Il piattino
Narrazioni. È arcigno. Non ne vuole sapere. Mai rinuncerebbe alla inveterata abitudine dei due Loacker. Due. Non uno di più. Dice sempre, fra sé e sé: «Odio gli avanzi». Ma quel piattino che ritrova sul grande tavolo della cucina, con due o tre fettine di torta o con un biscotto particolare, quando si sveglia dal suo cupo sonno pomeridiano, oppresso da nubi nere, lo commuove
Ugo è molto vecchio. Solitario. Abitudinario. Stessi gesti, immutabili, nella sua vita vuota. Vuota come il suo frigorifero. Giusto le cose essenziali da mangiare. Sempre le stesse.
C’è chi provvede a comprarle. Qualche yogurt, mezzo litro di latte, una fetta di filetto, un po’ d’insalata. Poi a cucinargliele.
A fine pranzo una tazza di Nescafé. Insieme a due wafers alla nocciola. I Loacker. Due. Non uno di più.
Virginia viene a trovarlo il sabato. Quasi tutti i sabato. Non più giovanissima, quando entra in casa la sua voce chiama con entusiasmo: «Papà!».
È il segnale del suo arrivo. Una voce argentina che risuona per la casa vuota. Una voce che risveglia Ugo dal suo torpore. Una voce squillante che pure lui, che fatica a sentire, riconosce come quella della sua bambina.
Succede che per le festività (i morti, Natale, Pasqua) la figlia si fermi alcuni giorni.
La scatola di latta dei Loacker, allora, non occupa più il solito posto e viene lasciata aperta. Così pure quella dei grissini. Il barattolo del suo Nescafé spostato.
Il frigorifero riempito di cibi per lui impensabili.
«Sempre così quando arriva la Virginia» borbotta tra sé, quando vede quello che per lui è uno scempio. Per le sue abitudini. Per la sua solitudine. Per il suo modus vivendi.
Mangiano insieme, nei loro sabati. Lei parla. Lui ascolta distrattamente. Poi, come se niente fosse, se ne va a riposare.
Quando, al risveglio, rientra nella grande cucina Virginia non c’è più. È ripartita senza disturbarlo. È ritornata in città.
Tutti i sabati…
Ma c’è qualcosa in questa figlia, già madre e nonna, che non lo lascia indifferente.
Lui che è insensibile a tutto.
Lui che non ha mai pianto.
È il piattino.
Il piattino con gli avanzi di certi dolcetti che lei, nelle sue venute, non tralascia mai di portargli.
Ugo è severo. È arcigno. Non ne vuole sapere. Mai rinuncerebbe alla inveterata abitudine dei due Loacker. Due. Non uno di più.
Dice sempre, fra sé e sé: «Odio gli avanzi».
Ma quel piattino che ritrova sul grande tavolo della cucina, con due o tre fettine di torta o con un biscotto particolare, quando si sveglia dal suo cupo sonno pomeridiano, oppresso da nubi nere, lo commuove.
Pensa che ora è debole. Pensa una cosa per lui impensabile. Pensa che ora vorrebbe piangere. Piangere col pianto di un bambino. Ma i suoi occhi restano asciutti. Ugo non ha mai pianto. Forse non sa neppure come si faccia.
Il sabato successivo, mentre la figlia sta sistemando le sue cose prima di ripartire e ancora non ha preparato il piattino, va nel suo studio. Siede allo scrittoio. Con mano tremante inizia a scrivere.
Poi lascia questo biglietto sul tavolo.
Alla mia cara Virginia, che ogni sabato, col suo piattino, mi fa sentire un po’ meno solo e che, soprattutto, mi ha aiutato a piangere.
Sul piccolo foglio una macchia impercettibile. Umida.
Lo lascia lì, sulla grande tavola, pur sapendo che ugualmente, con fastidio, quando troverà gli avanzi dei dolcetti, getterà tutto nella spazzatura.
Lucca, 14 dicembre 2010
La foto di apertura è di Mariapia Frigerio
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