Il contrasto tra bellezza della campagna e durezza della vita di chi la lavora
Dal 9 luglio è nelle sale italiane il film di Édouard Bergeon, "Nel nome della Terra". In Francia ha avuto oltre 2 milioni di spettatori, in Italia ha incassato finora meno di 4 mila euro. Semplice disattenzione dovuta al periodo estivo e alla fase critica immediatamente successiva al picco dell'emergenza Covid? Può darsi. Ma forse c'è di più: una distorta percezione dell'agricoltura e dei suoi problemi
Nel film di Édouard Bergeon, “Nel nome della Terra”, si racconta la drammatica vicenda di un giovane – orgoglioso della sua terra – che torna a gestire l’azienda agricola di famiglia. Dopo vent’anni di intensi sacrifici, è costretto però a soccombere di fronte alle sfide che si trova via via davanti.
Il contrasto tra la bellezza della campagna e la durezza della vita di chi la lavora è atroce. Il mestiere dell’agricoltore oggi richiede una mentalità imprenditoriale, che comporta il coraggio di raccogliere la sfida dell’innovazione. Una sfida che è fatta anche della necessità di contrarre debiti per costruire nuove strutture e acquistare macchinari sempre più efficienti.
Nell’opera di Bergeon, dedicata alla tragica parabola esistenziale di suo padre, si sente la rabbia impotente contro una concatenazione di avvenimenti che non lasciano scampo. Gli sbagli e la sfortuna hanno il loro gravissimo peso; ma ci sono anche responsabilità diffuse, se è vero come è vero che ogni due giorni un agricoltore francese si toglie la vita, impossibilitato a tirare avanti.
Nel film, si fa sentire l’assenza delle istituzioni, l’inefficacia delle politiche agricole; e si avverte, sospeso sulla vicenda, il lancinante dolore per le vite dei componenti di una bella famiglia (padre, madre, un figlio e una figlia) travolti da un destino maledetto.
Qualche anno fa, il sociologo Franco Ferrarotti, in un libro autobiografico (L’anno della Quota Novanta), racconta la sua triste infanzia, tra Palazzolo e Trino Vercellese, in un periodo terribile, quello della crisi economica che di lì a poco, nel 1929, sarebbe diventata mondiale, la “grande depressione”, il “grande crollo”. Mussolini annuncia la “battaglia della lira” (che in due mesi aveva perso il 18% del suo valore nei confronti del dollaro) per ristabilirne il cambio rispetto alla sterlina a “Quota Novanta”, una quotazione che la valuta britannica aveva segnato nel 1922, mentre nel luglio 1926 era giunta ad un cambio di 153 lire. La “battaglia della lira” ha successo, ma a costi umani indicibili: crescita esponenziale della disoccupazione industriale e chiusura di alcune centinaia di migliaia di aziende agricole. La crisi finanziaria del 1926 assesta un colpo mortale agli agricoltori, dagli agrari ai coltivatori diretti. Nel momento in cui il contante viene meno e occorre pagare i braccianti, e le varie imposte e i balzelli per l’acqua e la luce, le vie d’uscita per i capifamiglia, i “bread-winner”, come li chiamano gli anglofoni, cioè i procacciatori del pane, non sono molte. A parte la fuga, lasciandosi tutto e tutti alle spalle, mogli e figli anche in tenera età compresi, vale a dire a parte il farsi un padre fuggiasco, latitante, un “dead beat father”, oppure il darsi per sconfitto e il rassegnarsi a rateizzare il dovuto alle banche, indebitandosi e maledicendo banche e usurai per tutta la vita a venire, restano solo l’incendio della cascina e il suicidio.
Ferrarotti scrive: “A sera, per tutto il 1926 e gli anni seguenti, quelli della “grande depressione”, un odore di bruciato colpiva non solo le narici sensibili. ‘Udur ad brüsà’, dicevano le madri. La notte s’illumina a tratti, da mezza costa in collina, e per tutta la vasta pianura, di bagliori intermittenti, folate di fumo, crepitare di legno secco, paglia, sterpaglia, fieno. Si ode il lugubre muggire delle bestie, sempre più fievole, sotto le grandi travate, in lontananza, come flebili lamenti di chi sia stato sepolto sotto le rovine di un terremoto, sempre più deboli, fino al silenzio quasi irreale quando la morte ha vinto e il buio cala, tranquillo, a poco a poco, sulle macerie e sui sepolti vivi. (…) Caduti nel pozzo della miseria, oberati dai debiti, spesso taglieggiati dall’usura, gli agricoltori, pur di non cedere alle banche le proprietà su cui per generazioni le loro famiglie avevano lavorato, appiccavano il fuoco alle cascine, ai fienili, alle stalle… Si vedevano in lontananza cavalli correre senza mèta per i campi. Quasi vergognandosi, di nascosto, senza lasciare biglietti di spiegazioni – e che bisogno c’era di spiegare quando la disperazione era ormai endemica? – alcuni s’impiccavano. Era, per molti capifamiglia rovinati, incapaci di affrontare la transizione dalla prosperità alla povertà dignitosa, la soluzione preferita: silenziosa, discreta, attuata per lo più lassù, sul piano più alto del fienile; sistemata la corda ad una trave, il corpo, privo di vita, era destinato a cadere discretamente, senza rumore, sulla paglia. Operazione pulita, non fosse stato per lo sfintere, che si apre negli istanti convulsi dell’agonia e lascia libero tutto il contenuto della massa intestinale”.
Ebbene, racconti come questo che ho citato non sono ripresi dai nostri media. Si pubblicano solo le narrazioni fantasiose dell’agricoltura di una volta, bucoliche, felici, al “naturale” come il “mulino bianco”. Si diffondono solo le veline di Coldiretti coi nostalgici ricordi del “mangiamo italiano”. Si titolano le prime pagine dei giornali solo coi rapporti del Censis che proclamano: “L’87,9% degli italiani nel post Covid-19 pensa che l’agricoltura sarà motore per la creazione di nuovi posti di lavoro, anche per i giovani”. Naturalmente gli italiani non lo pensano, ma se lo dice il Censis perché non crederci?
Si spiega così la diserzione delle sale che danno “Nel nome della Terra”. Si legge la trama e non la si trova coerente con le narrazioni quotidiane dei media. Pochi fanno caso al fatto che il regista stia raccontando la storia vera della sua famiglia. E che può corrispondere a quella di numerosi agricoltori italiani.
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