Il delitto contro l’umanità del più furioso dei fanatici: l’estromissione della Russia dalla civiltà occidentale
La Federazione russa si è estraniata dall’Europa, e lo ha fatto attraverso le brutali prassi belliche che hanno invaso l’Ucraina. L’orrore che si è palesato davanti ai nostri occhi è avvenuto per opera di un despota che dei tiranni tartarici ne ricalca con orgoglio le gesta, nel più assoluto disprezzo delle norme che governano la società moderna
Assistiamo, ormai da due mesi, ad una guerra in cui una delle parti non ha fatto nulla per mascherare l’adozione di comportamenti che risalgono direttamente alla bestialità degli scontri, ordinari nell’antichità, al termine dei quali le schiere dei vinti erano annientate scegliendo, secondo le propensioni dei vincitori, una o l’altra forma di supplizio: crocefissi, impalati, o usati, per periodi più o meno ampi secondo un preciso computo economico, nelle miniere, allora autentiche caverne della morte, o in defatiganti lavori agresti, una pratica in cui eccelsero i nipoti di Romolo, le cui ammirate vittorie costituirono lo strumento per assicurarsi le folle di schiavi che di Roma avrebbero eternato lo splendore negli anfiteatri, negli acquedotti, nella prima grande rete stradale della storia.
Chi alle glorie di Roma abbia dedicato un’attenzione sufficiente sa che storici insigni sono stati concordi nell’identificare la causa remoto del tracollo del più solido impero della storia umana nell’opzione dell’aristocrazia senatoriale di utilizzare, congiuntamente, la distruzione dello scenario italico perpetrata da Annibale, lo scenario in cui Roma dominava mille e mille villaggi di contadini-soldati costretti all’alleanza (e al servizio militare), e della soggezione schiavile dell’intera popolazione di Cartagine, che consentì di utilizzare le sconfinate superfici spopolate per sostituire alla scacchiera di poderi di contadini liberi (ma soggetti a lunghe ferme militari) le immense proprietà coltivate da schiavi in catene definite villae perché dispiegate attorno ad un complesso di edifici che comprendeva stalle, magazzini ed una sontuosa residenza signorile. Siccome, peraltro, il nuovo sistema rendeva denaro, ma non riproduceva soldati, la conseguenza sarebbe stata, con aritmetica precisione, la sostituzione dei soldati contadini con mercenari ciecamente fedeli a generali che, impugnato lo scettro, si sarebbero dedicati, quale costume abituale, ad affidare al carnefice il fiore dell’aristocrazia senatoria.
La schiavitù fu soppressa dopo gli interminabili secoli di rigoglio nelle Antille e nell’intero Cotton (e tobacco) Belt americano (Thomas Jefferson, celebrato quale ideologo della democrazia americana, vanta i titoli di uno dei maggiori proprietari di schiavi della storia umana), secoli nei quali la Chiesa cattolica continuò a sostenere che la servitù umana costituisse espressione del “diritto naturale”, un’opzione che costò alla stessa Chiesa la perdita di autentica autorevolezza morale in tre continenti (le due Americhe e l’Africa).
Fu soppressa al trionfo della concezione dell’uomo propugnata dall’Illuminismo, l’esecutore dei cui principi deve essere riconosciuto in Lord Palmerston, il più cinico tutore della lucrosa supremazia britannica, che, a compiacere la nuova morale pubblica britannica ordinò alla marina che dominava, allora, gli oceani, di intercettare le navi dei mercanti di schiavi del cattolicissimo Portogallo, di ispezionare le stive dove, seppure nell’inseguimento il carico fosse stato gettato agli squali, era evidente cosa quelle stive stessero trasportando, il capo d’accusa in base al quale l’intero equipaggio, dal capitano al più giovane dei mozzi, veniva appeso ai pennoni, e la nave abbandonata alla deriva, monito ad ogni altro bastimento dedito al traffico che aveva arricchito Lisbona di sontuosi palazzi e di chiese stupende.
L’abolizione della schiavitù suggella una data essenziale nella storia umana, la data in cui la civiltà sancisce che tutti gli uomini sono uguali.
La civiltà, si deve precisare, nata dall’Illuminismo europeo, siccome nessun’altra, tra le grandi consociazioni umane presenti sul Planisfero, avrebbe mai proclamato un principio equivalente.
È necessario rilevare, peraltro, che il principio dell’eguaglianza degli uomini avrebbe conosciuto un’attuazione tanto lenta quanto geograficamente limitata.
Per oltre un secolo tanto un patrizio palermitano quanto un nobile fiorentino sarebbero inorriditi sentendosi equiparare ad uno dei propri metatieri, il primo, dei propri mezzadri il secondo, con l’unica differenza che, per una mancanza di rispetto, il primo avrebbe fatto informare il detentore del “potere” del villaggio che quel contadino era un insolente, un’identificazione che, secondo gli usi locali, ne imponeva l’eliminazione, mentre il secondo era a perfetta conoscenza che nei più pietrosi poderi di collina delle proprie, sconfinate, tenute i mezzadri erano costretti, per sopravvivere, a ricorrere all’usura, schiavi, quindi di un potere brutale, che il medesimo patrizio reputava legato intrinseco dell’ordine sociale.
Ma se l’abolizione delle schiavitù segna una data capitale nella storia delle istituzioni civili, si dimostrerebbe privo di ogni senso storico chi attribuisse ad un evento specifico, quantunque emblematico, il significato di svolta capitale della storia umana.
Se quell’evento sancì il riconoscimento della libertà e dell’eguaglianza tra gli uomini, quel riconoscimento ha conosciuto, nel corso della storia, cento espressioni di valenza diversa, dalle più embrionali alle formulazioni giuridiche di più luminosa lucidità etica e sociale.
La composizione di un panorama complessivo costituirebbe impegno esorbitante i propositi di queste riflessioni, ma anche limitando l’impegno ad annotazioni essenziali si può citare il monaco cinese Mo Tzu, che nella più lontana antichità proclamò i principi di amore per la creazione e di fratellanza tra tutti gli uomini la cui similarità al credo di Francesco d’Assisi non può non incantare.
Come non può non suggerire meraviglia l’amore per ogni creatura, umana o animale, predicato dal Gauthama, Budda, una predicazione di sublime levatura morale che orientò la vita in comunità fraterne di decine di migliaia di giovani uomini e di giovani donne, la similarità delle cui regole a quelle dei cento ordini monastici fioriti nei lunghi secoli di religiosità cristiana non può mancare di accendere ammirazione e di indurre alla riflessione sulla diffusione e la rarefazione, nel corso dei secoli, delle virtù umane
Il Cristianesimo rappresenta, inequivocabilmente, capitolo essenziale nella storia dei rapporti tra gli uomini.
Il suo proclama non consiste tanto nell’obbligo del rispetto dell’altro, ma dell’amore verso l’altro, anche se l’altro ti abbia offeso, e offeso ripetutamente.
E la caratteristica peculiare dell’insegnamento di Cristo deve identificarsi nel comando di praticare, nei confronti del prossimo, non tanto il rispetto quanto la disponibilità a sacrificarsi per lui, siccome “Non esiste amore più gande che dare la vita per i propri amici”.
Nei quasi due millenni che precedettero l’affermazione della società moderna quale società del welfare, non v’è dubbio che furono personalità accese dall’amore cristiano a costituire gli unici, allora, istituti di soccorso degli infermi, sottraendo migliaia di esseri umani all’abiezione che costituiva fato ineludibile di chi, indigente, cadesse ammalato e fosse costretto a mendicare, sulla strada, incombessero gelo o canicola, il boccone di pane con cui prolungare la propria abiezione.
A menzionare soltanto i giganti di un impegno cui si sono dedicate migliaia di anime appassionate, ricordo i coevi San Camillo de Lellis, italiano, e San Juan de Dios, spagnolo, accomunati dalla circostanza di avere affrontato l’impresa, al termine di una milizia che non li aveva arricchiti, nelle più crude situazioni di povertà, Ai quali non può non aggiungersi, in tempi successivi, l’incantevole personalità di una giovane aristocratica genovese, Caterina dei Fieschi, quella del soccorritore dei più miserabili tra i miserabili, Giuseppe Benedetto Cottolengo e, fulgida stella di anni ancora recenti, Madre Teresa di Calcutta.
Amore per l’uomo e rispetto dell’uomo non costituiscono, palesemente, cosa identica: non può proporsi come circostanza casuale, peraltro, che la società abbia assunto gli oneri dell’assistenza con impegno più determinato nei consorzi umani dove il soccorso alle condizioni di miseria era stato assunto, previamente, da volontari di professione cristiana, cioè nelle società europee.
Ho esordito, nelle prime righe di queste pagine, rilevando l’orrore dell’umanità intera di fronte alla brutalità della prassi bellica delle truppe russe che hanno invaso l’Ucraina.
L’assoluta estraneità di quella prassi ai canoni delle moderne società civili, sostanzialmente i canoni della società occidentale nata, da una fondamentale matrice cristiana, sul percorso, certamente contradittorio, dell’Illuminismo, impone di collocare la società russa, prona all’imperio di un despota che ricalca le gesta dei tiranni tartarici, nel disprezzo delle norme che nessuno statista che governi una società moderna oserebbe, quantomeno palesemente, irridere, impone di escludere la società russa dalla sfera della civiltà europea, per collocarla nel continente dei sultani arbitri della vita e della morte di ogni suddito, la sfera il cui epicentro si colloca, attualmente, in quella Cina in cui non un tiranno, ma una congrega di tiranni, si arroga il potere di governare il paese più popoloso della Terra imponendo ai sottoposti un regime che non può essere definito altrimenti che regime del lavoro forzato.
La Russia si è estraniata dall’Europa.
Date le dimensioni del Paese un fenomeno storico di rilevanza mondiale, che impone il drammatico interrogativo di quando e perché la frattura si sia compiuta.
Un interrogativo cui si impone una ed una sola risposta: l’impresa fu opera di uomini che un odio viscerale opponeva alla società europea, l’odio acceso dalle farneticazioni di un ideologo germanico che, reputando un orrore il meccanismo dell’evoluzione della società del suo tempo, il progresso economico fondato sull’impiego di capitali per utilizzare le scoperte scientifiche che profluivano, al suo tempo, dai laboratori chimici, fisici, microbiologici, britannici, francesi, tedeschi, offrendo al consumo una pluralità di beni di cui nessuna società precedente aveva conosciuto l’eguale.
Sulla base di un’antropologia puramente fantastica, il medesimo ideologo immaginò che gli imprenditori che, indubbiamente sospinti dall’interesse economico, utilizzavano, a proprio vantaggio, le scoperte scientifiche, si sarebbero impadroniti di ogni risorsa che le medesime scoperte avrebbero consentito di sfruttare convertendosi in dispotici signori della convivenza civile.
Sciaguratamente, le elucubrazioni del fantasioso pensatore tedesco accesero la passione di un discepolo dalle straordinarie doti di condottiero, Vladiumir Il’ič Ul’ianov, in arte Lenin, che approfittando, magistralmente, delle tragiche contingenze belliche, radunò schiere di seguaci che imposero il regime concepito dal sognatore tedesco per le nazioni in cui trionfava la rivoluzione industriale a una società composta da contadini e aristocratici che fruivano della ricchezza prodotta dai primi.
La rivoluzione accesa dal grande fanatico avrebbe trovato il duce militare in un autentico genio della guerra, Lev Davídovič Bronštejn , in divisa di comandante supremo Lev Trotsky, dei frutti delle cui imprese si sarebbe impadronito un uomo in possesso delle doti caratteristiche del despota orientale, il vero autore, nel corso di una carriera della cui durata pochi tiranni hanno goduto l’eguale, dell’instaurazione, in Russia, di un regime assolutamente originale nella storia umana, il regime comunista.
In assoluta fedeltà alle elucubrazioni dell’ideologo tedesco, un regime che estrometteva la Russia dalla koiné della civiltà europea.
Avrebbe seguito, in cieca fedeltà, le orme di Stalin, una sequela di successori che avrebbero considerato supremo onore alienare, quanto più radicalmente fosse possibile, la vita del popolo russo dalla secolare, universale fede cristiana, e, insieme dagli standard delle società “capitalistiche”.
Un impegno protratto, ciecamente, fino all’ultimo despota, la cui bestialità, nel proposito di privare di qualunque libertà una piccola nazione confinante, avrebbe imposto all’intero Pianeta la prova, indiscutibile e inoppugnabile, che i propositi di Lenin erano stati conseguiti: la Russia aveva realizzato l’assoluta estraneità, o, più propriamente, alterità, dal contesto delle società che si riconoscono, quanto si voglia tra ambiguità e contraddizioni, nel primato, in una società civile, della persona umana.
La vicenda di un grande paese che migra dalla civiltà dei parlamenti eletti dai cittadini all’emisfero dei despoti che governano mediante satelliti legati da vincoli di soggezione personale, è vicenda che, riconducendo quel paese agli standard civili dei tempi di Hammurabi e Assurbanipal, non imporrebbe annotazioni ulteriori, che induce a formulare, peraltro, il rilievo che essendo femmina, la verità può essere violata, e che a violarla non può mancare di cimentarsi la pluralità degli appassionati di argomentazioni storiche che della storia non hanno mai consultato una sola fonte, impegno faticoso, cui è certo di poteri sottrarre chi ami proclamare le proprie fantasie avendo verificato che un’assurdità colorita può suscitare più interesse di un’analisi storica ineccepibile, che impone, però, di confrontare ipotesi alterative, la scelta tra le quali può alimentare il tedio dell’uditorio che ami l’intrattenimento, non la costrizione a un faticoso impegno cerebrale.
Vergo la postilla metodologica per introdurre l’ultimo argomento che si impone a chi abbia svolto le riflessioni precedenti: la confutazione di chi possa obiettare, a quanto precede, che la Russia non sarebbe mai stata autentico segmento dell’Europa moderna: dominata da un’aristocrazia retriva, governata dalla corte di incapaci che avrebbe attorniato un sovrano schiavo di pregiudizi culturali e religiosi, il cui potere sarebbe stato esercitato da una burocrazia corrotta e incapace, ferocemente impegnata a tutelare i privilegi di un ceto patrizio avido e ignorante.
Il rilievo, che pure non manca di elementi di verità, può essere dissolto, senza difficoltà, su tre terreni diversi.
Il primo, quello della letteratura: l’Ottocento, il secolo che si concluderà con la Grande Guerra, preludio della Rivoluzione russa, è il secolo della grande narrativa europea, alla quale il contributo degli autori russi è di tale entità da rendere patetica qualunque comparazione.
Siamo adusi ad udire le espressioni di più incondizionata considerazione per la coeva narrativa francese, che, considerata nel proprio insieme, non costituisce che un’unica, monocorde e monotona, celebrazione dei fasti di una società la cui ragione esistenziale pare fosse costituita dalla mondanità, una società frivola, dove in cento salotti si ripetevano, perennemente identiche, le medesime vicende, amori, tradimenti, feste, feste, feste.
E, in poesia, il nulla: il migliore amico francese che abbia annoverato nella vita, marchese normanno di rilevante cultura, ripeteva, ironicamente “Le plus gran poète de la France a été Victor Hugo. Helas!”, “Il più grande poeta francese è stato Victor Hugo: aimé!”
L’Italia dell’Ottocento vanta un grande narratore, uno soltanto, che ha stilato un solo romanzo, la Russia ne vanta una decina, tra i quali almeno sei al sommo della storia della narrativa mondiale: Ivan Sergeevič Turgenev, Lev Nikolàevič Tolstòj, Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Anton Pavlovič Čechov , e, in poesia, Aleksandr Sergeevič Puškin, ognuno autore di una messe incredibile di opere, senza una sola caduta: ogni racconto vicenda unica, con l’adozione, per narrare quella vicenda, di canoni differenti da quelli impiegati per le opere diverse: si pensi alla prodigiosa diversità dei procedimenti narrativi dei due capolavori di Dostoevskij, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov.
Della messe delle opere, e del prestigio, nell’intero Paese, degli autori, costituisce deduzione ovvia, che, comunque è utile menzionare, l’immensa entità del pubblico che tale profluvio di volumi acquistava, lettori patrizi e lettori borghesi, un rilievo che rende ridicola, esso solo, la pretesa dei devoti di Stalin che hanno spergiurato che l’ingresso della Russia nel mondo civile avrebbe coinciso con il trionfo di Lenin & c., un’asserzione cento volte ripetuta dal più insigne vate della cultura francese degli anni Cinquanta, Jean Paul Sartre, erede legittimo del numero incalcolabile dei philosophes (un vocabolo che nell’uso parigino conserva legami assai labili con l’originario significato greco), che hanno ripetuto, per un secolo, gli scintillanti aforismi di Voltaire e Rousseau. Il secondo terreno, quello della scienza.
È rilievo scontato che la Russia zarista non vantasse istituzioni scientifiche comparabili a quelle francesi e tedesche.
Eppure la grande chimica dell’Ottocento, eminentemente francese e tedesca, con essenziali apporti britannici, costituiva edificio incompleto.
Scienziati francesi e britannici avevano moltiplicato il numero degli elementi noti, che costituivano scomposto coacervo, siccome nessuno degli scopritori che quegli elementi avevano, per primi, isolato e pesato, aveva immaginato che la loro molteplicità potesse essere ordinata in una classificazione rigorosa, la cui creazione fu opera di Dmitrij Ivanovič Mendeleev, professore a San Pietrogrado, che non disponeva di un laboratorio che consentisse le esperienze possibili a Huphrey Davy, a Dieudonné Boussingault e a Justus von Liebig (il von fu, per la precisione, acquistato da una zia, e mai pagato), ma che, studiando i testi dei colleghi tedeschi francesi, britannici, si stupì che, tra i cento e cento elementi scoperti, i predecessori non avessero stabilito alcun ordine, rifletté sulla circostanza, e, sulle scoperte dei colleghi, verificò che un ordine sussisteva, congegnando quella “tavola periodica” che assunse, immediatamente, il valore di presupposto imprescindibile di qualunque evoluzione degli studi chimici.
E fu un suo allievo, figlio di un pope, ma perdutamente devoto delle serate russe con balalaika e vodka a go-go, nel quale il maestro non aveva riposto la più tenue delle speranze, Vasilij Vasil’evič Dokučaev , che, lette le decine di testi prodotte da geografi e geologi tedeschi sull’origine del chernosem, la terra nera che caratterizza le immense steppe russe, si convinse che i risultati delle loro indagini fossero tutti inconsistenti, chiese gli fosse assegnato l’incarico di studiarla, la Società economica imperiale lo mise in grado di noleggiare una troika, il giovanotto percorse, frustando, migliaia di verste, presentò i propri rilievi al Professore, che organizzò la sessione per l’assegnazione del dottorato informando l’Europa intera che quella tesi proponeva le fondamenta di una scienza nuova, la pedogenesi.
All’autore della “tavola periodica” la scienza europea non mancò di prestare la più ossequiosa attenzione.
La sessione si tradusse nel trionfo della scienza russa: sarebbe stato sufficiente un pugno di anni perché, diffusasi la percezione che, affrontando l’esame dell’infinita gamma dei suoli del Pianeta, una tesi di dottorato avesse dischiuso le porte di un nuovo regno della natura, perché l’allievo di Mendeleev amante della vodka assumesse, nella sfera nuova, un prestigio comparabile a quello che il maestro aveva conquistato nel pianeta della chimica.
Il terzo dei grandi scienziati russi alla vigilia della Rivoluzione è il fondatore di una disciplina che, compendiandosi con quella inaugurata da Dokučaev, comporrà il corpus delle scienze del suolo, la microbiologia del terreno.
Serghiei Nicolaevič Winogradsky si era laureato in medicina a Mosca, e aveva intrapreso una prestigiosa carriera clinica, che non lo appagava.
Figlio di grandi proprietari nella fertile Ucraina, tediato dalla medicina si accese di passione per l’agricoltura, trascorse qualche anno quale conduttore del grande feudo di famiglia, dove si appassionò ai problemi aperti dalle cento indagini che, in Francia, in Germania e in Italia, avevano aperto le strade per trasporre l’agricoltura dalla sfera dell’empirismo a quella della scienza sperimentale.
Fu costretto ad abbandonare, repentinamente, la propria terra quando giunse da Mosca il “commissario del popolo” incaricato da Stalin dell’eliminazione di tutti i proprietari terrieri, con quelli maggior i contadini che, dotati di intraprendenza, fossero in grado, negoziando con abilità la propria parte, obiettivamente un’inezia, di quanto il loro lavoro avesse prodotto, accumulavano il denaro per acquistare due cavalli prestanti e un aratro metallico, un’espressione di attitudini capitalistiche che doveva essere eradicato, con l’eliminazione degli aspiranti imprenditori, prima che compromettesse l’edificazione della società socialista.
Il legato di Stalin demandato dell’epurazione sarebbe stato Nikita Kruscev, come tutti i gregari del Piccolo Padre un uomo con palesi propensioni allo sterminio collettivo, recentemente esaltato, dalla figlia, docente in un’università americana, quale “uomo di pace”.
Lasciata la ferace Ucraina, Winogradsky, spirito romantico, avrebbe insegnato medicina in paesi diversi, fino a quando, giunto a Parigi e conosciuta l’opera di Pasteur, all’Institut Pasteur avrebbe sperimentato le metodologie del maestro dell’Ecole Normale nello studio della flora batterica del suolo, il terreno, letteralmente, che ne avrebbe fatto il fondatore di una nuova scienza, alla quale avrebbe assicurato, nel corso di una vita di eccezionale longevità, una straordinaria serie di acquisizioni.
Ma registrando la fuga, dalla Russia comunista, di un gigante della microbiologia, abbiamo fissato una tappa ulteriore del distacco dell’immensa nazione dalla civiltà europea, nella quale gli scienziati sedotti dall’attrazione di nuovi maestri si spostano da un laboratorio tedesco ad uno canadese, in un periplo che non conosce mete definitive, siccome riconduce, con singolare frequenza, magari dopo decenni, lo studioso di talento a dirigere la grande istituzione dove aveva realizzato le prime, o successive esperienze.
Ma, ricordato lo scienziato che salvò la vita fuggendo dalla Russia di Stalin e Kruscev, dobbiamo registrare la vicenda di quello che, sospetto di eterodossia dai supremi poteri sovietici, venne fatto incarcerare, condannato a morire di fame e di freddo.
Non si tratta, neppure in questo caso, di un nome privo di rilevo, ma del maggior agronomo, genetista e geobotanico dell’intero Novecento, Nicolaj Ivanovič Vavilov, autore della prima classificazione, su base genetica, della composizione e delle peculiarità delle flore delle regioni diverse dell’intero Pianeta.
Denunciato a Stalin, dal creatore di una teoria genetica del tutto immaginaria, quale propugnatore di una scienza borghese, fu rinchiuso in carcere, per morirvi di stenti, nei giorni precedenti la partecipazione, in Inghilterra, a un congresso in cui l’intera genetica vegetale del Pianeta attendeva di udirne la relazione.
Assassinato Vavilov, la Russia inaugurerà l’assenza di qualunque nome di prestigio alle assise dell’intero novero delle scienze sperimentali, l’ultima, e definitiva prova del suo distacco dalla civiltà dell’Occidente.
A conclusione, peraltro, dell’esame della progressiva demolizione degli elementi che facevano della Russia parte essenziale della civiltà europea, reputo necessario smentire l’ultima leggenda immaginata da chi della Rivoluzione di Lenin pretende di proporre la giustificazione nella supposta arretratezza delle istituzioni pubbliche della Madre Russia.
Per dimostrarne la falsità invito chi pretenda di smentire l’asserzione a leggere le cinquanta pagine che Dostoevskij dedica alla narrazione del processo a Dmitrij Karamazov, nel racconto Mitja, uno dei protagonisti del proprio capolavoro, sottoposto a processo per l’assassinio del padre, che un servo ha ucciso nelle ore in cui simulava un attacco di epilessia che lo avrebbe escluso da ogni sospetto.
Seguiamo lo svolgimento del procedimento: interviene, dapprima, la polizia locale, che raccoglie prove e testimonianze, che trasmette all’autorità inquirente, la quale le consegna al pubblico ministero, che ne desume la colpevolezza dell’inquisito aprendo, formalmente, il procedimento.
Amici dell’imputato gli assicurano il patrocinio di un astro della professione, che giunge da San Pietrogrado suscitando grandi attese.
Il duello oratorio è appassionante, ma sono le cento imprudenze, e le cento apparenti prove disseminate da un uomo tanto irruento quanto temerario, a determinarne la condanna.
Un errore giudiziario. Ma un errore cui hanno prestato un contributo capitale le intemperanze del presunto colpevole, condannato nel quadro di un sistema giuridico che gli ha assicurato tutti gli strumenti per difendersi, dimostrando che la condanna ha preso corpo nel quadro di un sistema giudiziario che all’imputato, destinato ai lavori forzati in Siberia, ha garantito i mezzi per difendersi, riconoscendogli, inequivocabilmente, la piena, totale dignità di uomo.
Una dignità che non riconosce all’uomo, a nessun uomo, la società russa attuale, come non glie la riconosce il totalitarismo cinese, né alcun altro dei i sistemi dispotici che governano decine di paesi asiatici.
In ciò l’abissale differenza tra la civiltà dell’Occidente, che, tra cento incongruenze, mira al rispetto della persona umana, e le civiltà diverse, che ricalcano, nelle innumerabili varianti, le società in cui un sovrano, o i suoi legati, amministravano la giustizia secondo le convenienze, le amicizie, gli umori popolari (si pensi, caso emblematico, alla condanna di Pilato, che, per soddisfare la plebe, ordina che il condannato, di cui ha riconosciuto l’innocenza, prima di essere giustiziato sia, per dare pubblico spettacolo, ferocemente fustigato).
Chi scrive reputa di non poter concludere queste riflessioni senza proporre una domanda, che sa insolubile, ma che gli si impone con cogenza cui non sa sottrarsi.
Perché, si chiede, un manipolo di fanatici avrebbe stravolto la vita di milioni di uomini e donne per imporre regole di convivenza che la fredda ragione è obbligata a giudicare più primordiali, selvagge, di quelle che il medesimo manipolo pretese di dissolvere?
Una risposta “obiettiva” è, ne sono convinto, del tutto impossibile.
Ma l’autore di queste riflessioni crede nell’esistenza del Demonio, credenza superata, ne è perfettamente consapevole, che pare essere stata rigettata, ormai, persino dal Pontefice romano.
Ma il rigetto della pure incerta autorità delle norme di una società democratica, con la corrispondente opzione per una società soggetta ad un assoluto, incontestabile, arbitrio dispotico, pare, a chi scrive, opzione tanto contraria ai caposaldi, quantunque opinabili, della razionalità umana, da imporre il dubbio di essere dettata da una potenza oscura, in odio a Dio e all’uomo.
Il supremo comandanteTrotsky, ripeteva, ignoro quanto consapevolmente, il proposito supremo di Maximilien Isidore Robespierre, l’intento di “costringere gli uomini alla virtù mediante il terrore”.
Quale virtù può sussistere se imposta dal terrore? La domanda non può avere risposta.
È quantomeno legittimo, seppure nessuna risposta possieda la certezza della scienza sperimentale, che i due eroi fossero ispirati dal medesimo suggeritore. Blaise Pascal, sommo matematico, tra i primi teorici del calcolo probabilistico, proclamava che sui supremi interrogativi dell’esistenza non disponiamo di alcuna opzione diversa dalla scommessa.
Una scommessa le cui fondamenta probabilistiche sono tragicamente avvalorate, il giorno in cui suggello queste note, il 9 maggio, dalla celebrazione, nella Piazza Rossa, dell’anniversario della vittoria dell’Armata Rossa sull’avversario nazista, una celebrazione che si realizza nei giorni in cui oltre metà dei cittadini del Pianeta è costretta a riconoscere che l’esercito russo che sconfisse l’esercito di Hitler ricalca, nella strategia adottata per soggiogare una piccola nazione indipendente, fino ai dettagli più ripugnanti, la prassi che il medesimo esercito tedesco, praticò, bestialmente, nella propria campagna per assoggettare la, già sovietica, Madre Russia.
In apertura, foto di Olio Officina©
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