Codice Oleario

La fotografia dell’Italia olivicola

Avevamo una posizione di rilievo. Oggi il comparto produttivo risulta compromesso. L'ultima campagna ha messo drammaticamente alla luce i difetti, le manchevolezze e le necessità delle strutture produttive. Sono richiesti provvedimenti urgenti per la costituzione di nuove piantagioni di olivo al fine di rinnovare le strutture produttive

Piero Fiorino

La fotografia dell’Italia olivicola

L’olio extra vergine di oliva è l’unico olio vegetale direttamente commestibile, quindi dotato di complessi di gusto ed aroma che ne determinano i crescenti consumi mondiali. La produzione mondiale è in aumento e stabilizzata dal 2010 su oltre 3.000.000 tonnellate/anno.
E’ una “commodity” di alto valore, che con meno del 4% della produzione di oli vegetali movimenta il 20% del mercato.

L’Italia storicamente aveva una posizione di rilievo per le caratteristiche qualitative del prodotto e per la importanza quantitativa delle produzioni in un mondo che vedeva l’olivo come pianta colonizzatrice e l’olio come produzione povera, talora malfatta e maleodorante, da inviare a raffinerie italiane che lo trasformavano in oli di oliva commestibili.

Oggi la realtà mette in evidenza che in tutti i Paesi olivicoli e non olivicoli le piantagioni di olivo sono diventate piantagioni da reddito, e la nuova olivicoltura mondiale, che arriva appunto a 3.000.000 t, è ottenuta con nuove e moderne piantagioni, altamente produttive, competitive, con produzioni di qualità crescente, in grado di competere sui mercati allo stesso livello delle qualità italiane, con la differenza che l’Italia con le sue produzioni decrescenti attualmente non è in grado di imporsi in nessun tipo di mercato; nel 2013/2014 la produzione italiana, probabilmente inferiore alle 400.000 t da stime ancora da verificare, rappresenta solo il 13% della produzione mondiale.

Il comparto produttivo olivicolo in Italia
Come ben risulta dal testo e dagli allegati del Piano olivicolo-oleario 2009/2013, ormai decaduto e superato, il comparto produttivo risulta compromesso. Un milione di aziende, di cui gran parte in zone collinari, proprietà che gestiscono 100 o 250 piante di olivo come patrimonio aziendale, l’età stessa delle piantagioni che, ad esempio, in alcune zone di Italia superano i 300-500 anni, la estrema frammentazione varietale, con un innumerevoli cultivar delle quali non si conoscono né il comportamento agronomico né le caratteristiche dell’olio, danno appena un’idea delle difficoltà del comparto, ove il ricambio generazionale ha ormai fatto venir meno i tradizionali agricoltori.

Questa situazione comporta anche riflessi pesantemente negativi sopra le tecniche di conduzione, approssimative e mirate al massimo risparmio fino al nessun intervento, riportando la coltivazione dell’olivo ad una coltura di rapina senza nessun rispetto per l’ambiente, ed ha difficoltà insormontabili per la produzione di olio di qualità, visto che ciascuno raccoglie quando può, frange quando può e come può, e la mancanza di disponibilità economico-finanziarie limita anche i più essenziali interventi di fertilizzazione e di difesa.

Da una rapida valutazione dei dati statistici è facile ricavare questo degrado progressivo della struttura, poiché praticamente si è passati da oltre 800.000 t di olio nel 2004 a meno di 400.000 t (probabili) nella presente campagna.

L’ultima campagna ha messo drammaticamente alla luce i difetti, le manchevolezze e le necessità delle strutture produttive; una previsione di produzione già nettamente inferiore alle attese, mostrava già le tendenze al decremento del comparto. Un forte attacco di mosca olearia, lasciato incontrollato per mancanza di mezzi economici per effettuare i necessari trattamenti, e l’abbandono di frutti sulla pianta determinato dal loro basso valore, hanno certamente abbassato i limiti della produzione potendo arrivare a meno di 400.000 t in un momento in cui il valore dell’olio stava risalendo verso limiti di convenienza economica e malgrado che nel Mediterraneo si annunciassero produzioni da record. Il paradosso di questa situazione è che questo aumento del valore dell’olio andrà a favore dei nostri principali competitori; infatti, il consumo di olio di oliva in Italia è assestato intorno alle 600.000 t, quindi sono necessarie 200.000 t di buon olio (rivalutato) solo per soddisfare il fabbisogno nazionale, alle quali si dovranno aggiungere almeno altre 200.000 t per poter continuare ad alimentare le nostre esportazioni. Attualmente l’Italia produce circa la metà dell’olio rispetto ai propri fabbisogni.

La competitività degli altri
Per valutare attentamente le possibilità e gli indirizzi di sviluppo del nostro comparto olivicolo, dopo essersi guardati attentamente in casa, occorre verificare il mercato generale, il comportamento e le produzioni dei principali Paesi olivicoli e le spinte allo sviluppo del comparto olivicolo-oleario a livello globale.

Nell’orizzonte europeo, compare gigantesca la montagna produttiva spagnola che ancora una volta supera 1.500.000 t (circa il 50% della produzione mondiale), con produzioni provenienti da piantagioni nuove, irrigue specializzate, integralmente meccanizzabili ed inserite in una filiera già in corso di adeguamento alle caratteristiche qualitative che il mercato richiede; gli agricoltori spagnoli hanno rinnovato le piantagioni, riorganizzato le filiere, acquistato marchi di prestigio anche italiani, ed ora stanno lavorando intensamente sulla qualità intrinseca delle loro maggiori produzioni nazionali. Competere con queste realtà significa competere tecnologicamente.

Sempre nell’ambito europeo, la Grecia si presenta con una olivicoltura solo parzialmente rinnovata, ma con oli di elevata qualità ed a prezzi relativamente bassi.
Nell’ambito del Mediterraneo una forte spinta al miglioramento tecnologico nello specifico settore dell’olivicoltura è in atto in Marocco, che tre anni fa ha lanciato il Programma “Maroc Vert”, che prevede interventi praticamente a fondo perduto per nuove piantagioni, ed in Turchia, ove l’olivo è visto come un investimento produttivo ed il potenziale di esportazione di questo Paese si sta avvicinando alle 100.000 t/anno.

In sottofondo rimangono ancora Paesi come Siria e Tunisia, che insieme possono coprire 400.000 t (quantità pari all’attuale produzione italiana) di oli a basso costo.
Al di fuori dell’area mediterranea si stanno sviluppando interessanti realtà olivicole, delle quali si deve tener conto, perché, se non influenzano il mercato nazionale, sono delle minacce concrete per le nostre esportazioni. Negli Stati Uniti, in California, sta crescendo un nucleo di olivicoltori che mirano ad impadronirsi del mercato nordamericano, che rappresenta la migliore zona di esportazione degli oli italiani. Questo avviene sia con l’immissione sul mercato di oli di buona qualità prodotti in California, con impianti moderni, ma anche attraverso organi di stampa e dossier ufficiali che evidenziano i difetti del sistema produttivo italiano, praticamente inesistente nel loro immaginario collettivo.

Nell’America del Sud, Cile ed Argentina sono impegnati nella produzione di olio attraverso nuove piantagioni, e l’Argentina ha dichiarato l’olio di oliva “alimento nacional”; attualmente è accreditata di una produzione reale di 30.000 t, con grandi ambizioni sul mercato nordamericano (Stati Uniti, Canada).

Dall’altra parte del globo, la realtà australiana, ancora modesta, ma tutta costituita da nuove piantagioni, mira ai mercati orientali che rappresentano un potenziale sbocco anche per le produzioni italiane.
Si tratta, in genere, nel resto d’Europa (Portogallo, Spagna, Francia e parzialmente Grecia) e nel resto del mondo (Marocco, Turchia, Sudamerica, Australia) di olivicolture da reddito ove l’unica finalità dell’impianto è produzione di oli di oliva ottenuti con tecnologie moderne di raccolta, trasformazione, e ben organizzate, in grado di dare tutte oli di eccellente qualità sotto il profilo genuinità e purezza, e di caratteristiche organolettiche talora diverse, ma non necessariamente inferiori a quelle del prodotto nazionale.

L’abbandono e il disamoramento
Per fermare l’abbandono ed il “disamoramento” dell’olivicoltura come fatto produttivo che trascinerebbe inesorabilmente nella caduta anche alcune delle linee commerciali più rilevanti del “made in Italy” come gli oli di alta qualità, occorre prendere atto che la struttura deve essere modificata; questo non sarà fatto certamente in un arco di tempo breve, e senza un adeguato intenso lavoro di programmazione, ma si deve iniziare innanzitutto a ricostruire lo scheletro di una struttura produttiva efficiente attraverso nuove piantagioni che siano nel giro di pochi anni in grado di sopperire almeno ai fabbisogni nazionali e mantenere l’immagine di un mondo olivicolo dinamico e produttivo in grado di sostenere un’esportazione di qualità, e ridare al Paese un settore in grado di dare occupazione e recuperare quelle forze lavoro che derivano dall’abbandono progressivo dell’olivicoltura tradizionale.
Queste nuove piantagioni dovranno possedere tutti i requisiti per lo sviluppo e l’applicazione di tutte le moderne tecnologie.

In numerosi distretti rurali esistono ampie zone a vocazione olivicola-agricola, ove operare con queste nuove piantagioni, che possono assumere un importate ruolo nella evoluzione del paesaggio analogamente a quanto avvenuto per i vigneti, che negli ultimi trent’anni sono stati totalmente sostituiti dalle nuove piantagioni adatte alle mutate esigenze agronomiche e tecnologiche, e con evidenti vantaggi paesaggistici ed ambientali.
Per dare un’idea dell’immensità delle operazioni e della urgenza per iniziare le attività si portano ad esempio alcuni numeri: supponendo di dover soddisfare un fabbisogno di 200.000 t/anno di olio di oliva si dovrebbero portare a regime 150-200.000 ettari di nuovi oliveti che con una media di 1 t/ha di olio potrebbero riuscire a colmare il fabbisogno.

E’ evidente che un processo di questa portata richiede un arco di tempo lungo ed accurate calibrazioni dei processi a monte ed a valle delle piantagioni; è tuttavia necessario sempre ricordare che l’impianto di un oliveto determinerà una produzione 3-5 anni dopo, e che occorre aspettare comunque 8-10 anni per arrivare ad una produzione stabilizzata. E’ quindi necessario avviare immediatamente il processo nelle zone e con gli agricoltori che sono interessati.

A tal scopo occorre un volano che da un lato permetta agli investimenti di poter essere gestibili agevolmente riducendo l’effetto delle numerose norme ed autorizzazioni necessarie per la costituzione di nuove piantagioni, che saranno effettuate solo sulla base di rigorosi criteri tecnico-scientifici, e dall’altro permetta di costituire un fondo di incentivazione, individuando nel modo più opportuno la fonte delle risorse necessarie, e che potrebbe per esempio essere previsto a livello regionale a gravare sugli attuali contributi OCM, da utilizzare per la
costituzione di nuove piantagioni di olivo analogamente a quanto si sta facendo nel settore della viticoltura.

Un’operazione di questo tipo non è finalizzata alla sola produzione olivicola, ma contribuisce a movimentare attività e quindi capitali in un indotto che va dall’attività vivaistica alle macchine agricole all’impiego di forze lavoro direttamente nelle piantagioni e indirettamente nelle attività indotte, e creare linee produttive che già direttamente possono essere pilotate verso prodotti di alta gamma e di qualità certificate.

La foto di apertura è di Casa dell’Olivo

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