglio classificato e reso disponibile per essere usato in programmi di miglioramento genetico ma che non vede mai l’inizio.

La lunga fase giovanile dell’olivo è stata da sempre il principale deterrente per l’avvio di un miglioramento genetico razionale. Ora, però, che le biotecnologie, incluse alcune tecnologie molecolari, sono in grado di accelerare la selezione di genotipi migliorati con le tecniche tradizionali, non dovrebbero esserci più rinvii. Purtroppo quelle tecnologie inerenti al DNA ricombinante, ovvero la costituzione di piante transgeniche, e che l’Italia si era distinta nel raggiungimento di importanti risultati e che avrebbe permesso di recuperare il tempo perduto, sono state messe al bando per motivi prettamente ideologici e i risultati distrutti col fuoco. Infatti la tecnologia del DNA ricombinante è fondamentale nel miglioramento genetico e non solo per produrre direttamente piante transgeniche destinate alla coltivazione, ma anche per fornire quelle informazioni fondamentali sulla funzione dei geni che avrebbero contribuito a semplificare e accelerare il miglioramento genetico tradizionale. Sarebbe stato sufficiente permettere soltanto la produzione e la sperimentare in campo di piante madri transgeniche per la precocità di fiorire precocemente sia esse stesse sia i semenzali da esse derivati. La fioritura precocissima abbrevia i cicli riproduttivi, e per ognuno di questi si allevano e si selezionano i discendenti migliori per la eventuale coltivazione solo tra quelli che non contengono i geni esogeni (cioè sia il gene che accelera l’entrata in fioritura sia il gene usato come marcatore); i discendenti transgenici si riutilizzano solo per successivi incroci, per dare origine a loro volta ad altri nuovi genotipi non transgenici da selezionare per la coltivazione. In altre parole si usano le piante transgeniche solo per produrre in tempi rapidissimi i discendenti non transgenici.

Disporre di cultivar capaci di sfuggire a patogeni dannosi e adatte alle attuali esigenze del consumatore e soprattutto ai cambiamenti climatici, che già hanno iniziato a disturbare il normale ciclo produttivo, è fondamentale per l’economia di un Paese e che tra l’altro non dovrà essere più sottoposto ai gravosi oneri delle royalties.

E’ necessario riattivare progetti a lungo termine e finanziare adeguatamente quelle Istituzioni di ricerca pubbliche che un tempo erano deputate alla sperimentazione a lungo termine e che oggi, nonostante le riforme strutturali cui sono sottoposte per decenni, se non sono state definitivamente soppresse, sempre più raramente sono in grado di svolgere questa importante funzione.

Perplessità vengono manifestate sulla qualità degli oli ottenuti da oliveti al alta densità. Finora è stato dimostrato che l’elevata densità non peggiora la qualità degli oli, anzi, spesso la esalta. Il rischio più grave di tutta la vicenda olivicola nazionale è l’immobilismo, la mancanza di spirito innovativo che inesorabilmente porterà l’olivicoltura italiana ad una crisi profonda che contribuirà ad appesantire ulteriormente la bilancia dei pagamenti. Nel frattempo che i politici italiani, incluse le associazione di categoria, si pongono questi quesiti, senza prendere alcuna decisione, assistiamo allacrescita esponenziale delle superfici mondiali olivicole investite con sistemi superintensivi, nonché la costituzione di nuove varietà adatte a tali sistemi di allevamento attraverso numerosissimi incroci inter-varietali da parte di compagnie private e istituzioni pubbliche straniere. In Italia, quasi esclusivamente in Puglia, i pochissimi nuovi oliveti sono realizzati da una “piccola multinazionale” che impiega cultivar proprie brevettate.

Diverse sono le cause di questo immobilismo ma che possono essere rimosse con un poco di buona volontà. In primo luogo, la maggior parte delle aziende agricole italiane è gestita da imprenditori con un’età superiore ai quaranta anni, poco inclini all’innovazione: i sistemi intensivi e superintensivi prevedono, infatti, uno stravolgimento dalla figura classica dell’olivicoltore tradizionale a frutticoltore. Altro fattore che può limitare l’espansione di tali modelli innovativi è quello economico: realizzare un ettaro di oliveto ad alta densità secondo il modello catalano comporta un investimento di circa 6 mila euro, e al momento non vi sono contributi o agevolazioni per la loro realizzazione, sebbene la mentalità imprenditoriale sopperisce a questo importante aspetto. L’utilizzo di macchine raccoglitrici in un Paese quale l’Italia può essere ostacolata dalla dimensione media delle aziende agricole olivicole che è pari a 1,3 ettari. Difficile infatti appare l’acquisto da parte delle singole aziende di una vendemmiatrice aziendale dato il costo considerevole e la dimensione media di ogni azienda olivicola, ben al di sotto dagli 11 ettari proposto come punto di ritorno economico. Tuttavia, ottima alternativa potrebbe essere il ricorso al contoterzismo, così come ordinariamente avviene già da decenni per la raccolta dei sistemi intensivi con scuotitore di tronco o in quelli tradizionali per la raccolta da terra.

Altro aspetto da tener presente è la fase industriale della filiera: i frantoi dovrebbero adeguare le proprie capacità lavorative per poter trasformare una quantità di olive maggiore in tempi brevissimi, come è avvenuto in Spagna. Tuttavia grandi frantoi, spesso ritenuti attualmente sovradimensionati alle reali capacità di trasformazione, in Italia non mancano.

Perplessità è posta circa la durata economica di tali sistemi colturali, soprattutto ai fini del tempi di ammortamento dei costi per la loro realizzazione. Questo dato non può essere ancora assunto con sicurezza; tuttavia il primo impianto ad alta densità ha un’età di 19 anni ed è ancora in piena produzione!

Tra le diverse incertezze, una certezza c’è e che può rasserenare tutti coloro che manifestano perplessità: i sistemi innovativi non sono destinati a sostituire i sistemi tradizionali, ma ad affiancarli! Già questa certezza sarebbe sufficiente nella realtà odierna per imboccare la via di uscita dalla marginalità economica dei primi. Basta volerlo!

La foto di apertura è di Luigi Caricato

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