Olivo Matto

Cos’è Fico per me

Luigi Caricato

Ho visitato Fico il giorno in cui si ospitavano i giornalisti, in anteprima rispetto all’apertura al pubblico, proprio da privilegiato, ed è stato tutto molto bello e intrigante.

Non c’è motivo di spiegare cos’è Fico, acronimo di Fabbrica Italiana Contadina, la nuova creatura di Oscar Farinetti, nell’Eataly World di Bologna, realtà di 100 mila metri quadrati di superficie fortemente voluta e realizzata con caparbia determinazione. Lo sanno tutti.

Non ne ho scritto subito, dal giorno della mia visita, perché non ne ho avuto il tempo, e un po’ anche perché desideravo fortemente conoscere le percezioni altrui, i cosiddetti sentiment. Soprattutto il parere espresso dalla rete, non perché mi curi delle opinioni che girano sui social, ma per una sorta di scommessa con me stesso. Vuoi vedere, mi sono detto, che attaccheranno brutalmente Farinetti e il suo Fico? Così è stato. Non occorre essere geni per intuire le inclinazioni della gente.

Tuttavia quel che circola in rete è solo la voce di chi urla, che per natura tende ad agitare le acque, a suscitare malumore, in cerca di sensazionalismo, ma la maggioranza, tendenzialmente taciturna, non sbrocca mai e dovendo lavorare non si perde certo nel vociferare vacuo dei soliti rompiscatole.

Perché ho apprezzato Fico? Perché è una idea geniale concepire uno spazio così immenso che ricorda Expo. Fare le cose in grande è proprio ciò che serve in un Paese che arretra. Spettacolarizzare il mondo agricolo e alimentare non è smarrire il buon senso, ma creare nuove letture della realtà, rendendola intellegibile a tutti. È una volgarizzazione positiva, perché coinvolge le persone rendendole gioiose come quando si è a un parco giochi. E infatti non a caso Farinetti ha parlato di Fico, proprio riferendosi a una sorta di disneyland. Non solo, ciò che più mi ha fatto apprezzare il suo intervento alla platea di giornalisti, è stata in particolare una frase: “Quando uscite di qui, non abbiate timore a parlarne bene”.

Ecco, parlarne bene. Quasi presagendo l’ondata di attacchi, dall’Italia e dall’estero, al suo progetto. Progetto che poi è stato vivamente voluto e proposto da Andrea Segrè, docente all’Università di Bologna, distante qualche centinaio di metri da Fico, nonché economista autore di saggi contro lo spreco alimentare.

Non sappiamo come si evolverà, se sarà un successo o un fallimento. Ciò che conta è averlo fatto, perché non si portano avanti i progetti se non si è sognatori e audaci. Fare qualcosa di sicuro è da pavidi. La mia opinione, in simili casi, è sempre di grande apprezzamento. Contano le opere, ciò che uno fa. Ogni iniziativa la saluto sempre come benvenuta.

Non sono un farinettiano, né l’ho mai conosciuto di persona, se non per una stretta di mano al volo, presentato anni fa da un collega giornalista, ma credo che il Paese abbia bisogno di persone audaci, altrimenti questa Italia annaspa, non sa muoversi, non dimostra di avere fame di buone opere. Perché di questo si tratta, di una buona opera.

È evidente che il mio interesse si è poi concentrato sullo spazio dell’olio, che coincide con l’Ulivo Bistrot messo in piedi con altrettanto coraggio dalla famiglia Boeri, dell’Olio Roi. Che hanno voluto anche inserire un frantoio, in modo da rendere il loro sazio un luogo del fare. ià, un frantoio, con tutte le olive da spremere e l’occorrente per confezionare l’olio e renderlo disponibile ai presenti.

Hanno visto giusto i Boeri-Roi. Roi è il soprannome di questa famiglia di oleari liguri. Con loro si sono impegnati anche alcuni partner che li accompagnano nella loro avventura: oltre alle Focaccerie GranTorino, che rendono l’olio ancora più buono, anche aziende Alfa Laval ed Evp, con un frantoio e una linea di stoccaggio e imbottigliamento di ultima generazione, Marchisio, per i serbatoi, Tenco, per l’imbottigliamento, e infine Enos, per l’etichettatura. Insomma, ci vogliono imprenditori coraggiosi, e nei 100 mila metri quadrati di Fico ne ho trovati tanti. Peccato vi siano le voci contro, ma in quest’epoca di disfattisti dobbiamo mettere in conto la loro presenza. Non possiamo farci nulla, occorre portare pazienza e lavorare sodo. Sono le opere, non le parole, che metteranno a tacere le malelingue

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