Saperi

La società occidentale al bivio del terzo millennio: splendore meridiano o ombre del tramonto?

Rinascimento in italiano, Golden Age in inglese, Siglo de oro in spagnolo, Age d’Or in francese. Sono tante le espressioni con cui si identifica, in nazioni diverse, la stagione storica nel cui corso circostanze favorevoli si siano combinate producendo risultati felici nella vita politica. E oggi, cosa accade nella nostra società? Dove stiamo andando? In quale direzione ci muoviamo?

Antonio Saltini

La società occidentale al bivio del terzo millennio: splendore meridiano o ombre del tramonto?

A ricordo di Maria D’Agostino, l’amica più cara,

salita in Cielo lasciandomi, sulla Terra, solo

 

Esistono locuzioni emblematiche, nelle lingue europee, per definire l’arco di tempo nel quale l’anima collettiva identifica un’età di singolare benessere, somma del soddisfacimento delle attese individuali, della fruttuosità del lavoro, della gradevolezza del riposo, e, parallelamente, della funzionalità dei servizi preposti ai bisogni collettivi. Istanze personali e urgenze comuni: le due sfere della vita che richiedono altrettanti orditi, tra loro complementari, di istituzioni e servizi. Se realizzata in termini funzionali, la combinazione degli elementi che si compongono nei due orizzonti assicura la serenità dell’esistere, quello individuale nel contesto di quello collettivo. Di quelle locuzioni menziono quella italiana, Rinascimento, quella inglese, Golden Age, gli equivalenti, nello spagnolo, Siglo de oro, nel francese Age d’Or, espressioni similari con cui si identifica, in nazioni diverse, la stagione storica nel cui corso circostanze favorevoli si siano combinate producendo risultati felici nella vita politica, in quella artistica, nella molteplicità delle contingenze dalla cui sommatoria prende corpo l’esistenza di ogni uomo e di ogni donna, ampliando l’analisi al contesto collettivo il benessere sociale. Gli esempi che propone la storia sono innumerabili: tra gli altri, quello di Milano, che nel Medioevo esportava manufatti metallici in misura tale da assicurare redditi considerevoli a fonditori e armieri, la floridezza per la quale la città volle esprimere la propria riconoscenza all’Onnipotente erigendo una cattedrale tanto ampia e tanto elevata da non temere il confronto con nessun’altra in Europa: sul pinnacolo maggiore la mi bela Madunina. Ringraziare la Madre di Dio per i successi dell’industria delle armi costituisce evidente paradosso, ma eliminare, dalla vita umana, ogni assurdità non è, verosimilmente, facoltà concessa all’uomo. Nella Gran Bretagna dell’età dei viaggi oceanici, il primato dei commerci internazionali riversava nella City montagne d’oro, che sarebbero state impiegate nella realizzazione di una rete di canali capace di moltiplicare gli scambi interni, sostituita, ai primi trionfi del vapore, dall’ordito ferroviario che avrebbe concretizzato la profezia del maggiore poeta nazionale: “Farò cose tali che… saranno la meraviglia del mondo!”.  La Francia della Ville Lumière, faro di luce planetario, associava ai proventi di narratori che non conoscevano trama diversa da quella di Lui, lei e l’altro, i titoli di patria dello scienziato che, con la scoperta dei microrganismi, aveva mutato le fondamenta delle conoscenze sulla natura invalse dai tempi di Eraclito e Parmenide, suggellando, col primato scientifico, una visione dell’interconnessione, tra scienza e vita cristiana, che avrebbe, con autorevolezza assolutamente incontestabile, qualunque possibilità di confutazione: la connessione che impone di attribuire a Louis Pasteur, oltre al titolo di creatore delle scienze biologiche, quello di sommo filosofo della conoscenza umana, ove si preferisca, di epistemologo.

Alla menzione dei successi di due nazioni civili non può non associarsi quella del Triumph, che sarebbe improprio definire col medesimo aggettivo, della Germania nell’industria dell’acciaio, il successo che, sconvolta la mente delle folle tedesche, le avrebbe indotte a farneticare del proprio destino a dominare, convertita una regione mineraria in scacchiera di acciaierie, die ganse Welt , l’allucinazione che avrebbe condotto die Deutschen, sedotti dai filosofi della lucida follia “idealistica”, e associato un alleato che, figlio di un lido di bagnini, si immaginò stratega navale, a sfidare il mondo intero, e, sconfitti ma non disillusi, a ritentare la prova, onerandosi, dopo la responsabilità della prima Guerra mondiale, di quella della seconda. A conclusione della quale l’entità delle distruzioni avrebbe indotto i paesi d’Europa a un impegno di pacificazione che, costituendo, ancora, a metà del Novecento, l’Europa il caput Mundi, avrebbe donato al Pianeta otto decenni di pace: ignorando le cento guerricciole locali il periodo di relazioni pacifiche tra le nazioni più duraturo dell’intera storia umana.

In quella lunga pace chi scrive ha vissuto la parte maggiore della vita: l’infanzia, la giovinezza, la maturità, i primi anni della vecchiaia. Bambino, aveva frequentato con assiduità le campagne, osservando la povertà dei contadini, dei quali aveva percepito, peraltro, l’impulso, nello scenario nuovo, a mirare a condizioni economiche meno grevi, delle quali avrebbe potuto constatare la realizzazione: l’essor dei mezzadri modenesi che lasciavano i medicai e la stalla per aprire, in città, la drogheria, i cui  banchi dovevano essere ricolmati da prosciutti e salami, pagati, in parte cospicua, con le banconote da diecimila, rosseggianti fogli delle dimensioni di pagine di quaderno, ricavate vendendo, negli anni di guerra, conigli e salami al mercato nero, e riposte sotto il materasso. E ricorda l’esplosione dell’edilizia: i barocciai che, raggiunto il greto del Panaro, ricolmavano, col badile, il carro di sabbia e, tornati in città, forse, in tutto, quattro ore, la scaricavano in un cantiere nel quale, mescolato l”inerte” alla calce, la malta sarebbe stata issata, a forze di braccia, fino al quarto piano. Una fatica che avrebbe avuto fine in tempi brevi: tra le elementari e le medie osservando, dai finestrini del tram che lo conduceva alla scuola, e all’aula dell’amata maestra, Beatrice Falzoni Macchiavelli, il lavoro nei cento cantieri, il bambinetto avrebbe constatato la sostituzione, alla forza delle braccia, di quella del montacarichi, che presupponeva la dilatazione della rete elettrica fino alle estreme periferie cittadine.

Alla conclusione, nel 1962, del liceo, Antonio sarebbe stato incantato dallo scintillio del sogno politico propugnato dallo zio Zeno, sacerdote e tribuno politico, negli anni precedenti assurto al novero degli astri del confronto sociale, dal quale era stato estromesso, per le intemperanze verosimilmente eccessive, dall’accordo tra il segretario di stato di papa Pacelli, sua eccellenza Giovanni Battista Montini, e il ministro degli Interni dell’onorevole De Gasperi, sua eccellenza Mario Scelba. Con i giovanissimi discepoli dello zio si era recato a visitare i “bassi” di Napoli e le “borgate” della periferia di Roma. Descrivere i primi, e le seconde, nell’anno del Signore 2024, a lettori di età inferiore ai sessant’anni, è impegno che sfida, ragionevolmente, l’impossibile: non crederebbero che, in paese “civile” tale miseria possa essere mai esistita: chi scrive può tentare l’impresa suggerendo il ricorso alle immagini, proposte e riproposte, nei mesi recenti, dalla televisione, dei campi profughi palestinesi, teatro di una lotta animata da un odio che non avrebbe mai arso nelle baraccopoli romane. Seppure non mancassero i facinorosi impegnati ad accendere, tra gli sciagurati che vi dimoravano, la fiamma della rivoluzione, era sufficiente, a dissolverne i propositi, che un funzionario di prefettura si recasse nella baraccopoli chiedendo ai poveretti le generalità, necessarie all’iscrizione nell’elenco dei futuri assegnatari di un appartamento nei nuovi quartieri di “case popolari” aperti a tutti i lati della metropoli. Vivere in una baracca non era certamente gradevole, ma, informati di quale fosse l’ubicazione del cantiere, era possibile, a chi subiva la penosa condizione, andare ad ammirare lo scheletro della palazzina, che si alzava di settimana in settimana: sapendo che il proprio appartamento sarebbe stato al quarto piano, i futuri assegnatari avrebbero accettato il prolungarsi dell’attesa, riconoscendo la necessità che i locali sottostanti possedessero la solidità necessaria a sostenere il futuro domicilio di famiglia.

Anche di fronte ad immagini inequivocabili, chi scrive è convinto, però, che, su cento ragazzetti nati dopo il Duemila, la metà, forse qualcuno di più, rifiuterebbe di accettare che in Italia sia mai esistita vergogna simile. Ignoro l’origine “architettonica” tanto dei “bassi” quanto delle “borgate”, di cui reputo verosimile, peraltro, collocare i natali tra le conseguenze della disfatta che aveva coronato la guerra che il Duce degli italioti aveva voluto condividere col caporale Adolf per spartire, dopo il trionfo, die ganse Welt. Costituisce dato storico che il partito di Togliatti Palmiro, palmipede rosso (rarità ornitologica), avrebbe operato il possibile, e tentato l’impossibile, per utilizzare le plebi miserabili, eredi coatte della sconfitta, quale invincible armada destinata a sgombrare il campo all’avvento della società “proletaria” illuminata dal “sol dell’avvenir”. Felicemente, la maggioranza degli italiani dimostrò di credere più veritiere le promesse dei luogotenenti di Alcide De Gasperi, accettando che chi prometteva case popolari non potesse consegnarne le chiavi il giorno dopo, per il dubbio, espressione di saggezza popolare, sulla veridicità delle asserzioni degli scherani del luogotenente di Stalin che proclamava la felicità della vita, a Mosca, nei caseggiati “del popolo”. Senza leggere le corrispondenze degli inviati che a Mosca erano stati, e la potevano descrivere, i popolani italici non credevano che nel paradiso collettivista fosse stato realizzato il sogno della felicità umana, non lo credevano senza la necessità di verificare che in quei caseggiati le famiglie si accatastassero, in ogni appartamento, tre a tre, condividendo l’unico bagno e la sola cucina. Figli di un popolo i cui membri avevano accettato, per secoli, le più grevi condizioni di povertà, vantando, però, di non essere “fessi”, il bidello e il barbiere italici dubitavano che nell’Unione dei soviet si ripetessero le condizioni felici della vita nell’Eden.

Dichiarando falsi i reportages del Corriere, l’Unità distillava le più sottili fandonie per convincere gli italiani degli incanti della vita familiare sotto lo sguardo corrucciato del “piccolo padre” Stalin, all’insegna di umanità, fraternità, solidarietà, ignorando l’ora di coda per godere, per cinque minuti, della seggetta del water, col coabitante che bussava, insistentemente, alla porta: seppure ascoltassero, con le lacrime agli occhi, Togliatti proclamare, in piazza, le magnifiche sorti, e progressive, di una nazione senza elezioni, il dubbio che la réclame nascondesse la coda per il water, gli italiani, tradizionalmente accorti opportunisti, non riuscivano ad esorcizzarlo. La recente diffusione, Urbi et Orbi, delle immagini della villa della Schlien, un edificio adeguato alle istanze di glamour della figlia di Berlusconi, conferma che nell’appartamento “collettivo”, coerentemente mancante di bidet, ma additato, dai predecessori falce e martello, quale sommo attingimento di ogni ideale di vita domestica, la signorina non ci sarebbe stata (soprattutto per la mancanza del suddetto gadget), mai e poi mai, neanche in fotografia.

Alle immagini delle conurbazioni della povertà, nella memoria di chi scrive si associano quelle, nei medesimi anni, della vita rurale, che non si sarebbero protratte per un anno soltanto, ma per alquanti anni in più: le decine di coppie di vacche impegnate nell’aratura, e di buoi nell’erpicatura, che si osservavano, scendendo o salendo, a lato del corso dell’Arno, la statale Umbro-casentinese, tutti i contadini, onninamente, con le pezze sul retro dei pantaloni e sulle ginocchia, e quelle della vita paesana, le donne ginocchioni, il giorno del bucato, al bordo del rivo d’acqua persistente, in piena estate, al centro del greto, a venti metri dalle ultime case di Pecorone, di Amelia, o di Lagonegro, dove nessuna famiglia possedeva, allora, la lavatrice. O la figura del contadino che sarchiava, dirigendo il mulo tra i filari, il suolo di pallido colore grigio, in un vigneto le cui uve si sarebbero convertite in quello che costituiva, allora, l’unico vino meridionale noto ai ristoranti del Settentrione, il Cirò. O, ancora, quella del vecchio che faceva ruotare, sulle spighe spagliate sulla piccola aia selciata, cerchio di diametro non superiore ai cinque metri, il bue sulla cui groppa sedeva, orgoglioso, il nipotino di cinque anni. Un ricordo che si associa al racconto del bambinetto, della medesima età, che sarebbe caduto in terra mentre il padre guidava le bestie a sospingere il carro a ritroso, ma che nessuno zoccolo, premura animale, avrebbe sfiorato.

Ricordi di ottuagenario, ricordi di un’Italia che si sarebbe dissolta, sostituita dal paese che avrebbe inondato di Seicento Fiat, di motocicli, Vespa o Piaggio, di lavatrici Candy e di tostapane G3 Ferrari, l’intero Pianeta. In tempi tanto brevi da indurre a proclamare che in quel paese si fosse realizzato un miracolo, il Miracolo, appunto, italiano, miracolo di cui nessun italiota avrebbe mai ricordato lo stratega finanziario, Ezio Vanoni, l’unico ministro italiano che, morendo, avrebbe lasciato la figlia Marina nella necessità di redigere, per qualche mensile, note di rubrica da 30.000 lire degli anni Ottanta: piatto di pasta e bicchiere di vino in “tavola calda”.

Ho rievocato il Miracolo, il termine che fu imposto dalla rapidità con cui l’industrializzazione italiana si era realizzata, una rapidità che nessuno avrebbe potuto prevedere, che nessuno avrebbe saputo, in termini tecnologici, spiegare. Miracolo, sarebbe stato proclamato, dai protagonisti, quale miracolo riconosciuto dagli osservatori stranieri, unanimi, seppure fieri i primi, invidi i secondi. Del miracolo i protagonisti  avrebbero beneficiato palesemente felici. Chi scrive, cittadino di Modena, patria dei bolidi più famosi del Pianeta, non può non menzionare la leggenda urbana delle code di magnati industriali, nazionali ed esteri, accampati davanti all’ufficio del Drake (per i concittadini orgogliosi il signor Enzo Ferrari, ingegnere honoris causa,) che avrebbe accettato, per pura cortesia, un anticipo astronomico per consegnare la berlina, se gli fosse stato possibile, entro un anno. Prodigi che avrebbero convissuto con la fama, in città, di uomo avido, spregiudicatamente cinico nei confronti dei giovanotti, tutti ricchissimi, che, stanchi di donne, cavalli e yacht, sfidavano, sui suoi bolidi, la morte. Con la mamma che, figlia di un Grande di Spagna, per baciare la salma raggiungeva, su volo personale, Mantova, dove il direttore dell’ospedale le avrebbe proibito la vista. E la leggenda che avrebbe asserito che, al rifornimento prima del rettilineo fatale, il Cavaliere avesse assicurato, al pilota col tempo migliore, che le gomme avrebbero tenuto, che, invece, sfortunatamente, sarebbero esplose. Il Cavaliere della morte che, morto il figlio di malattia scrupolosamente “segretata”, a premiare la sanità cittadina per le cure profuse, avrebbe offerto all’ospedale cittadino attrezzature futuristiche, che, chi avesse amici medici, li avrebbe sentiti sussurrare essere ferrovecchio di ospedali americani.

Per un popolo la cui massima aspirazione balneare era stata, per decenni, Riccione, costituendo, le vacanze all’estero, privilegio patrizio, il Pianeta intero si sarebbe convertito nel parchetto dietro casa per i “quattro passi” di ferragosto. Chi scrive fu inviato, in un’estate degli anni Ottanta, a studiare l’agricoltura dell’Europa settentrionale: in coda per Capo Nord centinaia di auto a targa italica. Più di un rotocalco popolare si era profuso, nel corso dell’anno, in reportages sul fascino delle coste illuminate dall’aurora boreale: nessun italico aveva potuto sottrarsi all’obbligo di fotografare il prodigio con la portatile Ferrania.

In uno scenario internazionale nel quale ha vissuto tutti i comodi della Pax americana, né le tensioni della Guerra fredda né i sussulti, più recenti, del confronto, meno freddo, tra due civiltà crudamente avverse, quella delle democrazie elettorali, quella che Karl Marx aveva definito, con disprezzo, il “despotismo orientale”, la tirannide alla quale, paradossalmente, proprio il suo Manifesto avrebbe fornito i suggerimenti per gli indispensabili aggiornamenti, il Bel Paese ha vissuto decenni felici. Felici perché nel benessere industriale l’italica gente avrebbe reperito il milieu ideale per praticare quello che costituisce il supremo imperativo dell’etica nazionale: ciascuno faccia quello che gli pare (l’espressione comune è alquanto volgare: non può essere trascritta) senza rompere le scatole agli altri. Al di là delle liti tra cummari che, data l’esiguità dei vicoli napoletani, potevano affrontarsi, nei fatidici “bassi”, con i manici delle scope, da finestra a finestra, gli italiani non sono litigiosi: ciascuno, per tradizione, fa gli “affaracci sua” senza importunare chi si stia dedicando ai propri.

Chi scrive è sedotto dalla supposizione, che non sa se professare come verità o rigettare come illusione, che la società italiana dei decenni a cavaliere della cesura tra il millennio concluso e quello corrente abbia sfiorato le mete dell’autentica società ideale. E, confida, non riesce a rigettare l’impressione che quell’equilibrio stia scricchiolando, o, più realisticamente, sgretolandosi. L’impressione si sta aggravando, esponenzialmente, in ragione singolarmente corrispondente al progredire dell’età del medesimo, che, avvicinandosi alla meta degli ottanta, ormai raggiunta, è stato costretto a misurarsi con la moltiplicazione di fastidi che non avrebbero, ritiene, mai importunato, vent’anni addietro, persona della sua età attuale. Primo tra tutti, il novero delle difficoltà, ormai quasi immani, nell’assolvimento di imperativo essenziale nella vita di chiunque: il reperimento di un medico. Scelto, da una pubblica lista, un dottore, chi scrive verificava essere, costui, tale Cavedani, il visetto di quindicenne che non abbia mai superato lo stadio adolescenziale, un assoluto inetto, interessato solo ad accrescere il numero dei pazienti inclusi nella propria inexistency list, del tutto indifferente alle loro necessità, che fingeva di soccorrere destinandoli a visite specialistiche delle quali evitava, fissando un appuntamento in data impossibile, di visionare i referti. Verificata la sterilità della prima scelta avrei tentato di porvi riparo con scelta successiva, scontrandomi con il dilemma di abbinare alla designazione burocratica il consenso del curante (più frequentemente della curante), del tutto eventuale, forse possibile, risultando impossibile, peraltro, conoscere previamente se costei godesse, digià, dei benefici della piena occupazione (pazienti totali, o maximum legale), nel quale caso sarebbe stata costretta a negarsi impietosamente, ciò che si sarebbe verificato in tutti i tentativi successivi. E la pazienza dei pazienti, o aspiranti al titolo, non è mai sufficiente: dopo dieci tentativi (più propriamente conati), cinque minuti di colloquio dopo due settimane di telefonate fallite, anche l’ultima dottoressa interpellata ripeterà di non poter accettare la designazione: la sua clientela ha toccato i limiti della legge e dei regolamenti attutivi. Come Diogene, che cercava un uomo, nell’agorà di Atene, impugnando, a mezzogiorno, la lucerna, ho affrontato, daccapo, l’iter nebulosum: esperito l’ennesimo, vano tentativo, ho ricusato ogni sforzo ulteriore. Non necessitando, felicemente, di cure continue, alle successive, non assillanti necessità ho telefonato alla dottoressa dei quaranta anni precedenti, Enrica Ferrari, che, pensionata, mi ha ricevuto il giorno medesimo, richiedendomi, data la banalità del problema, una parcella tanto ragionevole da doversi considerare espressione di amicizia. Fino al giorno in cui mi si sarebbe proposto, meglio imposto, problema non banale, per la soluzione del quale chi scrive è tuttora impegnato nell’emblematico, non agevole, confronto con le sabbie mobili.

Secondo una paradossale regola geometrica, una società che nega, con indefettibile determinazione, quanto sarebbe necessario, e il medico curante, nel lessico del millennio cestinato il “dottore di famiglia” tale è indubbiamente, pretende di erogare, con indefettibile pervicacia, il superfluo. Il sistema sanitario che non è più in grado di assicurarmi ciò di cui necessito mi impone, implacabile, servizi del tutto superflui. La direzione generale della Sanità pubblica della provincia di Modena ambisce, palesemente, al riconoscimento internazionale dei propri protocolli di indagine, prescrizione farmacologica e tutela del benessere collettivo: gli anziani debbono essere assistiti perché conservino, fino all’ultimo respiro, prestanza e allegria. Sottoposto ad una visita geriatrica prescritta, verosimilmente, a tutti i cittadini sulla base delle liste dell’anagrafe, chi scrive è stato invitato a una serie di esami assolutamente defatigante, e totalmente inutile.

La prima visita, una mattina, interminabile successione di test ossessivi: il paziente percepiva, con inequivocabile evidenza, che venivano indagate le sue capacità di reazione a stimoli standard, e che le sue risposte erano assolutamente inferiori a quelle in cui il medesimo si sarebbe esibito quando aveva quarant’anni di meno, la metà, cioè, dell’età attuale. Al termine della tortura i risultati non gli venivano, comunque, comunicati: sarebbero stati impiegati, secondo protocollo, per progettare esami ulteriori. Se, semplicemente, un’infermiera, senza scomodare un titolare di dottorato di ricerca, gli avesse chiesto cosa il medesimo potesse riferire delle proprie condizioni psicofisiche, lo scrivente l’avrebbe informata di avere rinunciato, non sentendosi più sicuro al volante, alla guida di un’auto, la notizia che, a chi scrive pare evidente, avrebbe costituito, per qualsiasi psichiatra, neurologo o geriatra, risposta tale da rendere inutili indagini ulteriori. Ma secondo la filosofia anamnestica della Saub modenese il paziente non è ritenuto in grado di fornire informazioni attendibili sulla propria salute, che devono essere desunte dai dati “obiettivi” rilevati da un’infermiera, non un medico, quanto si voglia specializzata (ove possibile, eventualmente, anche capace). Assicurare opportunità di lavoro a infermiera con congrua tessera di partito, non costituisce, verosimilmente, premura estranea alla gestione politica della vita sociale.

Il medesimo canone metodologico sarebbe stato diligentemente, se si voglia automatisticamente (letteralmente, eseguito da meccanismo automatico) applicato, alcuni mesi più tardi, quando, aggravatisi, repentinamente, e in forma preoccupante, i fastidi che i test della superinfermiera avrebbero già dovuto rilevare, Antonio Saltini, alzandosi dal letto, cadeva a terra, raggiungeva, con ambulazione quadrupedica, il telefono, chiedeva un’ambulanza, che, data la distanza modesta, lo consegnava, in dieci minuti, al pronto soccorso del Policlinico di Modena, dove un cortese inserviente lo forniva di seggiolone a rotelle. Dopo due ore veniva recapitato a dottoressa demandata, è dato supporre, della cosiddetta visita di accettazione, che la medesima, condotto il paziente in piccolo ambulatorio intraprendeva, interrompendola, dopo meno di cinque minuti, per rispondere a chiamata telefonica che la incaricava di compiti diversi, ciò che la costringeva (?) ad abbandonare il paziente nel loculo in cui lo aveva collocato. Solo dopo due ulteriori ore di attesa l’infelice sarebbe stato prelevato da nuovo inserviente, che lo avrebbe condotto in cameretta che alloggiava, già, un albanese che si sarebbe rivelato individuo dalle particolarissime doti di aggressività: in una convivenza che si sarebbe protratta, sciaguratamente, tre giorni, l’uscocco, la denominazione coniata, dai naviganti veneziani, quando dovettero guardarsi dalle innumerabili etnie di pirati balcanici, avrebbe percepito che l’infelice coabitante aveva seguito studi classici, ciò che ne accendeva l’ira patriottica contro la civiltà greca, la congerie sociale che studiosi tedeschi acciecati da assurdi preconcetti si sarebbero impegnati ad elevare al rango di astro supremo della storia antica, destinando all’oblio l’autentica cometa delle società vissute, nel succedersi dei secoli, sulle coste egee, che tutti gli elementi obiettivi avrebbero imposto di riconoscere negli Albanesi, gli impavidi pecorai i cui vanti architettonici, poetici, scientifici, sarebbero stati destinati all’oblio, per invidia e incompetenza, dai professori di Colonia, Monaco e Berlino, membri della nazione che porta, notoriamente, la responsabilità di tutte le nefandezza registrate dalla creazione del mondo in poi.

Era la mattina del 22 ottobre. Il tragico risveglio di Antonio si era verificato alle sette, la solerzia dell’ambulanza aveva consegnato il paziente al pronto soccorso alle 7,30.  Essendo, la responsabile dell’accettazione in tutt’altre faccende affaccendata, la visita preliminare del paziente sarebbe stata effettuata, da altro medico, il giorno successivo, il 23 (il numerale successivo al 22), ciò che avrebbe imposto, al medesimo dottore, di falsificare la data dell’accettazione spostandola, appunto, al 23: un falso, palesemente, di valenza pubblica. Il falso potrebbe avere particolare rilevanza penale. La prima visita, il giorno 23, avrebbe rilevato i sintomi specifici dell’ischemia. La pagina, su Google, dedicata alla medesima patologia, suggellata da uno dei più prestigiosi istituti neurologici italiani, il milanese Istituto Veronesi, spiega che qualunque attacco ischemico può produrre, se non curato tempestivamente, i danni neurologici definibili col termine di demenza: il ritardo di un giorno nella diagnosi costituiva, palesemente, un attentato alla salute mentale di Antonio Saltini.

Non possono sussistere dubbi che, posti alle strette dallo smarrimento dei superiori, medici di corsia e infermieri del policlinico modenese avrebbero potuto, potrebbero ancora, in circostanze processuali, fare barriera e confermare, giurando e spergiurando, che la data dell’accettazione di Antonio Saltini sarebbe stata il 23 ottobre, ciò che avrebbe innescato, e potrebbe, ancora, innescare, un processo degno della prima pagina: contro le menzogne che, promettendo ferie e premi di produttività, la dirigenza dell’ospedale modenese avesse potuto, o potesse, ottenere dai dipendenti, sussisteva, caso singolare, un ostacolo di difficile dissoluzione: la mattina dello shock Antonio Saltini attendeva, a Modena, l’amico più caro, fiorentino, avvocato, noto patrono in Corte d’appello penale e alla successiva Corte di cassazione (altrettanto penale), che, abbracciato Antonio, e dopo avergli fatto visita al pronto soccorso, avrebbe pranzato con conoscenti, riferendo a tutti dell’incidente in cui era incorso l’amico: un noto penalista aveva informato i commensali, il giorno 22 ottobre, della visita, al Policlinico, dell’amico comune che il medico di guardia avrebbe dichiarato, commettendo un falso, di avere visitato il giorno successivo: anche la ricevuta fiscale del ristorante avrebbe attestato che gli amici avevano pranzato con l’avvocato di Firenze, appena uscito dal Policlinico, alle tredici del giorno 22, non alla medesima ora del successivo giorno 23.

Sarebbe stato, inequivocabilmente, il giorno 23 che un medico del Policlinico di Modena avrebbe sottoscritto la dichiarazione di avere effettuato la visita di accettazione di paziente appena ricoverato per persona che, trasportata, da ambulanza (verosimilmente della registrazione del trasporto sarà stata comandata la distruzione), il giorno precedente, aveva atteso oltre ventiquattro ore per una visita di accettazione effettuata con un intero giorno di ritardo. Il falso ha palese rilevanza penale per la ragione, esplicitamente enunciata dalla pagina dell’Istituto Veronesi, che uno shock ischemico non affrontato tempestivamente può produrre esiti demenziali di diversa gravità.

Narrando, in questa pagina, la paradossale vicenda, Antonio Saltini dichiara di non essere stato sospinto a riferirla dal proposito di stigmatizzare la suprema inettitudine (oltre che la contraria, incontenibile, attitudine al falso in attestato pubblico) del personale, di ogni grado e (in)competenza, tanto del Pronto soccorso quanto del reparto in cui sarebbe stato, il giorno successivo, traslocato (con attestato di accettazione, in pronto soccorso, del giorno del trasloco, il giorno successivo, cioè a quello reale). Il personale, di ogni e qualunque competenza (o incompetenza) del Policlinico di Modena, sarebbe, in una disputa giudiziaria, onninamente compatto a fianco dei colleghi, dei quali chi scrive attenterebbe, malvagiamente, ad intaccare l’onorabilità. In primo piano quella del primario, che, interpellato, si può essere certi, assicurerebbe di avermi visitato, egli medesimo, per primo: verità inequivocabile, attestata, da documento pubblico, alla data del giorno 23, il giorno successivo, non a quella del 22, alla quale può attestare di avere accompagnato l’amico Saltini al Policlinico un illustre patrono di Cassazione penale, suffragato dagli amici con i quali ha pranzato, magari dalla collega che, mancando l’avvocato del dono dell’ubiquità, quella mattina lo dovette sostituire alla Corte d’appello fiorentina (circostanza palesemente attestata da atto della relativa cancelleria): un autentico drappello di testimoni in grado di attestare la data del mio ricovero. E se, peraltro, il medesimo professore, dottore, dottorino o dottorucolo, dichiarasse l’inattendibilità di questo appunto suffragando l’asserzione con la diagnosi della mia incapacità di intendere e volere, sarebbe, altresì, tenuto a riconoscere che i primi dubbi su tale incapacità avrebbero dovuto insorgere alla visita di accettazione, che un illustre avvocato di Cassazione penale è pronto a dichiarare avrebbe dovuto essere eseguita il giorno antecedente alla data (falsa) iscritta nel registro dei ricoveri del reparto.

Se la Provvidenza Divina abbia riparato (chi scrive lo verificherà trascorso ancora qualche mese), con la propria, somma benevolenza, alla successione di inadempienze amministrative, e di orrori ospedalieri, del lazzaretto modenese, a mostrare la propria gratitudine Antonio Saltini accenderà un cero in cattedrale, proponendosi, al possibile ripetersi di qualunque incidente alla propria salute, di riparare in clinica elvetica, l’opzione costituente, ormai, scelta universale di quanti, tra i concittadini, siano in grado di affrontare le spese del viaggio, dell’albergo e la fattura della clinica. Un’annotazione che chi scrive non può non integrare ricordando che nel corso degli anni Novanta, quindi in millennio non del tutto remoto, fratturatosi una gamba, un caro amico siracusano gli chiese di fissargli il ricovero in ospedale modenese. Essendogli, personalmente, amico, il primario dell’ospedale locale, in cittadina della provincia, lo aveva consigliato di evitare un intervento nel proprio istituto, dove, era costretto, a malincuore, a riconoscere, le condizioni di asetticità della sala operatoria non erano, propriamente, ineccepibili. Da Siracusa a Modena: la sanità modenese si sarebbe avvicinata, in tre decenni, alla costa nordafricana, accorciando le distanze di oltre un grado latitudinale, equivalente a circa 500 chilometri.

Alla migrazione sanitaria non è data, per non rimettere piede, mai e poi mai, in caso di malore, al policlinico modenese, che un’unica alternativa: quella di distendersi, serenamente, nel proprio letto in attesa di emettere l’ultimo respiro. Esalare l’anima in serenità sarebbe sogno impossibile, peraltro, nel principale ospedale modenese, non solo, è obbligo aggiungere, per le deficienze sanitarie, ma anche per la sussistenza, ad integrarle, del più fastidioso complemento sonoro, il frastuono che può essere identificato aggiustando il noto “a uno squillo risponde etc.” nella versione “a uno strillo risponde uno strillo”, il gracchiare delle infermiere impegnate, per comunicare una all’altra, a superare i decibel degli strilli delle colleghe. Annoto, per inciso, di essere stato sottoposto, nel medesimo policlinico, nel millennio archiviato, da due primari di eguale fama, il professor Fabio Catani, ortopedico, e il professor Alberto Brombin, oftalmologo, e di avere scambiato, con i medesimi, nel corso di entrambe le visite, annotazioni cortesi nel più assoluto silenzio delle assistenti, pure operosissime. Il confronto mi ha obbligato a desumere che i medesimi avessero, come, immagino, facessero i colleghi del tempo, spiegato alle ragazze che in corsia, come nell’insieme di un complesso ospedaliero, deve regnare il silenzio, siccome la comprensibile, legittima, propensione di creature femminili in giovane, o giovanissima età, ad esprimere vitalità e gaiezza, può essere appagata in luoghi alternativi, il campo di bowling, la discoteca, il parchetto dove si conduce il bassotto ad annusare un fox terrier dell’altro sesso.

Ma alla rassegna che ho tratteggiato, nelle pagine precedenti, dei sintomi, poco o tanto precoci, del decadimento, o, in termini più pessimistici, del collasso, di una società che aveva conseguito traguardi di benessere altrettanto ragguardevoli sul terreno civile quanto su quello economico e su quello culturale, altri se ne possono aggiungere. A chi abbia unito, alla professione di giornalista, l’impegno ad indagare le vicende del passato, sulle quali chi scrive ha stilato più di una rievocazione, non mancano, ragionevolmente, i terreni diversi sui quali estendere l’analisi. Un computo quanto si voglia semplificato suggerisce l’utilità di menzionare, a proposito, che la redazione di una pagina di riflessioni storiche, scientifiche o altro, debba essere preceduta dalla previa lettura di dieci pagine di “fonti”: la piccola biblioteca di libri a mia firma che lascerò ai possibili, eventuali, lettori, presuppone l’impiego di un numero di volumi, prelevati dalla libreria di casa, o dalle scansie di biblioteche pubbliche, palesemente ingente. Centinaia di volumi, migliaia e migliaia di pagine, complessivamente una biblioteca “virtuale” di dimensioni cospicue, in grado di offrire i testi implicitamente usati anche nella redazione di queste riflessioni. Tra i quali dovrebbero annoverarsi le opere di Agostino di Ippona, Tommaso d’Aquino, Roberto Bellarmino e Ludovico Antonio Muratori, di Charles Louis de Montesquieu, Immanuel Kant, Theodor Mommsen, Adam Smith, Edward Gibbon, Enrico Poggi e Costantino Mortati, gli autori che, entro gli orizzonti delle mie letture, hanno dedicato le pagine più significative all’arduo, appassionante tema delle metamorfosi succedutesi, in ogni società umana, al procedere dei decenni, dei secoli e dei millenni: conquiste e cadute, rinascimenti e decadenze.

Alla ricerca di risposte agli interrogativi sulle ragioni del deterioramento, supposto o obiettivo, comunque significativo oggetto di queste riflessione, degli assetti civili della società in cui ha vissuto nei decenni di sutura tra i due millenni, chi scrive reputa si debba assegnare un ruolo precipuo, seppure sia arduo asserire se prioritario, alla sostituzione, all’opera dell’uomo, dell’operare di apparecchi automatici, una sostituzione intrapresa nella certezza, obiettivamente fondata, degli ingenti benefici economici conseguiti, con la medesima sostituzione, negli ultimi cinque, sei decenni, con ricadute persino prodigiose in tutte le sfere della vita sociale, ricadute che hanno consentito alle società dell’Occidente di moltiplicare, esponenzialmente, le opportunità, i comodi, i benefici, a vantaggio dei cittadini, a costi singolarmente modesti rispetto a quelli richiesti, per benefici assimilabili, in ogni epoca del passato. L’erogazione di servizi e opportunità a intere popolazioni, per di più in paesi molteplici, è stata assicurata, nei medesimi decenni, da organismi economici non costituenti tanto imprese singole quanto conglomerati di società in grado di assolvere a finalità complementari. Chi scrive non possiede le competenze necessarie a descrivere natura e ramificazioni degli organismi, pubblici e privati, che compongono, integrandosi, i grandi settori di un’economia moderna, quello meccanico, quello degli strumenti di cura, quello delle costruzioni, quello alimentare, costituenti, tutti, sistemi orbitali, ciascuno comprendente una pluralità  di satelliti in possesso di una propria, maggiore o minore autonomia, condizionata dalla capacità delle entità di peso maggiore di assumere un ruolo preminente. La constatazione induce, peraltro, ad avanzare una supposizione: che nella competizione per la supremazia siano favoriti gli organismi che, in ciascuno dei contesti considerati, assolvano ai compiti dell’informazione e della comunicazione, i giganti, quindi, che governano i procedimenti informatici, i soli ad essere in grado di rendere quelle tecnologie sempre più efficienti, quindi più complesse, e, necessariamente, più esclusive.

Chi scrive ha letto gli scritti dei teorici politici dell’Ottocento che paventavano la costituzione, da parte dei titolari dei grandi trust industriali, di oligopoli capaci, per la preminenza esercitata sui flussi di denaro, di soverchiare anche il potere dei governi nati da libere elezioni, l’allarme che ha prodotto l’abbandono del sistema elettorale in tutti i paesi dell’area comunista, dove fanatici ossessionati da una comprensione quantomeno fuorviata della realtà, hanno costretto popoli al tempo civili a prevenire catastrofi immaginarie innescando catastrofi effettive, tanto tragiche quanto irreparabili, che avrebbero potuto essere scongiurate, verosimilmente, applicando, con rigorosa razionalità, le regole della democrazia. Karl Marx avrebbe, essenzialmente, proposto l’abolizione delle libertà civili per impedire che le medesime libertà potessero essere compromesse, o eradicate, da potentati economici che avrebbero potuto sopraffarle, che non le avevano, però, ancora sopraffatte: impavido medico di disturbi sociali, avrebbe decretato che il rimedio più efficace contro la faringite sarebbe stata l’eutanasia, che, insieme alla faringite avrebbe eliminato una pluralità di (potenziali) affezioni diverse: una prognosi teoricamente ineccepibile, viziata, peraltro, dall’inosservanza del primo postulato della precettistica medica, mai smentita, di Ippocrate, ”primum non nocere”.  Palesemente affetto da paranoia, il farneticante tedesco non avrebbe, mai e poi mai, accettato che alla cura del paziente si potesse procedere con palliativi meno che radicali: abolendo, tout court, la democrazia, si sarebbe scongiurato, palesemente, che la democrazia potesse, mai più, presentare qualche difetto.

Impiegando, quindi, il criterio enunciato nell’introduzione a queste pagine, non mi pare confutabile che l’acquisizione di un’autorità sempre maggiore possa indurre chi possieda risorse di ingegno, e si impegni ad usarne per moltiplicare il proprio potere, finanziario o politico, o, più comunemente, il compendio di entrambi, ad aspirare, come l’immortale caricatura di Adolf Hitler nella parodia di Chaplin, alla conquista del mappamondo. Chi vanti, nel planisfero delle democrazie, i titoli di primo tycoon del più ricco , o di uno dei più ricchi, paesi industriali del pianeta, si chiami Silvio Berlusconi, Elon Musk o Donald Trump, personaggi assimilabili seppure essenzialmente diversi, può conquistare il titolo di premier della nazione e produrre, nel corso del mandato, i danni peggiori, ma il suo stesso successo, il prestigio, la ricchezza che avrà accumulato, e di cui avrà fatto partecipi amici e congiunti, valga l’esempio di Bettino Craxi e del compare, il cavalier Berlusconi, accenderà l’invidia di cento e cento ometti incapaci di conquistare il posto di direttore dell’ufficio postale, al comando di tre impiegate, susciterà altresì la cupidigia di chi, dotato della medesima tempra, non si struggerà nella bramosia per l’ufficio in vetta al grattacelo, o per il panfilo rilevato da una famiglia regnante, si chiederà, piuttosto, come abbia fatto l’altro ad arrivare, e, essendo più giovane, accenderà la cupidigia di altri giovanotti, che inquadrerà per gettare, ai piedi del nume in trono, il guanto della sfida. Potrà vincere o perdere: confermerà, in ogni caso, la legge per cui il potere non può mai essere conquistato “una volta per sempre”: alla roulette si può vincere, ma anche perdere. Napoleone aveva fatto prigioniero un Papa, dal quale aveva preteso di essere incoronato, togliendogli, però, la corona dalle mani e ponendosela, lui medesimo, sulla testa: chissà se abbia ricordato il gesto superbo sbarcando, dopo trentanove giorni di navigazione, sull’isolotto dove lo avrebbe condotto un capitano dotato di britannico humour, poco più di uno scoglio, che si sarebbe rivelato, alternativamente, troppo umido o troppo riarso, dove l’Empéreur avrebbe dimorato, con comprensibile noia, per gli ultimi sei anni della vita, prematuramente finito, è dato supporre, dalla noia medesima.

Effettuando, peraltro, la rilettura di questo testo, stilato alcune settimane addietro e già, più di una volta, attentamente riletto, posso aggiungere integrazione che reputo non priva di significato che mi suggerisce la cronaca di questa mattina, informandomi, al suono di pifferi e tamburi, dell’evento che trionfa sulle prime pagine di tutti i quotidiani del Pianeta, la caduta dell’ultimo magnate che si era proposto all’opinione mondiale in veste di semidio. Ho sempre osservato, nei mesi recenti, il volto di Helon Musk, stupito dal sorriso, che mi ricordava quello del più famoso simulacro del mondo pagano, la statua crisoelefantina di Apollo disposta nel tempio del medesimo nume a Efeso, sulla costa asiatica dell’Egeo, simulacro distrutto in tempi cristiano, lasciando, peraltro la fama dell’espressione di un volto promanante la serena consapevolezza della suprema natura divina. Cento ritratti, verosimilmente eseguiti dai più famosi fotografi del Pianeta, mostravano un volto che esprimeva, appunto, la sufficienza apollinea della propria condizione divina, la medesima certezza di quella condizione che esprimono i cento, e cento, volti degli imperatori romani, scolpiti, come prototipo, da grandi maestri, replicati, da cento copisti, negli esemplari che la flotta la messaggeria imperiale avrebbe distribuito, tra Cadice ed Efeso, a tutti gli scali del Mare Nostrum.

Non si può non condividere la valutazione, unanime, dei commentatori, egualmente convinti  che la fortuna del magnate sudafricano non corra, ragionevolmente, alcun pericolo: ha licenziato quattordici migliaia di dipendenti, ma il libro paga della ditta ne annovera, ancora, ancora, decine e decine di migliaia, e i suoi assets comprendono proprietà estese come intere regioni italiane, conti bancari dell’entità del tesoro di un paese di medie dimensioni, complessi industriali tra le cui propaggini ci si sposta in elicottero, ma il nume è caduto, e il tonfo è stato percepito dal mondo intero. Un dio non cadere: mai! Perché chi cade dimostra di non essere dio. Dimostra che la sua divinità era millantazione, mera, risibile millantazione. O, piuttosto, vanagloria: la vanagloria in cui cadde, successivamente, più di un nume autoproclamatosi tale: Alessandro, condannato a morte orribile dai propri generali, che rifiutavano di proseguire le conquiste senza fine, oltre l’ossessione, lasciando alle spalle il sole calante, Giuliano, imperatore di Roma che sbarcò in Oriente per sottomettere la Persia, certo del supporto degli dei dell’Olimpo, che avrebbero sostenuto il sovrano che ne aveva ripristinato  il culto riparando alla vergogna del predecessore che si era inchinato al simulacro di un santone giudeo punito dal proconsole romano. Certo del sostegno di Marte, per inculcare, nei soldati, l’imperativo che, per la gloria di Roma, si dovesse “vincere o morire”, ordinò, allo sbarco, di incendiare la flotta, per essere trafitto, al primo scontro, da un giavellotto persiano, e gridare, a maledizione dei numi nei quali aveva confidati “Viciste, Galilee!” Erede dell’imperatore romano, quello francese, Napoleone, irrise la prudenza dei consiglieri che avevano rilevato che, perduta la guerra sul mare, fosse temerario, per impedire gli scambi navali tra l’Inghilterra e la Russia, immaginare di soggiogare la seconda con fanti, cavalli e cannoni, sfidando il Generale Inverno con il quale il generale dello Zar, il grande Kutusov, avrebbe stabilito un’alleanza invincibile. Come sarebbe stata invincibile quella che l’emulo, che non è decoroso comparare allo stratega dello Zar,  Josif Stalin, avrebbe ricalcato annientando, a Stalingrado, la furia teutonica scatenata dal despota nazista, con il quale aveva concordato, in precedenza l’alleanza suggellata  dai  rispettivi emissari, Joachim von Ribbentrop e  Vycheslav Molotov, la cui cordiale intesa non avrebbe consentito al mandante del primo di condurre proficuamente la guerra intrapresa con le pretese di conquista che sarebbero state coronate dalla distruzione di intere città tedesche, convertite in distese di macerie dagli stormi di Boeing B-17, le Flying Fortresses, decollati dall’odiata Albione, nell’apocalisse in cui trombe, corni e tamburi avrebbero levato al cielo le drammatiche sonorità nell’opera emblematica del paganesimo teutonico, Der Götterdämmerung, il crepuscolo degli dei.

La pretesa di immortalità che entità umane, quindi mortali, abbiano ritenuto di conquistare con scelte intonate alla più furiosa sete di conquista può essere commisurata alle opzioni di assai maggiore razionalità, di protagonisti della storia di assai più decorosa memoria, seppure anch’essi ostili ad ogni riconoscimento, al di sopra della sfera umana di poteri, autorità, norme di autorità superiore. Può, a proposito, menzionarli la dichiarazione emblematica memoria di un supremo paladino della democrazia, lord Churchill, al quale l’intera società occidentale è debitrice della salvezza dalla teutonica furia nazista: amava, il grande Briton, motteggiare sulle virtù cristiane proponendo una domanda: ”Ma dove volete arrivare, nella vita, se non siete egoisti?” Un quesito che lo avrebbe consegnato, al termine dell’avventura sul globo terracqueo, che aveva dominato in ossequio all’imperativo “Rule, Britannia, rule the waves”, al funerale sull’affusto di cannone, i regnanti al seguito della bara, presenti i giornalisti del mondo intero, quando sarebbe stato in grado di dare, all’interrogativo escatologico, la più congrua risposta, nell’assenza, nella circostanza, di qualunque facoltà di profferirla.

Non è mancato chi, ricalcando i timori ottocenteschi sulla possibile conquista del potere politico da parte della grande industria, abbia avanzato timori omologhi, per il tempo futuro, candidando al domino planetario le multinazionali dell’informatica. Non v’è dubbio che la presenza dell’informatica in tutte le sfere dell’operare umano stia dilatandosi esponenzialmente, e che, migliorate efficienza e funzionalità, stia trasondando con l’occupazione di spazi sempre nuovi, dai quali vengono espulsi gli operatori che, dotati di due organi prensili, possono essere denominati semplici entità manuali, o manovali. Applicando, peraltro, al settore di recente creazione, il suggerimento del più illustre maestro di logica del Medioevo, il grande Aquinate, che consigliava “distingue saepe”, distingui una cosa dall’altra, credo sia opportuno differenziare le conseguenze storiche del trend da quelle più semplicemente immediate, o, se si preferisca, pratiche.

Piuttosto, quindi, che immaginare gli effetti che il fenomeno potrà produrre nella sfera collettiva, che possono costituire, attualmente, oggetto di attraente, ma astratta speculazione, pare più agevole, e, verosimilmente, più utile, tentare l’esame di quelli che già si rivelano nella vita quotidiana, la comune ordinarietà. Lasciando, quindi, ai futurologi, professione di incerte sicurezze, l’indagine della prima sfera, ritengo che un esame, quantunque preliminare, della seconda, imponga una premessa che non credo banale quanto potrebbe apparire: la precisazione dell’età dell’indagatore. Avendo compiuto ottant’anni, chi scrive riconosce la sussistenza di un’autentica faglia continentale tra sé e gli appartenenti alle ultime, o ultimissime generazioni. Essendo stato tra i primi cronisti a sperimentare il computer in redazione, erano gli anni a metà dell’ottavo decennio del Novecento, ricorda che l’apparecchio delle prime esperienze non fosse, in realtà, che una versione del congegno precedente, cui erano state aggiunte alcune funzioni nuove: una macchina da scrivere perfezionata. L’Olivetti, costruttrice di macchine per scrivere eccellenti, aveva tentato la strada nuova, sulla quale avrebbe sbandato fino a deragliare. Il numero delle funzioni che i primi computer aggiungevano a quelle della macchina da scrivere era, invero, alquanto limitato, il passaggio, per chi lo affrontasse, era il salterello per varcare un piccolo rio: scendendo a valle quel ruscello si sarebbe convertito in autentico Danubio, o Mississippi, rendendo il varco alquanto più arduo. Essendo, per gli ovvi impulsi alla dilatazione del mercato, il computer penetrato anche nel parco giochi dei bambini, da tre decenni, da due in modo assolutamente pervasivo, i piccoli, addirittura i piccolissimi, avrebbero appreso ad usare l’informatica come, al tempo dei miei dieci anni, io ed i coetanei ricercavamo la pagina dove collocare, nell’album acquistato all’edicola, la figurina del serpente boa. Giunti ai vent’anni, i bambini attuali potranno impiegare un computer con destrezza incomparabile a quella di chi, come chi scrive, ha dovuto familiarizzarsi con il congegno a quaranta.

Si può identificare nella sostituzione della mano umana con apparecchi meccanici comandati da sistemi computistici la data dell’ingresso della società moderna nell’età dell’informatica, ma l’evento chiave del processo dovrà essere proclamato il giorno in cui l’apparecchio destinato a svolgere una specifica operazione non richieda, o non richiederà più, la presenza di un operatore: la macchina non necessiterà più del macchinista. Siccome ogni operazione umana, fisica o intellettuale, è volta ad uno scopo, tra l’operatore e lo scopo possono sussistere relazioni differenti, relazioni che è particolarmente agevole identificare nella sfera agraria: il maggiore agronomo tedesco dell’Ottocento, Albrecht Thaer, contemporaneo di Kant, sommo studioso dell’operare umano, distingue, tra quanti partecipano alla produzione delle derrate agricole, tre classi di operatori. I primi meramente manuali, i braccianti, la cui istruzione era definita addestramento, i secondi i tecnici di campagna, o livello medio, in grado di ordinare le operazioni successive del ciclo di coltivazione del frumento, delle barbabietole o delle patate, consapevoli che la produzione di ciascuna specie dovesse essere preordinata, in ogni specifica fase culturale, in previsione delle fasi che si sarebbero succedute fino al raccolto; infine il livello superiore, quello dello scienziato, capace di congegnare cicli culturali del tutto nuovi. Thaer stesso propone, ad esempio, una procedura originale per la coltura della patata in Prussia, nell’estremo settentrione tedesco, che la pianta non aveva ancora raggiunto. Seppure la medesima non consistesse che nell’imposizione di regole che rendevano ancora più gravoso lo sfruttamento della manodopera, espressione peculiare dei costumi civili  (o incivili) nella regione emblematica del militarismo teutonico, non è negabile che la nuova procedura potesse definirsi innovativa. Il riconoscimento impone di verificare, peraltro, come, al di là Reno, nei medesimi anni, il maggiore agronomo francese, Antoine Parmentier, stesse diffondendo la medesima pianta, di cui anch’egli aveva studiato un metodo razionale di coltura, perseguendo i più nobili propositi filantropici: usando un accorgimento promozionale autenticamente geniale (per dimostrare ai contadini il valore dei tuberi avrebbe fatto sorvegliare, di notte, il campo sperimentale da sentinelle armate, con l’ordine di voltarsi dall’altra parte ove intravvedessero un poveretto intenzionato, verosimilmente, a rubare due tuberi), il coup de théatre che avrebbe convinto migliaia di famiglie, in anni in cui la guerra aveva diffuso la fame, a sostituire la colture del grano con quella di una specie che produceva, per unità di superficie, una quantità di carboidrati significativamente superiore. L’espediente avrebbe, realmente, promosso, tra i paysans, il convincimento che li avrebbe sospinti a costituire, per l’inverno, la riserva di tuberi che avrebbe consentito alla famiglia di scongiurare la fame. Una procedura per aggravare la soggezione dei contadini, una per migliorare la loro alimentazione, singolarmente la prima congegnata in paese luterano, la seconda in paese cattolico: il secondo, il paese il cui monarca più amato, Henri quatre, aveva proclamato il diritto dei paysans di mettere, la domenica, “la poule à la poele”, la gallina in pentola.

Tre sfere di conoscenza, tre stadi dell’operatività umana ai quali corrispondono tre generazioni di congegni, o macchine: al primo la zappa, che sostituì un bastone appuntito, segnando, pressappoco settemila anni avanti Cristo, la data iniziale dell’evoluzione dell’armamentario umano, la sequenza di cui avrebbe costituito circostanza capitale l’avvento del traino bovino dell’aratro, reso possibile da un’altra tappa del progressivo dominio dell’uomo sulla natura, la castrazione, all’uccisione, in una spedizione di caccia, di una coppia bovina, del vitello, che sarebbe cresciuto come bue, unendo alla forza del maschio la docilità, alla quale nessun maschio bovino, il toro, si sarebbe mai assoggettato. Con l’arco e le frecce, la zappa aveva costituito caposaldo capitale dello strumentario neolitico. L’avvento del traino bovino del primo strumento, l’aratro non è che una zappa a trazione, non ne avrebbe mutato, essenzialmente, la natura, segnando, peraltro, una tappa capitale del progresso umano: la prima conquista, nella storia, dell’impiego delle forze della natura, quale è, appunto, la forza animale. Il traino bovino, cui si sarebbe associato, con peculiarità diverse, essenzialmente la rapidità, quello equino, avrebbe assicurato all’uomo l’opportunità di affidare agli animali le operazioni che richiedessero uno sforzo per un essere umano non impossibile, ma oltremodo gravoso: al progredire della tecnologia sarebbe stato utilizzato per l’impiego di congegni che nessuno sforzo umano avrebbe mai potuto azionare. Le immagini fotografiche del lavoro dei campi in età ottocentesca propongono la gamma più vasta di operazioni affidate ad attrezzi che neppure l’impegno collettivo di manipoli di uomini avrebbe potuto sospingere: il traino di aratri capaci di penetrare il suolo nella misura necessaria alla vegetazione di specie radicanti, quali la barbabietola, che i fotogrammi d’epoca mostrano trainati da due, tre, quattro coppie di buoi, quello di seminatrici capaci di disporre, nei primi centimetri del suolo, ranghi molteplici di sementi, l’estrazione, dal campo, di specie fittonanti che avrebbero imposto un’opera di zappa di somma fatica: barbabietole, rape o patate.

Dall’effettuazione meccanica di operazioni precedentemente affidate alla mano dell’uomo l’evoluzione delle apparecchiature agrarie avrebbe condotto alla realizzazione di operazioni multiple: le prime trebbiatrici meccaniche dell’Ottocento avrebbero eseguito serie di lavori precedentemente effettuati da strumenti indipendenti: la sgranatura delle spighe, la separazione delle cariossidi dalle glume e dalla paglia, l’eliminazione delle polveri, l’ultima affidata ad un ventilatore, autentica macchina autonoma che sarebbe stata inclusa nel contesto di un apparato polifunzionale. Avrebbe segnato una tappa capitale dell’evoluzione delle società umane la prima macchina azionata da una forza chimico-fisica, quella del vapore ottenuto dalla combustione, impiegato per eseguire un lavoro meccanico, quale la mozione di ruote con forza tale da spostare masse inerti, presupposto dei trasporti, per mare e per terra, che avrebbero costituito condizione vitale della civiltà moderna. La progettazione dei primi congegni capaci delle operazioni meccaniche che avrebbero caratterizzato la società industriale sarebbe stata, inequivocabilmente, opera di intelligenze umane, e ciò, palesemente, fino alla costruzione dei primi, e dei secondi satelliti artificiali, sul piano dell’immaginazione collettiva le realizzazioni più straordinarie della civiltà della meccanica. Ma chi scruti, con la propria intelligenza, appunto umana, gli orizzonti del futuro, è tenuto a chiedersi se, oltre ad assicurare strumenti in grado di svolgere i calcoli che risolvano sistemi di equazioni di cui sia stata una mente umana a preordinare le relazioni, un’intelligenza artificiale potrà, domani, sostituire quella dell’individuo umano nell’identificazione degli obiettivi dell’evoluzione tecnologica futura, che non dovrebbe più essere indirizzata, verso mete nuove, da opzioni adottate, tra le alternative immaginate, da quell’individuo, o da una pluralità di individui pensanti, ma che potrebbero essere comparate, fino all’identificazione della più funzionale, da un ordinatore capace non tanto di confrontare quesiti propostigli da un’entità vivente che li abbia concepiti e ne abbia definite le relazioni, ma di immaginarli e di definirne, autonomamente, la combinazione.

Il nuovo apparecchio non dovrebbe, cioè, risolvere le equazioni di cui una mente umana avesse postulato le variabili: dovrebbe essere esso stesso a ideare le incognite di cui valutare, ancora esso medesimo, il ruolo nelle cento combinazioni possibili. L’interrogativo corrisponde, essenzialmente al quesito se, immaginando che il più primitivo degli ominidi udisse, in giornata nuvolosa, un fragore sulle soglie della foresta, e dovesse decidere se si trattasse di tuono o di barrito di pachiderma, quel quesito potesse essere affrontato, e risolto, da un’apparecchiatura informatica. L’interrogativo proposto si porrebbe, nel caso supposto, tra due sole cause ipotetiche: nella propria semplicità presupporrebbe, comunque, l’identificazione della coppia di alternative, già ai tempi del nostro ominide un’opzione intellettiva. La fantasia propone a chi scrive un terreno di prova che imporrebbe, a chi vi si cimentasse, di mostrare, inequivocabilmente, sua abilitade, quello dell’arte: il responsabile della sezione ceramistica del Louvre, o del Museo nazionale di Napoli, sarebbero certamente in grado di identificare l’autore, o, quantomeno, la scuola, cui attribuire un cratere attico reperito, dagli agenti della finanza, in un covo di tombaroli, ma i dettagli, nel disegno, da assumere quali indici, o indizi, dell’attribuzione, sarebbero tanto numerosi, e tanto sottili, da disarmare qualunque amatore d’arte privo dell’esperienza specifica, un’esperienza che nessuno potrebbe mai acquisire, né in un mese, né in un anno, senza una peculiare sensibilità, o predisposizione, ed una straordinaria memoria visiva. Chi scrive fu amico, in tempi lontani, di un medico, eccellente nefrologo, Alberto Baraldi, in possesso di quella che può reputarsi la dote fondamentale del critico d’arte, appunto la memoria figurativa. Visitava botteghe antiquarie, quando reperiva una tela che lo attraesse, se il prezzo non fosse ingente la acquistava: non gli era difficile, data la passione e l’esperienza, identificare l’epoca e la nazione di origine, gli elementi cardinali per dare nome all’autore, e dedicarsi, quindi, consultando i cataloghi di una biblioteca d’arte, a Modena la Luigi Poletti, ad inquadrare l’opera nella parabola del maestro. Ove avesse identificato scuola e autore, l’antico amico avrebbe cercato di immaginare, consultando i cataloghi delle grandi case d’aste, Sotheby’s, Dorotheum e concorrenti, quale potesse essere il prezzo del dipinto. Eccellente medico, persona attraente: tra i cento volti che si confondono, dopo decenni, nei ricordi di un ottuagenario.

Chi scrive ha goduto, nella vita, della sorte felice di conoscere Carlo Ludovico Ragghianti ed Antonio Paolucci, due dei sommi storici delle vicende artistiche di questo felice paese. Erano ambedue, palesemente, entità umane dotate di grande fantasia, una fantasia comparabile, mi sono chiesto, alla creatività dei pittori di cui esaminavano le opere? Confrontabile, verosimilmente sì, ma non uguale: forse neppure misurabile sulla medesima scala di grandezza: assimilabile, ragionevolmente, a quella di altri noti storici dell’arte. Anche a quella, mi sono domandato, del celeberrimo Vittorio Sgarbi?  Forse sì, credo si debba rispondere: escludendo, categoricamente, dai termini del raffronto, ogni e qualunque criterio ricavato dalle pagine dell’abate Della Casa. Sulla cui base, stabilita una scala dal Neanderthal (secondo molti antropologhi ghiotto cannibale) a Dante Alighieri, non sarebbe impresa ardua decidere in prossimità a quale dei due poli dovrebbe essere collocato l’erede di Tersite. La cui lunga chioma consentirebbe, peraltro, ad un novello Achille, di ripetere il gesto, non propriamente cortese, verso il grecuncolo omerico, immortalato da uno dei grandi ceramisti attici.

I sommi artisti hanno sempre riconosciuto di possedere una dote divina. Che la creatività poetica si proponga quale dono celeste è legato ribadito, nella storia della civiltà umana, dalle cento invocazioni dei poeti che, prima di descrivere lo scenario, fosse litorale marino, foresta o plenilunio, in cui avrebbero introdotto il lettore, invocavano la benevolenza delle vergini muse, creature in possesso di facoltà divine, la prima delle quali deve essere identificata, palesemente, nella fantasia. I grandi poeti hanno unanimemente riconosciuto, nelle doti che poeti li rendevano, un dono celeste, elargizione di un’entità superiore. La sussistenza di quel dono costituisce legato di tutte le teologie, da quella indiana a quella olimpica, fino a quella cristiana, che il tema enuncia e sussume nella parabola dei talenti, doni che non sono distribuiti agli umani in misura uguale, ma in misure ampiamente diverse, una diversità che imporrà, sul piano escatologico, gradi di responsabilità, per il buono o il cattivo uso del dono, tra i quali sussisterà una divaricazione quasi sconfinata. Se, nella singolare molteplicità delle doti umane, di quelle che si collochino al livello inferiore e quelle che si dispongano al piano superiore, è, razionalmente, verosimile che la scienza, quindi la fisiologia cerebrale e la neurologia, possa definire le peculiarità biologiche di una dotazione media, costituisce interrogativo oltremodo più arduo la possibilità dell’identificazione dei gangli nervosi, magari della conformazione delle cellule responsabili della dotazione superiore, la genialità. Ricordo, peraltro, quale singolarità che preferisco definire aneddotica, la notissima vicenda dell’indagine con cui, alla morte di Lenin, che i seguaci ritenevano il maggiore genio mai comparso tra le quinte nella storia, il cervello del defunto sarebbe stato estratto e sottoposto a successivi esami, che avrebbero acceso la pluridecennale disputa sulla possibilità di individuazione delle peculiarità anatomiche della genialità, che sarebbero state identificate, nel caso specifico, nell’altissima presenza di cellule di forma piramidale, alquanto rare nell’ordinarietà dei soggetti antropici.

Menzionata la vastità della biblioteca degli scritti prodotti, sul caso famoso, dalle scienze pertinenti, e dichiarandosi del tutto incompetente a valutare la congruenza degli interrogativi rivolti all’istologia cellulare, chi scrive non può esonerarsi dall’esprimere la propria curiosità per il responso, fosse mai stata, la duplice analisi, o necropsia comparativa, realizzabile, tra le peculiarità del cerebro di Vladimir Ulianov e quello di Dante Alighieri. Due individui senza dubbio di intelligenza superiore alla norma: si può postulare, mi chiedo, che la massa cerebrale del supremo alfiere del cinismo politico avesse peculiarità simili a quelle dell’apparato corrispondente di uno dei maggiori, in compagnia di altri quattro, cinque verseggiatori, degli eredi di Omero? Siccome, peraltro, alla differenza di attitudini “professionali” si associa, nella comparazione tra i due personaggi, l’abisso tra le relative opzioni morali, Dante gigante di intemerata virtù, Lenin supremo nume dell’assassinio collettivo, potrebbe, razionalmente, supporsi che le diverse attitudini comportamentali potessero rivelarsi, all’indagine necroscopica, conseguenza di differenti peculiarità istologiche? Ma se dovesse riconoscersi, nella propensione all’assassinio dell’allievo di Marx, l’espressione di uno specifico assetto cellulare, il medesimo assetto avrebbe dovuto essere reperibile, ove ne fosse mai stato possibile l’esame, nelle masse cerebrali di tutti i grandi assassini della storia, Gengis Khan, Maometto secondo, Hitler e Stalin. L’eventualità propone un interrogativo appassionante: siccome peraltro, è tuttora vivente l’ultimo dei grandi carnefici della storia umana, seduto, verosimilmente non a caso, sul medesimo seggiolone su cui posò i quarti posteriori Vladimir Il’ič, e, siccome, ancora, possiamo contare che, alla morte di costui, per la quale dobbiamo auspicare, per il bene del Pianeta, l’attesa più breve, i seguaci, animati dalla medesima diligenza degli scherani del predecessore, non mancheranno delle attenzioni, per l’encefalo del successore, prescritte, verosimilmente dall’etica sovietica, possiamo contare che l’occasione consentirà di dare risposta al supremo interrogativo scientifico.

Chi si proponesse, peraltro, di spiegare le similarità delle attitudini criminali dei grandi che hanno coperto di sangue il globo, postulando similarità istologiche nei relativi cervelli, dovrebbe altresì dimostrare la corrispondenza delle analogie del contenuto cranico alle sequenze cromosomiche dalle quali, secondo i canoni della genetica, le prime deriverebbero. Salvo postulare che, rappresentando, i campioni supremi della ferocia umana, come, indubbiamente, quelli dell’umana levatura, casi statisticamente “puntiformi”, si debba reputare la comparsa, sul Pianeta, degli uni e degli altri, evento eccezionale, spiegabile riconoscendone la più verosimile matrice nel fenomeno che i genetisti definiscono mutazione. La supposizione non è priva di attendibilità genetica: rientra nella normalità delle vicende umane che un uomo e una donna generino creature dai diversi assortimenti di capacità e incapacità, tali, comunque, da includere doti positive e negative nella gamma in cui fossero comprese le peculiarità dei genitori; ma, se una coppia generi creatura dalle capacità palesemente superiori, cioè estranee a quella gamma, o con deformazioni esorbitanti qualunque standard, risulta coerente, in termini genetici, chiedersi se tale combinazione costituisca espressione del contesto dei caratteri (traits) dei genitori, o sia conseguenza di una deviazione eccezionale, in termini genetici una mutazione.

Identificata come tale, la mutazione spiega l’eccezionalità delle doti del soggetto, qualunque possa essere il giudizio che, sul piano etico, l’impiego di quelle doti potrà suggerire, un rilievo che deve essere integrato dall’annotazione che tra le molte opzioni che ciascun essere umano può assumere, v’è quella di non impiegare le proprie capacità, l’eventualità, prevista dalla famosa parabola evangelica, che precisa che l’opzione è destinata ad accendere l’ira divina. Chi scrive può ricordare, a proposito, vicenda personale, la dimestichezza con fanciulla, figlia di stretti parenti, dalla vivacissima intelligenza. Ero, liceale, appassionato di archeologia, visitavo con sommo interesse musei e stazioni di scavo, sarei riuscito persino ad essere accettato, come spalatore, dal nume dell’archeologia mediterranea, Luigi Bernabò Brea, che mi avrebbe affidato un saggio in stazione neolitica scoperta da predecessore ottocentesco e non più studiata.  La nipotina avrebbe visitato, con me, musei e aree di scavo, avrebbe preteso, dalla mamma, l’iscrizione a facoltà dove insegnava il nume nazionale dell’archeologia “del bronzo”, fino ad essere invitata a partecipare a scavo in stazione famosa, nel ci corso avrebbe contribuito alla redazione dei primi rapporti, suscitando il compiacimento del grande docente, fino a quando avrebbe scoperto che i compagni di scavo proponevano ragioni di interesse superiori a quelle di fibule, selci scheggiate, punteruoli d’osso: avrebbe dirottato sui medesimi le proprie passioni, il nume scientifico le avrebbe richiesto, credo due volte, il rapporto che gli era stato promesso, di fronte all’evidente negligenza non lo avrebbe richiesto mai più.

Le doti umane ed il loro impiego, dal terreno naturalistico a quello etico: la storia propone una galleria certamente sconfinata di ingegni egualmente eccezionali che hanno prestato contributi capitali alla prosperità della società civile, o che ne hanno moltiplicato le miserie: chi scrive non può immaginare, a rappresentare l’antitesi, coppia altrettanto emblematica di quella che propongono due noti francesi praticamente coevi, Louis Pasteur e Napoleone Bonaparte. Il primo, geniale scopritore dell’esistenza, a lato della natura “visibile”, di una natura “invisibile”, la conquista che, identificato il ruolo condizionante della seconda sfera sulla vita della prima, consistente nella gamma sconfinata delle reazioni organiche, quindi anche delle alterazioni patologiche, avrebbe imposto al ricercatore di chiedersi come assoggettarne i poteri per eliderne gli effetti negativi e utilizzare quelli positivi, l’impegno che, con il controllo delle grandi pandemie, e il governo industriale delle fermentazioni, avrebbe prodotto una delle svolte maggiori nella sussistenza delle società umane, in misura preminente sulla loro consistenza numerica; il secondo, che nulla avrebbe mai scoperto, ma che avrebbe ideato, sui campi di battaglia, modalità di impiego dell’artiglieria originali, applicando le quali avrebbe portato sterminio e rapina dovunque vanità di potere e avidità di preda gli avrebbero suggerito di condurre i propri cannoni. Gli effetti dell’impiego di due intelligenze fuori del comune alla realizzazione di propositi opposti non potrebbero essere, per qualunque appassionato di filosofia della storia, più drammaticamente evidenti.

Il quesito sulla matrice delle attitudini contrarie sospinge a raccogliere, si può, amaramente, rilevare, in unica genia, una schiera inquietante di protagonisti della storia, la legione di quanti unirono, in compendio proteso al male, lucidità politica e attitudini militari, doti soggettive, cioè, e opzioni etiche di valenza, entrambe, negativa, associando, nella medesima valenza, due sfere esistenziali in un connubio che non ha mancato di imporre il proprio potere nefasto sulle sorti del consorzio umano. Quell’umanità le cui millenarie vicissitudini hanno dimostrato quanto possa essere sconfinata la molteplicità delle interazioni tra il bene ed il male, tanto da obbligare a riconoscere l’impossibilità di poterle tutte comprendere e ordinare in termini di lucida razionalità: la molteplicità che ci attrae in un gioco di specchi in cui è facile smarrirsi, inducendo un essere pensante ad abbandonare l’intento, riconoscendo la connotazione di mistero che i “fati” umani conservano anche quando la penetrazione, storicistica, scientifica, antropologica, sia pervenuta al limite estremo della capacità di comprendere. A quel limite non può non rivelarsi razionale il suggerimento della dottrina cristiana, che propone alla mente umana di riconoscere di essere giunta di fronte al mistero, alla cui soglia la ragione può accettare di arrestarsi proprio, o solo, perché a suggerire l’opzione è una fede religiosa. Il mistero al quale attinge il destino eterno dell’uomo, a proposito del quale chi scrive ricorda le suggestioni opposte cui inducono personalità emblematiche sulla sorte di un protagonista di preclara notorietà nella storia d’Italia, Benito Mussolini, il Duce degli italiani.

Mi colpì profondamente, ancora adolescente, udire una suora, della quale è in corso, attualmente, con prospettive di esito positivo, il processo di beatificazione, dichiarare che l’anima del Duce si sarebbe salvata, ho letto peraltro, riferito da testo attendibile, che il cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, promotore, il fatidico 25 aprile, dello storico incontro, in arcivescovato, tra il Duce, al momento capo dell’ormai condannata Repubblica sociale (o di Salò) ed i comandanti partigiani, che gli avrebbero intimato la resa incondizionata, proponendola, non è dettaglio insignificante, nella dimora di un intermediario, ciò che avrebbe consentito, a Benito (abbreviazione di Benedetto: la madre che operò la scelta, povera donna!) di negoziarne le condizioni tanto per sé quanto per i satelliti. Al di là dell’inutilità dell’incontro, vano per la vanità di chi credeva di disporre, ancora, di chances che si sarebbero dimostrate mere fantasticherie, il Cardinale ne avrebbe riportato l’incredulità, riferita, in seguito, a interlocutori diversi, impostagli dall’ostentata assenza di qualunque preoccupazione, del titano in disarmo, per la propria sorte, tanto terrena quanto ultraterrena. Un uomo a capo di un’armata annientata, ospite di autorità religiosa in grado di tutelarne la vita per alcune ore, consentendogli di trattare con chi nello scontro aveva, ormai, trionfato, in grado, quindi, di dettare le condizioni che ritenesse di imporre. Nella circostanza, l’ultima in cui sarebbe stato concesso, a quell’uomo, di trattare, quell’opportunità il Duce avrebbe rigettato, assoggettando alle conseguenze della disfatta tanto l’entità sociale (l’aggettivo pare essere il più proprio a designare l’organismo) quanto chi ne era a capo, quell’uomo medesimo. Chi scrive non ha reperito, nelle memorie dell’incontro nello studio del Cardinale, la menzione della durata: gli ultimi giorni di Benito Mussolini sono stati ricostruiti, con precisione, ora per ora, ma il tempo durante il quale il Duce e gli avversari abbiano protratto la conversazione a Milano non risulta essere stato precisato. Supponendo l’incontro, come pare verosimile, breve, il lettore non può non riconoscere la straordinaria penetrazione dell’istantanea realizzata da sua eccellenza il Cardinale: il Mussolini che ci propongono tanto le fonti memorialistiche quanto quelle storiche, anche quelle dei mesi precedenti, ci mostrano un uomo prepotente, sicuro del proprio potere, al Cardinale quell’uomo si rivela persona vanagloriosa, del tutto incapace di comprendere la realtà che lo sta travolgendo, vittima della propria sufficienza, della propensione a tergiversare, a mentire, verosimilmente, a sé stesso, la caricatura di ciò che era stato, o che, più che statista teatrante, aveva saputo apparire.

A disilludere, inequivocabilmente, la santa suora che lo avrebbe voluto tra i beati, l’uomo che si rivela al Cardinale, a un’ora dalla morte, è, usando la locuzione dell’Amleto, uomo nel “fiore dei propri peccati”: un uomo che impone, o, più precisamente, conferma essere entità umana cui è estraneo qualunque senso morale. Lo cerca, al telefono, in quelle ore disperate, la moglie, la madre dei suoi figli, chiede gli passino la comunicazione: le rivolge il più succinto addio, mentre non rifugge, neppure per un attimo, l’abbraccio dell’amante che, avvinta come l’edera, non lo lascia un momento, rifiutando di separarsene anche quando il tiratore incaricato di eliminarlo la invita a spostarsi, per assolvere all’incombenza senza fare del male a lei, ciò che induce la Petacci a gettarglisi al collo in un abbraccio di morte: non precisamente le modalità della morte cristiana presupposta, quale viatico per l’accesso ai Cieli, dall’ingenua suorina, verosimilmente ingannata dalla notizia, fornitale da qualche consorella, del dono, da parte del Duce, di alcune migliaia di lire (negli anni Trenta offerta generosa) a un ospizio per orfanelle. La beatificazione del Duce da parte di una santa suora deve, verosimilmente, essere reputata frutto di quello che i britannici definiscono wishful thinking. Confidai, in tempi lontani, la mia perplessità ad un dotto frate, che precisò, categorico: “Con tutte le donne che ha incontrato, il Salvatore ha usato una meravigliosa dolcezza: con la Samaritana, Marta, Maria, Maddalena e l’Adultera, ma non ha mai pensato di nominarne cardinale una sola, e di affidarle i rapporti con i capi di stato, tra i quali è indispensabile distinguere Mussolini da De Gasperi”.

Ma sul destino dei grandi della storia i voli della fantasia non sono mai stati, nella letteratura commemorativa, infrequenti: senza dimenticare Foscolo, che interpreta Machiavelli alla rovescio, proclamando che i delitti che il Segretario fiorentino suggerisce al Principe come instrumentum imperii, non siano un’apologia dell’assassinio, ma un invito all’esecrazione, la palma della credulità deve essere assegnata, dispiace riconoscerlo, al grande Manzoni, che conclude l’epitaffio per la scomparsa di Napoleone con il più patetico interrogativo:

Fu vera gloria?

Al quale risponde, al verso successivo, con l’asserzione, egualmente retorica:

Ai posteri l’ardua sentenza!

Un proclama che dimostra l’incapacità dell’autore dei celeberrimi Inni Sacri a praticare l’arte dello storico militare: non occorre avere conosciuto uno solo dei reduci dell’Armir mussoliniana per immaginare come abbiano potuto raggiungere la Beresina, nel secolo precedente, migliaia di sbandati, senza ricorrere, unica fonte di sostentamento, al saccheggio delle povere scorte raccolte nelle izbe dei mugik, le risorse indispensabili per raggiungere non tanto il disgelo, ma la completa maturazione del frumento, evento che  si compirà, nella steppa ghiacciata, dopo otto mesi, quattro dopo i primi tepori, quando, opprimente, la canicola avrà convertito il continente del gelo nel continente dell’abbacinante prepotenza solare.

19 aprile 2024

In apertura, Laura Knight, autoritratto

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