Tutti elogiamo la biodiversità olivicola italiana, io per primo. Quante volte ho scritto con toni enfatici delle 538 cultivar censite, pur consapevole che di fatto sono molto meno quelle che si traducono in oli tratti da varietà di olive concretamente presenti sul mercato.
Se ci fate caso, sono poche decine in tutto le cultivar da cui si ricavano la gran parte degli extra vergini. Pensate che solo in Puglia, la regione serbatoio d’Italia, gli olivi appartengono solo a quattro varietà: la Peranzana all’estremità Nord della regione, la Coratina nel nord Barese, la Cellina di Nardò nell’estremo sud, nel Salento, e, a unire l’intero territorio, le Ogliarola, con le varie declinazioni: garganica, barese, salentina. E il resto? È solo immaginazione. Tante cultivar, ma poco influenti sui quantitativi d’olio estratti.
Ho come la sensazione che ci stia sfuggendo di mano l’immenso patrimonio varietale di cui pure disponiamo, almeno sulla carta.
Ho un altro timore, che mi sembra giusto evidenziare. Quando nel recente passato – negli anni d’oro in cui il denaro pubblico pioveva sulle teste di molti – si sono piantati olivi nelle varie regioni italiane, con grandi punti interrogativi. Infatti, resta da chiedersi quanto di questo materiale vegetale era davvero attendibile e certificato, corrispondente al vero, rispetto a quanto dichiarato nelle fatture di vendita? Quanti, tra gli olivicoltori, si sono trovati una cultivar diversa da quella richiesta, soprattutto se le cultivar erano meno diffuse?
Sono domande lecite, cui dobbiamo pur rispondere.
Siamo proprio sicuri del germoplasma olivicolo?
Questa, e altre, sono domande lecite. Perché anche da qui dovremmo ripartire. Per ridare dignità all’oliveto Italia, occorre far chiarezza sugli olivi presenti e in seguito adoperarsi per fare tutto il resto. Soprattutto piantare nuovi olivi.
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