Saperi

Covid-19. Per una visione filosofica della pandemia

Nella storia dei cataclismi, la reazione dei filosofi è stata sempre un motivo di riflessione. Il pensiero, si sa, è fondamentale. Serve ad aiutarci a capire e a trovare risposte plausibili. Eppure le visioni sono differenti, come è ben prevedibile. Anche oggi, come per il passato, il confronto tra gli intellettuali (filosofi e non) non è meno duro e meno conflittuale. Colpisce quanto espresso da Michelangelo Pistoletto, colpito personalmente da Covid-19 e guarito a 86 anni. Afferma l'artista: "Questo virus è una cosa che sta a metà tra Scienza e Natura"

Mario Campli

Covid-19. Per una visione filosofica della pandemia

Natura e Storia. E’ questo il binomio cruciale che – al netto delle disfunzioni, impreparazioni, debolezze, fragilità dei Sistemi Istituzionali, Organizzativi delle Democrazie e dei Welfare europei e occidentali – interroga la nostra generazione. Ricostruiti dopo la crisi questi Sistemi, i protagonisti di un’altra Storia saranno la forza, l’energia, l’anima degli uomini e delle donne del pianeta (pan-demia). Con quale Pensiero?

Nella storia dei cataclismi, la reazione dei filosofi è stata sempre un luogo dove sostare e meditare. Le analogie tra cataclismi sono da prendere con le molle, per la diversità di molte variabili connesse, dalle quali risulta una differenziazione anche nella pandemia delle idee. Uso questa espressione di Gabriele Pedullà (L’Espresso, aprile 2020), che della Peste Nera (1347-52) scrive: “Allora i contemporanei di Boccaccio continuarono a ragionare sul disatro con categorie tradizionali della punizione divina”. Del tragico terremoto in Portogallo, nel novembre 1755, ricorda: “la devastazione di Lisbona rappresentò un trauma per due o tre generazioni di europei [e l’Europa, allora era il mondo], i quali vissero quella tragedia come una sorta di test inaggirabile per le credenze religiose e le teorie dei filosofi sulla natura e sulla società; (…) si potrebbe sostenere che si trattò della prima grande battaglia filosofica combattuta a mezzo stampa.” Le forze in campo furono, i Gesuiti da un parte (“denunciavano la generale corruzione dei costumi, che avrebbe indotto Dio a incenerire Lisbona come una novella Sodoma”) e dall’altra gli illuminsti: Voltaire, Rousseau, Kant. Sullo sfondo, Leibniz che nei suoi Saggi di teodicea aveva congelato l’uomo in una sorta di “ottimismo metafisico”, sempre nel perimetro della volontà e bontà divine. Ma nello scontro con i Gesuiti, Voltaire si ritrovò colpito da fuoco amico: Rousseauin nome della innocenza della Natura e della corruzione [sempre opera dell’uomo] della civiltà, prese le difese dell’imprescrutabile disegno divino”. Il giovane Kant, appena trentunenne, fece un’altra scelta: si tenne lontano dalla polemica immediata, si mise a studiare e in poco tempo raccolse, mai spostandosi da Königsber, una massa di notizie e documenti, nella precisa volontà di dare una veste scientifica alle sue riflessioni; scrisse: «Non intendo riportare la cronaca delle sofferenze che esso ha inflitto agli uomini (…) affido questo tipo di racconto a mani più esperte. Descriverò qui solo il lavoro della natura, le sorprendenti circostanze naturali che hanno accompagnato il terribile evento e le loro cause…». L’intento del grande protagonista dell’Illuminismo era rafforzare il programma della nuova scienza newtoniana.

Oggi, la prima difficoltà che ho incontrato in questa modesta indagine sul pensiero filosofico nella pandemia Covid 19, è nella rintracciabilità di un filo conduttore e di uno sbocco; non dico definito, ma almeno delineato nei suoi elementi costitutivi. Pedullà riassume l’insieme dei commenti: “oggi invece la crisi sanitaria ha preso da subito la forma di una requisitoria contro quarant’anni di ordine neo-liberale. Una intera visone del mondo viene messa sotto accusa”. Questo nel 1348 non avvenne. E nel settecento, dopo la polemica sull’ottimismo metafisico – il pensiero filosofico europeo-occidentale, di fronte allo schock di Lisbona formula questa: Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?. Immanuel Kant scrive: “L’Illuminismo è l’uscita del’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. (…) Sapere aude. Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo”.

Oggi, il confronto tra gli intellettuali (filosofi e non) non è meno duro e meno conflittuale del tempo degli illuministi. Certo, nessuno può pretendere che si occupi della discussione sul ruolo della sofferenza nel grande piano della creazione”. Anche se considero, almeno, discutibile “incaricare” – con laica imperturbabilità! – le chiese (di più, le coreografie del papa dei cattolici e le sue omelie mattutine) di una ricerca di senso della vita, della sofferenza e della morte. La “battaglia” non è più a “mezzo stampa” – per riprendere l’mmagine di Padullà – ma dovunque: sul web, sui giornali, con i libri. Il cuore del contendere mi pare stia nel conflitto cruciale tra “Natura e Storia – Scienza e Potere”. Ho proceduto a consultare (cioè leggere), soltanto alcuni tra filosofi e scienziati, storici e sociologi, scrittori e artisti che hanno scritto o parlato in questi giorni. Sullo sfondo avverto un’altra differenziazione/radicalizzazione – che era già in corso e che ora cerca conferme, ciascuna delle parti, alle proprie posizioni. Lo spettro, ampio, va dalla polemica spicciola e nervosa sull’azione dei governi (livelli: europeo, nazionale e locale), attraversa il segmento del complotto del potere teso a determinare nuove configurazioni post o anti democratiche, fino alle visioni ultra-ambientalistiche, con vaghe aspirazioni di soluzioni palingenetiche. Per uno spazio non troppo lungo, vorrei tentare di delinearne il tragitto, per rintracciare alcuni, a volte pregevoli, inizi di costruzione di un Pensiero, caratterizzante questo passaggio ad occidente.

Roberto Esposito, filosofo alla Normale di Pisa, in una recente intervista spiega: “Michel Foucault è stato il primo a parlare di biopolitica, ne La volontà di sapere, un libro del 1976. Il concetto rimase inesplorato per diversi anni, fino a quando alcuni pensatori italiani non lo ripresero e lo svilupparono. La biopolitica sembrava nozione poco verificabile nella realtà. Senonché, i riscontri si sono fatti via via sempre più fitti, fino a diventare sconcertanti. Dalle procedure biotecnologiche, al terrorismo suicida, fino alla più recente crisi immigratoria, questioni di vita e di morte si sono installate al centro delle agende e dei conflitti politici. L’esplosione del coronavirus, con le conseguenze geopolitiche che ne sono scaturite, ha portato al culmine la relazione diretta tra vita biologica e interventi politici”. Questo approccio evidenzia un metodo nuovo di studio delle dinamiche individuo-società-potere. Resta, però – così almeno appare per ora – prevalentemente indirizzato a cogliere le nuove dinamiche del Potere nelle società, sulle quali nuovi e conturbanti mondi (digitale, medicale, biotecnica, ecc.) insistono ed operano. Il perimetro della filosofia politica, insomma. Successivamente, Esposito, nel saggio Communitas (2016), ha indagato il concetto di comunità, a partire dal suo originario significato etimologico: cum munus. Egli così delinea il suo percorso: “Attraverso una originale ‘controstoria’ della filosofia politica, il risultato di questo intreccio concettuale e lessicale evidenzia un capovolgimento radicale delle attuali interpretazioni della comunità: l’idea filosofica di comunità non ha nulla a che vedere – anzi ne è l’esatto contrario – con le piccole patrie cui guardano nostalgicamente vecchi e nuovi comunitarismi. Essa non è una proprietà, un pieno, un territorio da separare e difendere rispetto a coloro che non ne fanno parte, ma un vuoto, un debito, un dono (tutti significati di munus) nei confronti degli altri, che ci richiama nello stesso tempo alla nostra costitutiva alterità anche da noi stessi. Poi, nel suo recente saggio, Immunitas, protezione e negazione della vita (Einaudi, 2020), afferma: “La riflessione che propongo nasce circa un decennio fa, e muove dal significato del termine immunità rintracciato nella scienza medica e traslato metaforicamente nella scienza giuridica, psicologica, sociologica ed economica. Nel linguaggio medico ‘immunità’ sta per protezione nei confronti di una malattia infettiva; mentre nel lessico giuridico rappresenta una sorta di intoccabilità di qualcuno da parte della legge. L’immunità risulta, così, il contrario, il rovescio, della comunità. Entrambi i termini derivano dal latino munus – che veicola il significato di ‘dono’ o ‘ufficio’, ‘obbligo’ – ma l’uno, la communitas, in senso affermativo, mentre l’immunitas, in senso negativo. E dunque se i membri della comunità sono caratterizzati da quest’obbligo donativo, l’immunità implica invece l’esenzione o la deroga da tale condizione. Nel lavoro che propongo, le tesi di fondo sono essenzialmente due. La prima presenta un percorso sull’esigenza di esenzione o di protezione. Mentre la seconda sviluppa l’idea che l’immunità, necessaria a proteggere la nostra vita, se portata oltre una certa soglia, finisce per negarla”. Il filo rosso è quello della biopolitica, ma si percepisce un pensiero sospeso. Ho compulsato, allora, di Roberto Esposito, una meno recente opera: Da Fuori – una filosofia per l’Europa , 2016 (di cui ho fatto una lunga recensione in Il tempo d’Europa, tra intervallo e durata, 2017), nella quale tratteggia alcuni caratteri della filosofia contemporanea con riferimento a tutti gli ingredienti della famosa Dialettica dell’Illuminismo, 1947. A tale proposito Esposito afferma: “Si è voluto vedere in essa di volta in volta un rifiuto della ragione occidentale, una teoria catastrofica della storia, un frammento di Kulturpessimismus antitecnologico e perfino antidemocratico, una sconfessione esasperata del Moderno”; al contrario precisa Esposito: “ l’effettivo rilievo filosofico risiede in una concezione del tempo irriducibile a ogni filosofia della storia, sia di tipo progressivo che regressivo; progresso e regressione, d’altra parte, sono profili, opposti e complementari dello stesso paradigma storicistico” (p. 79). Questa lettura del pensiero, seppure non condivisa da Esposito, dei fondatori della celebre Scuola di Francoforte, potrebbe anche risultare molto aderente al tempo che stiamo vivendo-attraversando. Di cui potrebbe costituire una interpetazione filosofica, discutibile ma pregnante. A questa interpretazione (ripeto, non condivisa da Esposito) aggiungo una critica puntuale ed autorevole che ne ha fatto l’ultimo esponente, ancora vivente, della «Scuola». Era il 1986, a Torino: sedevano di fronte Jürgen Habermas, venuto a presentare un suo libro, Teoria dell’agire comunicativo, e Enrico Filippini, che annota: “Da Francoforte, che nella vulgata vuol dire poi Horkheimer e Adorno, Habermas prende qualche distanza. I due avevano un concetto forte della Ragione, e in definitiva non erano in grado di dire quali fossero i loro criteri nella critica della società e della cultura”, e Habermas indica con chiarezza il pericolo: «non c’è più teoria critica della società, ma soltanto filosofia negativa della storia. Invece occorre poter formulare una critica contestuale della ragione e della società» (questo giudizio è in: Enrico Filippini, Eppure non sono un pessimista, conversazioni con Jürgen Habermas”, 2013). Qualche giorno fa, Habermas è intervenuto direttamente sul dramma, filsofico, scientifico e esistenzale della pandemia. In una lunga intervista a Le Monde, ha detto: “ Da un punto di vista filosofico, noto che la pandemia impone, allo stesso tempo e su tutti, una spinta riflessiva che, fino ad ora, era l’attività degli esperti: dobbiamo agire nella conoscenza esplicita del nostro non sapendo. Oggi, tutti i cittadini stanno imparando come i loro governi devono prendere decisioni con una chiara consapevolezza dei limiti di conoscenza dei virologi che li consigliano. La scena, in cui l’azione politica è immersa, nell’incertezza, è stata raramente illuminata in modo così brillante. Forse questa esperienza almeno insolita lascerà il segno sulla coscienza pubblica. (…) Soprattutto, vedo due situazioni che possono influenzare l’intangibilità della dignità umana, questa intangibilità che la “Legge fondamentale” tedesca garantisce nel suo primo articolo e che spiega nel suo articolo 2, in questi termini: “Ognuno ha il diritto alla vita e integrità fisica”. Il pericolo rappresentato dalla saturazione delle unità di terapia intensiva nei nostri ospedali – un pericolo temuto dai nostri paesi e che è già diventato una realtà in Italia – evoca scenari di medicina del disastro, che si verificano solo durante le guerre. (…) È così che nasce la tentazione di violare il principio della rigorosa uguaglianza di trattamento senza considerare lo stato sociale, l’origine, l’età, ecc., La tentazione di favorire, ad esempio, i bambini più piccoli, a costo dei più vecchi. E anche se gli anziani stessi acconsentissero a un gesto moralmente ammirevole di dimenticanza di sé, quale medico potrebbe permettersi di “confrontare” il “valore” di una vita umana con il “valore” di un altro e quindi affermarsi come un corpo che ha il diritto alla vita e alla morte? Il linguaggio del “valore”, preso in prestito dalla sfera dell’economia, incoraggia una quantificazione che viene effettuata dal punto di vista dell’osservatore. Ma l’autonomia di una persona non può essere trattata in questo modo: può essere presa in considerazione solo adottando un’altra prospettiva, posizionandosi nei confronti di quella persona. D’altro canto, l’etica medica si dimostra conforme alla Costituzione e soddisfa il principio secondo cui non è necessario “scegliere” una vita umana piuttosto che un’altra. In realtà, impone al medico, in situazioni che consentono solo decisioni tragiche, di essere guidato esclusivamente sulla base di prove mediche che suggeriscono che il trattamento clinico in questione ha grandi possibilità di successo. (…) I diritti fondamentali vietano alle istituzioni statali di prendere qualsiasi decisione che accolga la morte di persone fisiche” (Le Monde 11 aprile 2020).

Giorgio Agamben. Una rilevante polemica hanno suscitato i diversi interventi di uno dei più importanti filosofi del mondo. Chi scrive non dimentica le lunghe ore impiegate a studiare le sue Lezioni elaborate in numersoi seminari (Parigi, Verona, Evanston, Berkeley), sulle Lettere di Paolo di Tarso, raccolte e pubblicate, infine, nel giugno del 2000, in Il tempo che resta. Dove, tra l’altro, vi è una analisi della visione innovativa e profonda del concetto del tempo, in un equilibrio esistenziale tra krònos, Kairòs, èskaton che potrebbe costituire uno sfondo mirabile proprio del tempo-di-ora, nell’attraversamento di una pan-demia che disorienta e, al tempo stesso, chiama Il o I Pensieri a rispondere! Avevo appreso da Agamben che il tempo in cui siamo chiamati a vivere e pensare è il “tempo-di-ora / il kairòs”, tempo opportuno; con la sua polemica odierna, mi pare che si sia collocato nel tempo- èskaton: il tempo che finisce. Che dire? Sono stupito e muto. Affido, pertanto, ad un diligente cronista de Linkiesta, Dario Ronzoni, di fare il punto! Il giovane cronista ha fatto una buona ed esauriente ricostruzione che ci aiuta a informarci e a fare le nostre scelte: “Un riassunto per i distratti: il 26 febbraio, discutendo dell’arrivo in Italia dei primi casi di Covid-19, definì, in un articolo apparso sul Manifesto, la situazione attuale una «supposta epidemia». L’emergenza era «immotivata» e la malattia qualcosa di «poco più di una normale influenza» con reazioni «esagerate». Per carità, non era certo l’unico. Lui, in più, sostenendosi su alcune tesi già espresse in un suo libro, Lo stato di eccezione, pubblicato durante la guerra in Iraq, andava a rispolverare alcuni temi filosofici ben conosciuti. Come lo stato di eccezione, appunto, la situazione politica estrema in cui il nomale – e normato – corso delle cose viene sospeso per affrontare (o in conseguenza di) una situazione di emergenza. Quello del distanziamento sociale (non c’era ancora il lockdown) era un esempio. Con l’aggravante che discendeva da un allarme immotivato e mirava a contenere le libertà degli individui. Da quel momento sono passati quasi due mesi, la situazione è peggiorata: sia per le dimensioni dell’epidemia, sia per il numero di vittime causate, sia per la sua diffusione nel mondo. Non solo: le affermazioni di Agamben hanno provocato reazioni su reazioni. Ne è nato un dibattito, non sempre elevato, ma in cui molti intellettuali hanno reagito con rimproveri più o meno affettuosi. L’amico filosofo Jean-Luc Nancy si è divertito a ricordare i consigli, sbagliati, datigli dal filosofo italiano prima di una operazione. Paolo Flores d’Arcais, meno tenero, ha parlato di «farneticazioni»; lo stesso Agamben ha risposto: ha riveduto alcune posizioni, ne ha confermate altre. L’11 marzo ha discusso sul tema del contagio, definendolo «estraneo alla medicina ippocratica» e associandolo alla figura dell’untore: ogni cittadino italiano diventava un possibile agente di contagio. Sostantivo che, agli occhi di Agamben, era presentato come un sinonimo, negativo, di contatto: premesse per la realizzazione del sogno del potere, cioè approfittare della situazione e portare avanti oscure manovre). Il 27 marzo rilancia alcune riflessioni. Ad aprile ragiona sul distanziamento sociale, citando Elias Canetti e ipotizzando che, come fenomeno, anche il fatto di stare separati porterebbe a inventare una massa di passivi, non di individualisti. Infine, il 14 aprile, fa una domanda: «Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?», testo in cui va a colpire la Chiesa – che si è fatta ancillare rispetto alla Scienza – e i giuristi, che hanno permesso che l’esecutivo sovrastasse il potere legislativo, fino a concludere che «una libertà sottratta non può salvare una libertà». Argomentazioni più sottili e raffinate di prima, certo degne di un grande filosofo dalla visione ampia e approfondita. Ma le contestazioni, più o meno accese, continuano. E fanno emergere un sospetto: che le teorie interpretative della seconda metà del ’900, da Foucault in poi, comincino a mostrare la corda. Che gli automatismi interpretativi, fino a quel momento declinati nel mondo della teoria, di fronte alle cose della realtà, si inceppino. La biopolitica – osserva Ronzoni – spiega molto, ma non tutto. Lo stato d’eccezione, quando si verifica, non segue il manuale.” Anche questa ricostruzione esprime uno spaccato di filosofia della/nella pandemia. E ci mostra che questa crisi sollecita la «biopolitica» a non arrestarsi alle soglie del «Potere» e dello «stato di eccezione», bensì a spingere il suo sguardo allo studio della teoria rawlsiana della «giustizia», attualmente considerata la più avanzata; di questi aspetti ha dato una ottima presentazione, recentemente, Alfonso Pascale nel suo Elementi per un progetto di adattamento della società al Covid .

Emmanuel Levinas. “In questi tempi, in questi giorni – scrive Cristian Fuschetto (saggista e giornalista scientifico; dottore di ricerca in bioetica, dal 2003 collabora alle attività didattiche e di ricerca delle cattedre di Filosofia Morale e di Antropologia) – più interessante che difendere scienza e tecnologia, sarebbe riuscire a difendere l’uomo che vi si affida. Sarebbe, forse, riuscire a sfoggiare contro la critica del potere che assoggetta la vita, l’elogio morale della scienza che la vita la salva.” In Heidegger, Gagarin e noi, Levinas, il più grande filosofo morale del XX secolo, apprezzatissimo dallo stesso Agamben, scrive: “Sarebbe urgente difendere l’uomo contro la tecnologia del nostro secolo. L’uomo vi avrebbe persa la sua identità per entrare come un ingranaggio in un’immensa macchina dove ruotano cose ed esseri. Ormai esistere equivarrebbe a sfruttare la natura”. Tutti quei verbi al condizionale trovano la spiegazione nel seguito del ragionamento; infatti Levinas aggiunge: “I nemici della società industriale, per lo più, sono dei reazionari”. Lévinas ce l’ha con Heidegger e con gli heideggeriani – sottolinea Fuschetto – quella (è Levinas che scrive) “prestigiosa corrente del pensiero moderno proveniente dalla Germania e che inonda i recessi pagani della nostra anima occidentale”. Secondo questa corrente di pensiero, precisa sempre Levinas: “Gli uomini avrebbero perso il mondo. Essi non conoscerebbero più altro che la materia posta davanti a loro, opposta (objectée) in qualche modo alla loro libertà, essi non conoscerebbero altro che oggetti”. Potremmo, a questo punto, tentare una sintesi dello scontro (più che dibattito) della filosofia al tempo delle manifestazioni pandemiche. Scrive Fuschetto: È questa la cornice intellettuale, quasi una mentalità, che ha dato luogo al mito dell’autenticità del radicamento contro la violenza sradicante della tecnica. Il pensiero razionale, la logica che neutralizza la natura e la trasforma in oggetto conoscibile allontana l’uomo dal “mistero delle cose”, ci insegna Lévinas, e fa brillare il volto umano nella sua nudità. Lévinas ci parla di una tecnica molto diversa rispetto quella che imperverserà nel dibattito tanto caro agli heideggeriani, severiniani, galimbertiani e per molti versi agambeniani, che continuano a vederla attraverso l’esclusiva lente deformante di una volontà di potenza che nasconderebbe agli uomini la verità delle cose, che ci priverebbe di un mondo umano e di un’esistenza autentica, che restringerebbe la nostra libertà a causa, per esempio, di emergenze inventate”. A renderci più agevole comprendere il punto di snodo – e anche di rottura – del Pensiero contemporaneo, potrà essere questa immagine fotografata da Emmanuel Levinas: “Ciò che è ammirevole nell’impresa di Gagarin non è certamente il suo magnifico numero da luna-park che impressiona le folle [Levinas si riferisce alla frase: “Non vedo nessun Dio quassù″; attribuita al soldato Gagarin da alcune fonti, ma mai confermata]. Ciò che conta è la scienza che ha reso possibile l’impresa e tutto ciò che, a sua volta, suppone di spirito di abnegazione e di sacrificio. Ma forse, ciò che conta sopra tutto, è aver abbandonato il Luogo. Per un’ora un uomo è esistito al di fuori di ogni orizzonte – intorno a lui tutto era cielo, o, più esattamente, tutto era spazio geometrico. Un uomo esisteva nell’assoluto dello spazio omogeneo”.

“Gli uomini e le donne – conclude Cristian Fuschetto – impegnati negli ospedali, professionisti di un’arte che si radica nella scienza, infermiere stremate e crollate sulla tastiera di un computer, ricercatori che con la potenza di calcolo di server, interconnessi su un globo diventato un unico immenso paese, tracciano le evoluzioni di un’epidemia tutt’altro che inventata, matematici che grazie a sofisticati algoritmi ne spiegano le traiettorie, scienziati che in corsa contro il tempo studiano e testano potenziali vaccini grazie a banche dati enormi e sistemi di intelligenza artificiale. (…) Tutti loro, come Gagarin nel 1961, sono anch’essi sulla frontiera di un assoluto. Come Gagarin, sono anch’essi l’umanità che osa”. Osa (aggiungo io con il peso degli anni e con la modestia del mio poco sapere) essendo a conoscenza (“homo sapiens sapiens”) del limite e della forza: una con-sapevolezza, che se non la smarrisce, potrebbe sostenere l’umanità a continuare il suo cammino.

Biagio De Giovanni. Il filosofo è intervenuto, con puntualità, assumendo un approccio trasparente sia alla dimensione personale ed esistenziale sia a quella propriamente politica. “Oggi il mondo è globalizzato dalla malattia, mai una cosa così era avvenuta. Il male si presenta in forma globale per la prima volta. In modi diversi lo viviamo tutti, e ne viviamo la banalità, un virus che non ha altro scopo che di riprodursi, non ha un piano, non ha una coscienza, è assai più piccolo di un granello di polvere, ma ha avuto il potere di globalizzare il mondo nella sua micidiale capacità di infettarlo”. Entra, subito, in uno dei mantra del dibattito, con schiettezza: “io non penso, secondo vulgata, a una resurrezione buonista e a un uomo che cambia sotto la spinta dell’evento, lasciate ogni retorica o voi che entrate”. E, a questo punto, ci si aspetterebbe un pessimismo cosmico; al contario, mentre conferma: “Quando leggo Machiavelli che diceva «se gli uomini fussero buoni, ma siccome sono tristi…» – e da qui nasceva la sua idea di politica – mi ritrovo nella sua convinzione sull’immobilità della natura dell’uomo, quella che sfugge sia a ogni catastrofe sia a ogni civilizzazione”. E in questa configurazione che De Giovanni, in parallelo, legge storia e natura e riconosce: “Tuttavia l’unificazione del mondo avvenuta a quella insegna, la malattia, potrebbe comunque lasciare qualche traccia. Non in un cambiamento della natura umana verso il buono, né verso nessuna palingenesi ambientale e sociale; forse solo verso un momentaneo ridimensionamento della volontà di potenza,un attimo solo, in cui il mondo si mette a pensare sul male, sulla sua capacità di unificazione, e afferra, in un baleno, che nel fondo siamo sempre al punto di partenza di tutto, e che bisogna ridurre l’albagia che ci fa considerare padroni di noi stessi.” Forse possiamo considerare in questo snodo, decisamente filosofico, il bandolo della matassa aggovigliata nella pandemia delle idee. Ed è a questo punto che De Giovanni innesta la sua concretissima visione politica; e la imposta, coerentemente, in un contesto “pan-demico”. Dice: siccome oltre le discontinuità ci saranno anche, inevitabilmente, delle continuità, dettate ancora in parte dalla sicura sopravvivenza dell’homo sapiens, per chiamarlo così con un po’ di benevolenza, si può provare a fare qualche ipotesi nel campo della politica e della geopolitica”. Prende atto della frattura politica, ma non solo (vedasi tutta l’operazione di Bannon e della destra cristiana (componenti di varia entità della ortodosssia, del cattolicesimo e del protestantesimo) operatasi nel cuore stesso dell’Occidente (“una caduta verticale del rapporto dell’America con il mondo come era prima, e soprattutto ha sancito la divisione di quella civiltà che nel suo insieme si chiama «Occidente»), si colloca anche lui nel preciso contesto di Covid 19 (“Qui c’è un punto dirimente, che si può addirittura approfondire con gli effetti della pandemia, nel senso di un globalismo dominato da un’Asia cinese-russa”), e mette il dito in una delle piaghe: “Se vogliamo utilizzare le parole in modo non proprio consueto, la vera destra del mondo globale si annida negli Stati usciti dalla tragica esperienza del comunismo reale e che oggi rappresentano, in forme anche diverse, una nuova forma internazionale di dispotismo; e l’Occidente diviso – e in una certa misura perfino al proprio interno contrapposto – non avrà una vera capacità di resistere di fronte alla nuova egemonia che si disegna”. Ecco la sfida, la vera sfida. Altro che fughe verso palingenesi e/o abiure morali dell’occidente finito! E la domanda che il filosofo della politica (ma che con una filosofia morale molto precisa: né pessimismo cosmico né escatologismi facili) si pone e pone è quasi spiazzante: “ Quale cultura può resistere a questo stato di cose? E dico “cultura” perché al fondo di tutta la questione che ho sollevato sta proprio questa parola, sempre decisiva, anche e forse soprattutto in un mondo globale e tendenzialmente omologante”. Mi tornano in mente le belle parole degli «Appelli» apparsi in questi giorni, spesso genuflessi alla buona occasione del virus pandemico ed anche le visioni pandemiche su un occidente malato e perduto (ad esempio: “la globalizzazione dell’indifferenza”). Scrive, invece, De Giovanni: “Dove dominano economicismo e finanze più un dispotismo di tipo nuovo, posato su una immane capacità produttiva e volontà di dominio [con le connesse teorie della “democrazia illiberale”] con la smentita di quello che fu giudicato, in altri tempi, il rapporto necessario tra democrazia e sviluppo economico, la parola “sinistra” può diventare ciò che si oppone a un dispotismo che acquista il peso che vediamo, sorretto da una potenziale egemonia globale, e se non serve a questo può anche essere abbandonata”. Per fare cosa? “ Bisogna mettere in moto nuovi anticorpi, dopo che la pandemia fa avanzare la Cina oltre ogni misura nel mondo: nessun ostracismo a essa, ovviamente, ma misura e cultura nel rapporto necessario. Difese e anticorpi ci sono, ma non fortissimi. Gli sbandamenti, clamorosi e non parlo dei nostri, italiani, su questo tema bisognerà tornare. Società e confini si chiudono, certo sotto i colpi dell’innominabile virus, ma dopo? Ha ragione Giuliano Cazzola nel contrapporre società chiuse a società aperte, e la parola “sinistra” può ancora poggiarsi su questa opposizione, e su una scelta decisa”. E, a questo snodo, lacultura incrocia la politica: “la condizione di questa possibilità sta anche nel cambiamento della sua storia originariamente classista, e nella sua capacità di ridar forza politica e sociale a quei processi di costituzionalizzazione sovranazionale e capaci di nuova eguaglianza, oggi come presi nella morsa del populismo anche da noi”. Il filosofo che guardava in faccia il «male» senza edulcurazioni, ora non disdegna di delineare una prospettiva, difficile e possibile: “La partita è difficile, si deve giocare su molti fronti, ma forse proprio la tragica situazione che ci attende potrà stimolare nuove classi dirigenti dell’Occidente, riunito e rivisitato, a trovare inediti strumenti di governo della vita comune, ridando significato a democrazie che si vanno inaridendo” [le considerazioni di Biagio De Giovanni sono tratte da: “Russia e Cina, le nuove destre globali (nate nella sinistra)”, Il Riformista 23 aprile 2020].

Gilberto Corbellini (professore ordinario di storia della medicina e docente di bioetica presso la Sapienza di Roma, con studi sugli aspetti dello sviluppo storico, epistemologico ed etico delle scienze biomediche) ci fa da ponte per tornare sul terreno proprio della scienza. Infatti “s’intende per epistemologia l’indagine critica intorno alla struttura e ai metodi (osservazione, sperimentazione e inferenza) delle scienze” (Dizionario Treccani). Perciò non ci meraviglieremo se esordisce dicendo: “La discussione sulla pandemia in corso sembra ispirata, come gran parte delle discussioni pubbliche su fatti di cui si capisce poco, a una tradizione molto importante e molto fuorviante del pensiero occidentale, espressa con formidabile efficacia dal buon Hegel: «ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale». Con questa dose di ruvidezza egli vuole ricordarci che: “La realtà è che questo virus è qui per restare fra noi, e ci farà danzare (come prevede il report dell’Imperial College) nei prossimi anni a ritmi che non conosciamo. Che nessuno è in grado di prevedere” (…) “Dai primi anni Novanta, è stata prodotta una letteratura importante sull’epidemiologia evoluzionistica (…) I virus non sono atomi, ognuno identico agli altri, la replicazione del parassita dipende dalle variazioni genetiche in competizione, dalle reazioni biologiche (immunitarie in primis) e dai comportamenti dell’ospite (anche indotti dal virus), nonché dalle misure sanitarie (anche queste in parte condizionate dal virus): le popolazioni virali evolveranno sulla base di caratteristiche come virulenza, infettività, patogenicità,etc. che risultino le più vantaggiose riproduttivamente. A seconda delle pressioni selettive o in ragione del caso, prevarranno localmente ceppi con diversi livelli di virulenza o con diversi tassi di riproduzione (…) Dunque, lo scenario è quello di un grandioso evento darwiniano (…). A questa ampia circolazione del virus che avviene sotto la guida del caso e della selezione naturale, all’interno dell’ospite avviene un altro processo darwiniano che è strategico evolutivamente, cioè la selezione clonale dei linfociti che rispondono al parassita. Il sistema immunitario, infatti, funziona sulla base di una logica darwiniana, come sappiamo almeno dal 1960 circa”. La funzione di “ponte” è efficace se i due mondi che con-giunge resteranno anche co-presenti: il darwinismo, infatti, è scienza ed anche una vision (filosofia). Gli fa eco Guido Silvestri (medico, professore ordinario di Patologia Generale alla Emory University di Atlanta; dal 2001 dirige un laboratorio di ricerca specializzato nello studio dell’infezione da HIV, di cui è considerato uno dei massimi esperti al mondo), che, muovendo però da una base fattuale di medico e ricercatore sul campo rifugge da apriorismi apodittici, pur essendo ben collocato come professione nel processo darwiniano. Afferma, pertanto: “Il modo in cui il sistema immunitario prende le sue decisioni è macchinoso, ma si può riassumere in queste poche righe: In medicina, come nella vita, non esiste una strategia vincente a priori; in alcune circostanze è meglio lottare, in altre è più saggio e lungimirante scende a patti. Prendiamo il caso dell’influenza, una condizione tanto comune quanto fastidiosa: ancora non sappiamo se il malessere che provoca è causato dal virus oppure da una reazione inappropriata del nostro sistema immunitario”. E mentre la evoluzione dell’uomo procede – con le tappe della indagine, dello studio, delle terapie, dei vaccini che lo affiancano – il suo sistema immunitario muta adattandosi; anche ad esso va riservato uno studio intenso, perché spesso dà prova delle «inappropriate reazioni». Il prof. Silvestri, aprendo l’ultimo capitolo del suo libro, premette questa citazione del Faust «…ma chi sei tu, allora? – Sono parte di quel potere che eternamente vuole il male ed eternamente produce il bene» (Guido Silvestri, Uomini e Virus – storia delle grandi battaglie del nostro sistema immunitario, 2020 – in vendita presso le edicole). Elena Cattaneo, della quale abbiamo in questi ultimi anni imparato a conoscere la alta preparazione scientifica, unita alla sua calda passione civile ha lungamente dialogato con Luciano Capone (Il Foglio, 27 aprile), ci traduce in linguaggio semplice il processo darwiniano, insistendo su queste due dimensioni: ‘l’idea di una natura benigna che ci offre abbondanza e protezione… invece è anche una costante minaccia’? – “La Natura non è benevola né malevola. Ogni specie biologica lotta per la sua sopravvivenza, tanto i virus quanto l’uomo. Il virus ci sfrutta proprio per sopavvivere. Dobbiamo difenderci dai rischi che nascono dalla natura e da 150 anni lo facciamo abbastanza bene, grazie al metodo scientifico e allo sviluppo economico”. Seconda dimensione: ‘a proposito del futuro, andrà tutto bene/ne usciremo migliori’? – “Ciascuno di noi uscirà con una maggiore consapevolezza della propria vulnerabilità. Spero che se ne esca anche con la consapevolezza del nostro privilegio di avere strutture sanitarie cha hanno lavorato al meglio delle loro possibilità. E con la cosapevolezza di dover coltivare la scienza in tempo di pace”. La professoressa Cattaneo che dirige il laboratorio di Biologia delle Cellule staminali e Farmacologia delle Malattie Neurodegenerative dell’Università di Milano, insiste (anche per accrescere le possibilità al cosiddetto “uscire migliori”) sulla necessità di liberarsi definitivamente da “narrazioni complottiste, catastrofiste e antiscientifiche, con correlazioni spurie e, spesso, fantasiose che ignorano tante variabili in gioco: ed ecco allora il legame (inesistente) tra Ogm e Covid, allevamenti intensivi e Covid, deforestazioni e Covid o quello non sostanziato e tutto da precisare tra percolato e covid”. Proprio sulla zoonosi è il caso di soffermarci un poco. Due studiosi della materia (Deborah Piovan e Roberto Defez) ce ne offrono la possibilità: “Allevamento e zoonosi si intrecciano molte volte nel corso della loro storia. Basti ricordare che (come scrive William McNeill, nel classico La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea) abbiamo in comune con i bovini una cinquantina di malattie, più o meno altrettante con le capre e le pecore, una quarantina con i maiali, ventisei con i polli: tutti animali che abbiamo iniziato ad allevare migliaia di anni fa. Con loro ci siamo evoluti, con le loro malattie abbiamo imparato a convivere e da esse a difenderci. È un evoluzione non solo strettamente biologica, ma anche culturale: l’allevamento fa parte non solo della storia del nostro sistema immunitario, ma anche delle nostre tradizioni culturali. L’influenza – termine non casuale – che esso ha avuto nello sviluppo delle nostre civiltà è innegabile. Non mancano scoperte scientifiche che possiamo attribuire alla nostra tradizione di allevatori: non per niente ilvaccino ha questo nome, perché scoperto grazie alla contaminazione fra allevatori e vaiolo bovino, è stato successivamente messo a punto e si porta ancora dietro quel nome” (Zoonosi: il caso e l’influenza).

Mi piace, anzi sono onorato, concludere, ascoltando le parole di un grande talento della creatività contemporanea, Michelangelo Pistoletto, un artista colpito personalmente da Covid-19 e guarito; anni 86. Ritrovo nei due binomi della sua geniale intuizione artistica: «Artificio e Natura», oppure come «Mostro e Virtù», gli intrecci e i crocevia che nel nostro percorso su “Natura e Storia nel tempo pandemico” abbiamo incontrato. Dice Pistoletto: “Questo virus è una cosa che sta a metà tra la Scienza e la Natura. Non sappiamo con certezza assoluta se questo virus sia stato sviluppato artificialmente o se abbia avuto un’origine spontanea. Ciò che dobbiamo capire è la necessità di venire a patti con la Natura, e soprattutto usare la scienza e la tecnologia per correggere qualsiasi cosa che porti deviazione rispetto a tale equilibrio. Bisogna impegnare tutti i mezzi scientifici e tecnologici per andare nella direzione di un equilibrio da ripristinare. Il simbolo «trinamico» è fatto di questi tre cerchi che possono essere letti come “Artificio” e “Natura”, oppure come “Mostro” e “Virtù”. L’importante è indirizzare tutta la capacità di creazione che l’uomo ha nella ricerca di questo equilibrio, rappresentato nel «Terzo Paradiso» dalla linea continua. Non so se l’arte abbia un ruolo speciale rispetto a quello che hanno tutti gli altri organismi che compongono la società. Ma è necessario che trovi il suo modo per contribuire alla realizzazione di questo terzo stadio dell’umanità. Non solo facendo dell’arte un momento di svago o di piacere. L’arte deve essere impegnata.”

E nell’equilibrio, non spocchioso o teorizzato, tra scienza, tecnologia, filosofia realizzato nel pensiero artistico di Michelangelo Pistoletto, che concludo questa modesta indagine. Non senza unirmi all’auspicio che Gabriele Pedullà formulava nel suo articolo: “probabilmente è ancora troppo presto, ma nei prossimi mesi dovremo chiedere di più alla pandemia, come parziale risarcimento per le tremende sofferenze e prolungati disagi che sta provocando”.

In apertura, un particolare della “Scuola di Atene”, di Raffaello Sanzio

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