Saperi

Campi di lavoro e violenza

Uomini e caporali, di Alessandro Leogrande, è un libro utile, da rileggere anche a distanza di qualche anno dalla pubblicazione, avvenuta per "Strade Blu" di Mondadori nel 2008. Se ne ricava un tentativo, ben riuscito, di afferrare la trama che tiene insieme le odierne vicende dei caduti nella guerra dei campi e le cruente lotte dei braccianti di inizio Novecento

Alfonso Pascale

Campi di lavoro e violenza

Pubblicato da Mondadori nel 2008, Uomini e caporali è un racconto-inchiesta sullo sfruttamento di migliaia di stranieri che, provenienti per lo più dall’Europa dell’Est, si riversano ogni anno nel Tavoliere delle Puglie, con la speranza di racimolare un po’ di denaro raccogliendo pomodori, pulendo le vigne dalle erbacce, strappando frutti alla terra, e si ritrovano invece in condizioni da incubo, alla mercè di caporali di nuovo conio, che non si limitano a regolare e controllare il lavoro che essi svolgono ma la loro vita, ridotta ad un’esistenza da schiavi.

L’autore. L’autore è Alessandro Leogrande che in Puglia, nella masseria di famiglia a Gioia del Colle, ha trascorso tutte le estati della sua infanzia, raccogliendo per anni documenti e ritagli di giornali sulla strage che, agli inizi degli anni Venti del secolo scorso, si consumò nell’antico centro della Murgia, quando una quarantina di agrari spararono sui braccianti in attesa di ricevere la paga. Egli riesce finalmente a portare a termine quella ricerca storica mentre conduce il suo reportage sui nuovi schiavi, che non vengono trucidati in massa come in passato ma vedono spesso alcuni di loro scomparire nel nulla o morire in circostanze misteriose.

Le lotte bracciantili. Ne vien fuori un tentativo ben riuscito di afferrare la trama che tiene insieme le attuali vicende dei caduti dell’ultima guerra dei campi e le cruente lotte bracciantili negli anni Dieci e Venti del Novecento nella stessa terra dove oggi i polacchi, i romeni, i bulgari, e prima di loro gli albanesi, hanno preso il posto dei vecchi contadini; dove braccianti e caporali stranieri, al servizio di proprietari italiani compiacenti, si sono sostituiti ai vecchi braccianti e ai vecchi caporali, dando vita alla più grande rivoluzione antropologica del Mezzogiorno rurale negli ultimi vent’anni.

Quel che è avvenuto. I figli dei contadini meridionali non hanno più accettato di lavorare la terra alle vecchie condizioni e così al loro posto hanno fatto irruzione i ragazzi dell’Est. Ma questo mutamento ha fatto sì che il caporalato classico, che non è scomparso nemmeno dopo la modernizzazione dell’agricoltura, mutasse la sua natura da mero sfruttamento in schiavismo. Non già perché i caporali stranieri sono più cattivi o più “selvaggi” degli italiani, come spesso a torto si crede, ma solo perché sono venuti a mancare quei vincoli di appartenenza alla stessa comunità che, legando di fatto gli aguzzini e le vittime al territorio, impediscono al caporalato nostrano di superare certi limiti.

Un nuovo capolarato. Ma vi è anche un altro elemento da considerare alla base della nuova forma di caporalato. I disoccupati dell’Europa Orientale si adattano a qualsiasi condizione perché arrivano in Italia con la speranza di rientrare nei propri paesi dopo aver messo da parte un po’ di soldi. A differenza degli stessi africani che invece, una volta insediatisi stabilmente nelle nostre metropoli, sono disponibili a spostarsi in modo saltuario nel Tavoliere solo a condizioni più vantaggiose di quelle che lasciano nelle periferie delle città.

L’accordo tacito. Il nuovo caporale non è, dunque, il semplice intermediario che ci eravamo abituati a vedere nelle pianure meridionali al tempo di raccogliere i prodotti dalle piante, ma è diventato negli ultimi anni – col tacito accordo del proprietario dei terreni – l’asettico gestore di un “campo di lavoro”, dove i diritti minimi e ogni forma di ragionevolezza sono soppressi e i corpi delle persone sono ridotti a”nuda vita” da afferrare, manipolare, violentare, sopprimere.

Cooperative spurie. Spesso i terreni sono intestati a società di capitali che mettono insieme produttori di piantine, commercianti e soggetti che gestiscono cooperative spurie che provengono da altre aree del Mezzogiorno e non hanno alcun rapporto con il territorio. Ma non si tratta di nuove forme di latifondo, il cui significato è “ampia proprietà terriera coltivata con sistemi non intensivi” perché non siamo in presenza di vaste concentrazioni di beni fondiari da poter redistribuire né sistemi produttivi da rendere intensivi. Sono aziende intensive in aree irrigue, fortemente specializzate e inserite in processi così stringenti di integrazione industriale e protetti in modo così pervasivo dalle politiche pubbliche da limitare fortemente l’autonomia del conduttore e sfilacciare fino alla dissolvenza i suoi legami con la società e l’economia del territorio.

Campi fuori legge. Laddove esistono questi “campi” fuori dalla legge, le nostre campagne non sono regredite nell’Italia contadina di una volta, come potrebbe apparire ad un osservatore frettoloso, ma sono state catapultate nella postmodernità più cruenta verso un grado di sfruttamento di quella “nuda vita” quasi totalitario, che gli stessi caporali vissuti ai tempi di Di Vittorio avrebbero faticato a immaginare.

L’onda lunga. Gli atti di efferata aggressività compiuti come uno stillicidio continuo da questo caporalato di tipo nuovo non sono fatti sporadici, irrazionali, anche se sovente finiscono sulle pagine di cronaca nera senza suscitare riflessioni e interrogativi. Sono, in realtà, sedimenti di storia. Si tratta di una violenza irrisolta che ritorna ad esplodere in forme marcatamente diverse dal passato ma che trova linfa in comuni radici. E’ un’onda lunga che riaffiora. E siccome noi tutti – ammonisce Leogrande – chi per un verso e chi per un altro, veniamo da quella storia, conviene che insieme dipaniamo questi fili invisibili che portano alle matasse aggrovigliate del passato.

Nè sensazionalismi, nè intenti diffamatori. Nell’indicarci dove trovare questi fili, l’autore non indulge mai al sensazionalismo, ma distingue con scrupolo le responsabilità e parla delle attività agricole con un profondo sentimento di partecipazione senza mostrare alcun intento diffamatorio nei confronti del settore. Perciò chi ha a cuore il futuro delle nostre campagne dovrebbe essergli grato e convenire che solo un lavoro di scavo, condotto con rigore e senza infingimenti, permetterebbe di isolare il grano dal loglio e di consegnare integra all’opinione pubblica la migliore immagine dell’agricoltura italiana.

Spinte d’odio. Nei primi anni Venti e alla fine degli anni Quaranta, gli agricoltori aggredivano di persona o facevano massacrare braccianti e contadini senza terra spinti dal timore di perdere i propri possedimenti. Tornando dal fronte affamati di un pezzo di terra su cui ricominciare una vita degna di essere vissuta, i cafoni costituivano agli occhi di tanti proprietari terrieri, o di massari e fittavoli che si ingegnavano a diventarlo, una minaccia ineluttabile per la sicurezza dei loro beni. E le frequenti occupazioni di terre di proprietà privata, spesso condotte in forme spontanee e anarcoidi fuori dal controllo dei partiti di sinistra e dei sindacati, venivano percepite come prepotenze ingiustificate e finivano per alimentare odio e rancore.

Aggressività e violenza. Si sono così ulteriormente forgiate relazioni sociali specifiche nelle campagne che si manifestano con la violenza e l’aggressività ed emergono, con particolare acuzie, proprio nelle fasi in cui le insicurezze si allargano. Con le recenti immigrazioni indotte dalla globalizzazione, noi oggi viviamo una di queste fasi che, tuttavia, presenta nuove forme di violenza e di aggressività nelle aree rurali.

Ferocia primitiva. Con un impianto narrativo accattivante e a forti tinte, l’autore ci propone personaggi quasi romanzeschi nella loro primitiva ferocia sulle cui figure oblique si riverberano per contrasto gli sguardi persi e disperati delle vittime e i volti nobili e luminosi di alcuni pugliesi che hanno saputo e voluto essere di aiuto a questa umanità alla deriva. E intrecciando il presente e il passato, egli risale a ritroso per i ceppi dell’albero alla ricerca delle motivazioni profonde che sono alla base del calderone di tensioni e di odi da cui tutto discende.

Disumanità. “Non è la miseria – conclude Leogrande – il principale retaggio del passato, ma la disumanità delle relazioni e la bestialità della sopraffazione”. E’ la violenza quando non riesce ad essere contenuta da comportamenti improntati ai valori della reciprocità e della gratuità, che pure affondano le proprie radici nel mondo rurale.

Involuzioni autoritarie. E’ per questo che, nelle fasi più acute dei conflitti sociali del secolo scorso, quando la violenza non ha trovato canali di sbocco nella costruzione di organizzazioni sociali affidabili e di processi politici volti ad incivilire le contese, essa ha lasciato spazio ad involuzioni autoritarie. Quando viceversa, come nel secondo Dopoguerra, la violenza diffusa nelle campagne è stata incanalata dai partiti di massa nelle lotte per la democrazia, essa ha lasciato il campo al rigenerarsi di quei valori di mutuo aiuto e di solidarietà del mondo contadino che hanno potuto permeare le relazioni sociali nei decenni successivi.

L’assenza di partiti e organizzazioni sociali. Oggi tutto questo pare essere scomparso di nuovo. E mentre divampano i conflitti sociali di un’Italia multirazziale, nelle campagne meridionali non solo mancano le lotte ma brillano per la loro assenza i partiti e le organizzazioni sociali. E dalle aree rurali vanno via i giovani, alcuni perché non trovano opportunità di impiego in dinamiche economiche sganciate dalle risorse territoriali, altri perché rinunciano ad avviare nuovi percorsi che pure avrebbero potenzialità di successo. E tutto è lasciato al degrado mentre arrivano dall’esterno nuovi cafoni e nuovi bravi e nuovi signori feudali stabiliscono la posta in gioco e tutti vanno ad insediarsi negli spazi lasciati vuoti dalle comunità locali che si diradano.

L’affrancamento. Forse solo un processo di ricomposizione dei legami comunitari nelle campagne, che veda protagoniste leve di giovani autoctoni e di giovani stranieri in nuove attività economiche legate all’agricoltura che produce contestualmente beni alimentari e servizi alla persona e in grado di ritessere le trame sociali di mutuo aiuto e di gratuità, così come in alcune parti d’Italia si è avviato da un pezzo, può permettere al nostro Mezzogiorno di affrancarsi dagli atavici venti di violenza che soffiano impetuosi nelle sue lande e di produrre un’innovazione che si innesti sulle radici migliori della tradizione.Tale processo non si avvia spontaneamente, ma solo se nasce una nuova società civile.

L’immagine di apertura è slegata dal contesto di lotte rurali ed è una riproduzione di Luigi Caricato ricavata dal “Traktor story” di Baredine, in Croazia

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