Saperi

E fu così che si sentì un “Patatrac”

Libri per l'autunno 2023. Le onomatopee possiedono un'incontestabile scabra bellezza e, se padroneggiate, conferiscono alla pagina inusitati effetti d’eleganza. Per i parlanti comuni, ancora oggi, sono poco più d’una lallazione bambinesca, mentre la scrittura burocratica, tecnica o parastatale, nemmeno sospetta che esistano. Con l’obiettivo di colmare una grave mancanza nella lessicografia italiana, Luni Editrice ha recentemente pubblicato Patatrac, un vero e proprio dizionario interamente dedicato a tale figura retorica

Marco Lanterna

E fu così che si sentì un “Patatrac”

PATATRAC, inizialmente concepito per il centenario del Futurismo nel 2009, esce infine dopo tre lustri. Causa di tale ritardo è proprio l’onomatopea: materia prodigiosa, spaventevole, inesauribile, quasi fosse un oceano Tetide.

L’onomatopea, o fonosimbolo, è in primis il procedimento d’imitazione dei rumori mediante il linguaggio articolato e di seguito il prodotto finito di quel procedimento. Orbene PATATRAC è il primo dizionario della lingua italiana interamente dedicato alle onomatopee. Ne registra più di mille, oltre a nomi idee curiosità (da Charles de Brosses a John Wallis, da anarchia a pornografia), e colma una grave mancanza nella lessicografia italiana, la quale pur funse da modello all’Europa col Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612. Infatti, mentre nelle altre nazioni esistono già dizionari onomatopeici a iosa (i Francesi ne vantano addirittura otto, gli Inglesi tre, gli Spagnoli due, Tedeschi e Portoghesi uno), e nonostante sia la patria del fonosimbolico Futurismo, l’Italia giunge qui ultima. Questo è accaduto perché l’onomatopea è una specie di cenerentola della lingua italiana: il registro alto, o mediocremente colto, la evita come si evita di portare un bambino a una conferenza; gli scrittoroni l’aborrono, sentendo il ricorso all’onomatopea come un’abdicazione della loro arte, un alzar bandiera bianca; per i parlanti comuni è poco più d’una lallazione bambinesca; mentre la scrittura burocratica, tecnica o parastatale nemmeno sospetta che esista; sicché gli unici a sguinzagliarla sulla pagina sono i fumettisti e i bambinoidi.

Eppure non fu sempre così. L’onomatopea ebbe anche una sua breve, ma intensa, stagione letteraria ai primi del Novecento. Era, tra i ferruzzi dello stilista, uno dei più nuovi e vistosi. Cominciò di sguincio e in chiave antipurista nella Scapigliatura, poi misuratissima negli scampanii e frinii di Giovanni Pascoli; esplose quindi nel Futurismo, in particolare in Filippo Tommaso Marinetti (che nel suo Zang Tumb Tumb ne allinea centinaia, tributandole altrove altissime pagine teoriche) e in Luigi Russolo con la fondazionale Arte dei rumori; infine, precocemente invecchiata, ma ancora arguta, come una bella donna che conosce ormai le bugie dei poeti, parlottò basso nelle liriche giocose di Aldo Palazzeschi e nelle favolette di Gianni Rodari.

Oggi dell’onomatopea si appropria in prevalenza il fumetto con le sue sintesi visuali (da Walt Disney a Roy Lichtenstein), la pubblicità e il graffitismo che ne esplorano decibel e forza d’urto, certo canzonettismo sanremese, certo giornalismo ellittico-barricadiero, qualche giovane scrittorello.

Filosofi e linguisti da sempre guardano all’onomatopea come una delle possibili matrici del linguaggio, nonché fonte d’arricchimento delle lingue; mentre l’imitazione onomatopeica dei versi animali ne fa forse l’ultima lingua di Re Salomone, lingua ancora conosciuta da vecchi ornitologi come Paolo Savi o Alberto Bacchi della Lega.

PATATRAC registra voci sfuggite ai lessici più imponenti (su tutti il glorioso e monumentale Battaglia ovvero il Grande dizionario della lingua italiana in 21 volumi), esaltando dell’onomatopea il lignaggio letterario attraverso citazioni di autori lontani per ambiti o registri, come pure la ricchezza timbrica spesso inavvertita, sempre serbando però brio nelle definizioni, piccola mole, sapore antiaccademico-anarcoide.

L’onomatopea di solito entra nella pagina benpensante – quella che Carlo Emilio Gadda definiva “dell’uso piccolo borghese” – solo se posta tra virgolette o in corsivo, come divisa dal resto del discorso, quasi fosse un’alienata in camicia di forza. È fondamentalmente anarchica, asintattica, scardinatrice dell’ordine, giacché confina col rumore, la materia, l’elementare, l’incerto, dando voce a tutto ciò che non ha parola, al regno animale come all’inorganico. Essa sta all’estremo, in bilico, sull’orlo del senso. Inoltre è brutale, espressionistica, primitiva e forse primigenia nelle cose della lingua.

L’onomatopea è concentrazione, filtro, essenza, abracadabra, dinamite per pochi coraggiosi, ancorché chiunque possa fabbricarla: non può dunque essere rimossa per anemico intellettualismo o ipotensione culturale! Le onomatopee possiedono un’incontestabile scabra bellezza e, se padroneggiate, conferiscono alla pagina inusitati effetti d’eleganza: “Non è vero che non voglion dire / voglion dire qualcosa. / Voglion dire… / come quando uno si mette a cantare / senza saper le parole” (Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire!). Insomma PATATRAC – opera a un tempo di consultazione e lettura – vuole colmare un vero gap lessicografico, facendo finalmente calzare a quella riottosa cenerentola la sua scarpetta di regina.

In apertura, foto di Olio Officina©

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