Saperi

Liebig: la teoria della fertilità di uno scopritore assetato di polemica

I grandi agronomi della storia. Di origini modeste, Justus Liebig insegue fino dagli anni dell'università, con la determinazione più cieca, due obiettivi che sa intrinsecamente connessi: la gloria accademica e il successo economico. Quella determinazione lo ha condotto a Parigi, luogo d’eccellenza, a metà dell’Ottocento, degli studi chimici. Nella capitale francese riesce a farsi presentare ad Alexandre von Humboldt, l'anfitrione della cultura tedesca, amico di tutti i grandi scienziati francesi, che lo introduce in uno dei laboratori più aggiornati di tutta la Francia

Antonio Saltini

Liebig: la teoria della fertilità di uno scopritore assetato di polemica

La rivoluzione dimenticata

La storia consiste di una successione di date, come sanno gli studenti che dal numero di quelle date sono indotti all’avversione per lo studio del passato. Le date veramente capitali per la comprensione delle vicende umane sono, peraltro, poche, quelle che segnano circostanze che mutarono radicalmente le prospettive di un’epoca: come emblematica tutti ricordiamo la data dello sbarco di Colombo nei Caraibi, un evento che a un numero ingente di contemporanei rimase oscuro per molti anni, che gli storici elevarono, poi, con unanimità a scriminante tra il Medioevo e l’Età moderna.

Nella storia delle scienze agrarie la data corrispondente allo sbarco di Colombo, la pietra miliare che separa la letteratura rustica di carattere empirico, quel patrimonio di conoscenze cui contribuirono, con titoli analoghi, gli autori di Roma, gli agronomi della Rinascenza e i dotti del Settecento, e l’agronomia moderna, una scienza di precipuo carattere sperimentale,  non può essere posta in corrispondenza di un evento singolo, deve essere fissata nella successione di due avvenimenti, il primo la pubblicazione, nel 1804, di un trattato di fisiologia vegetale, il secondo la stampa, nel 1840, di un saggio di chimica applicata. Se il primo propose, infatti, la scoperta che capovolse la concezione tradizionale dei rapporti tra le piante, il suolo e l’atmosfera, il messaggio scientifico contenuto in quelle pagine venne ignorato, per quasi quattro decenni, da tutta la scienza europea, fino a quando intervenne il secondo volume ad imporre la consapevolezza dell’immensa portata applicativa della scoperta ignorata, e ad aprire la stagione delle nuove ricerche che, sulle sue fondamenta, avrebbero eretto l’edificio dell’agronomia moderna, una disciplina sperimentale fondata sulla chimica e sulla fisiologia vegetale.

L’autore del primo dei due libri, le Récherches chimiques sur la végétation, è Théodore de Saussure, un aristocratico di Ginevra  che il padre, un dilettante di fisica dell’atmosfera cui la ricchezza consentiva di affrontare il Monte Bianco con gli apparecchi più moderni per la misurazione delle costanti atmosferiche, aveva abituato  fino da fanciullo a maneggiare gli strumenti per lo studio degli aeriformi, che nello studio dei gas aveva acquisito l’abilità necessaria ad esperienze che la conoscenza dei mezzi a sua disposizione ci costringe a giudicare prodigiose.

Mediante quelle indagini De Saussure conclude le ricerche sulla nutrizione dei vegetali cui negli ultimi decenni del Settecento hanno partecipato  i maggiori chimici francesi, inglesi e tedeschi, che hanno definito una pluralità di fenomeni senza che nessuno abbia affrontato la chiave essenziale della vasta problematica, i rapporti tra la pianta e l’anidride carbonica atmosferica. Facendo crescere pianticelle di menta entro recipienti ripieni d’acqua posti sotto campane di vetro, e analizzando i gas contenuti nelle stesse campane dopo precisi intervalli di tempo, dalle differenze di peso che riscontra nelle pianticelle  e dal tenore dell’anidride carbonica nell’aria analizzata lo scienziato elvetico verifica che è l’atmosfera la fonte dell’aumento di peso in cui si traduce la crescita dei vegetali. Le piante non costituiscono la materia organica che le compone traendone i principi dal suolo, come reputa la conoscenza comune, come hanno creduto tutti gli studiosi dai tempi più antichi, ma la formano usando una delle componenti dell’aria, l’anidride carbonica. E’ la scoperta della fotosintesi clorofilliana, uno dei fenomeni capitali per la continuità della vita sul pianeta.

Perfezionando le proprie ricerche, De Saussure verifica che dal suolo, e dall’acqua che lo permea, le piante non traggono che gli elementi minerali con cui integrano i composti organici formati con il carbonio atmosferico, in primo luogo l’azoto e il fosforo. Con l’identificazione dell’origine degli elementi minerali della nutrizione la nuova concezione della vita vegetale consegue la propria organicità, collocandosi tra le chiavi della conoscenza umana del mondo naturale. L’abbandono della concezione dell’origine tellurica della materia organica dei vegetali e l’asserzione della sua origine atmosferica attraverso la fotosintesi ha la stessa portata della rivoluzione imposta da Copernico alla conoscenza dell’universo proclamando il moto rotatorio della terra attorno al sole: allo scienziato elvetico va il titolo di alfiere della rivoluzione copernicana delle scienze della vita.

Ho ricordato l’importanza, per la comprensione dei processi storici, della congrua fissazione delle date capitali: chi consideri il lungo iato che separa la data di pubblicazione delle Récherches dalla stampa del saggio che ne dimostra il rilievo agronomico non può che stupire considerandone l’ampiezza, e lo stupore è maggiore se chi opera il raffronto sia consapevole della straordinaria vivacità delle scienze naturali nei primi decenni dell’Ottocento, quando una gara appassionante contrappone scienziati inglesi, francesi e tedeschi impegnati a estendere le conoscenze sul peso dei composti organici, sulle proprietà dei sali, sulla formula delle sostanze per la prima volta purificate e cristallizzate. Nonostante quella vivacità di indagini, la grande scoperta resta ignorata per quasi quattro decenni. Nella storia delle conoscenze la ragione umana mostra il proprio fulgore, rivela altresì le proprie contraddizioni: tra i cento naturalisti impegnati, in quei lustri capitali per il progresso della scienza, più di uno dotato di autentico genio, forse Théodore de Saussure, un aristocratico  che ha  operato le proprie indagini, in silenzio, nel gabinetto privato, era troppo grande perchè i competitori potessero cogliere il significato della sua scoperta.

Mondanità accademica

La rivoluzione biologica dello scienziato elvetico si converte nel fondamento di una nuova dottrina agronomica nel 1840, quando vede la luce, in tedesco, La chimica organica nei suoi rapporti con l’agricoltura e la fisiologia, un’opera che nel volgere più breve di anni conoscerà traduzioni in francese, in italiano e in inglese. Ne è autore un giovane scienziato il cui ritratto ci presenta una personalità perfettamente antitetica a quella dello studioso elvetico, Justus Liebig. Autentico aristocratico, De Saussure ha pubblicato nella forma più modesta il risultato delle proprie indagini, di fronte al silenzio della cultura naturalistica europea non si è fatto propagandista del proprio volume, si è immerso negli impegni civili che competono al membro di una delle famiglie più illustri di Ginevra, ha dimenticato la fisiologia vegetale. Di origini modeste, Liebig insegue fino dagli anni dell’università, con la determinazione più cieca, due obiettivi che sa intrinsecamente connessi: la gloria accademica e il successo economico. Quella determinazione lo ha condotto, ottenuta qualche raccomandazione, a Parigi, capitale, a metà del secolo, degli studi chimici. Nella capitale francese riesce a farsi presentare ad Alexandre von Humboldt, l’anfitrione della cultura tedesca, amico di tutti i grandi scienziati francesi, che lo introduce in uno dei laboratori più aggiornati di tutta la Francia.

Sottomessa Parigi, il giovane ricercatore tedesco muove alla conquista dell’Inghilterra, dove, grazie alle raccomandazioni parigine, partecipa, nel 1840,  a Liverpool, ad un incontro della British Association for the advancement of sciences, durante il quale si discute dei progressi della chimica organica, e ottiene l’incarico di una relazione da svolgere, sull’argomento, all’incontro successivo. Affrontato il tema, verifica l’importanza della scoperta dell’origine della materia organica vegetale, invece di compilare il rapporto di cui è damandato stila un lungo saggio sui rapporti tra chimica e agricoltura e lo pubblica a proprio nome. Il successo del volumetto fa di lui, ancora giovanissimo, uno degli astri della scienza europea. Interessato a conservare il ruolo conquistato difenderà il proprio scettro accendendo polemiche furibonde contro chiunque proporrà scoperte che possano offuscare il suo primato, continuando a incrociare la sciabola di polemista anche quando avrà abbandonato il terreno dell’autentica ricerca scientifica per quello di più lucrose indagini applicative, che svolgerà cercando di tradurne i risultati in proficui brevetti, il più noto dei quelli sarà quello del dado da brodo che immortalerà il suo nome. I grandi della scienza, Lawes, Berzelius, Pasteur, che sfiderà con argomenti sempre più speciosi, potranno irridere i suoi legami con i negozi di droghiere di tutto il continente. Disponendo di argomenti scientifici sempre più deboli, combatterà gli ultimi duelli affidando le sue ragioni al prefisso nobiliare che, ottenuto il titolo di barone, potrà aggiungere al cognome sottoscrivendosi Justus von Liebig: allo storico della scienza che le ripercorra, le contese del barone von Liebig offrono prospettive preziose per ricostruire, nella sua ardente vivacità, il dibattito in alcuni dei decenni più significativi della storia della chimica.

La legge del minimo

Onorando le regole che impongono all’autore di un testo scientifico di citare gli studiosi delle cui acquisizioni si sia avvalso nel costruire le proprie argomentazioni, Liebig non manca, nella successione dei capitoli della Chimica organica, di menzionare il precursore elvetico, di cui preferisce citare, però, ricerche minori, ad esempio gli studi sul complesso dei sali contenuti nelle ceneri dei vegetali,  evitando di attribuirgli l’essenza dell’idea che sviluppa, della quale è difficile pensare non cerchi di appropriarsi: il testo di De Saussure era, a metà dell’Ottocento, poco conosciuto, tra le migliaia di lettori delle edizioni diverse del volume del chimico tedesco non v’è dubbio che la maggior parte fosse indotta ad attribuire a Liebig la rivoluzione di cui era, in realtà, l’accorto propagandista piuttosto che l’artefice.

Ma se l’idea chiave del manifesto di Liebig è principio la cui paternità deve essere attribuita al precursore, non manca nel contesto dell’opera un elemento originale di cui dobbiamo riconoscere il rilievo per il futuro delle conoscenze fisiologiche ed agronomiche, la formulazione della legge del minimo, il principio in cui possiamo identificare il contributo precipuo dello scienziato tedesco al progresso delle conoscenze naturalistiche. Essa si può riassumere nella constatazione che se qualunque organismo vegetale necessita, per la propria crescita, di una pluralità di fattori, il calore, l’anidride carbonica atmosferica, l’acqua e una serie di elementi salini, fosforici, nitrici e potassici, la quantità di materia organica che esso riuscirà effettivamente a produrre sarà direttamente proporzionale a quello, tra quei fattori, che risulti disponibile in quantità minori rispetto alle potenzialità di crescita. Se una pianta disponga, ad esempio, di anidride carbonica e di elementi fertilizzanti in quantità illimitata, ma manchi d’acqua, l’abbondanza degli elementi diversi non le consentirà il rigoglio che la carenza rende impossibile. L’eccesso degli elementi diversi non potrà mai compensare, cioè, l’insufficienza di uno solo.

E’ una legge fondamentale dello sviluppo biologico, e un criterio chiave per ogni teoria agronomica, che deve proporsi il fine economico di evitare lo spreco che si verificherebbe somministrando ad un campo acqua o elementi chimici che le piante fossero incapaci di utilizzare per la carenza di un elemento  diverso, ad esempio il calore. Per Liebig, comunque, l’elemento critico per tutte le colture che si realizzano nell’antico Continente è il fosforo, le cui riserve nel terreno lo scienziato tedesco giudica drasticamente ridotte da millenni di coltura praticata senza operare le necessarie restituzioni. Dalla prima dottrina fisiologica Liebig ricava, quindi, una tecnologia di fertilizzazione essenzialmente basata sulla reintegrazione delle dotazioni fosfatiche. Il convincimento spiega il suo impegno per brevettare un concime fosforico, che è certo trasformerebbe l’agricoltura europea, assicurando all’inventore guadagni illimitati.

Quel convincimento sarà la ragione di uno dei più appassionati, e disordinati, dei suoi duelli: applicando con coerenza la sua teoria, due ricercatori inglesi, John Lawes e Henry Gilbert, dimostrano, infatti, dieci anni dopo la pubblicazione della Chimica organica, che l’elemento carente, nei suoli europei, rispetto alle esigenze dei cereali, è l’azoto. Curiosamente, Lawes ha brevettato un concime fosfatico molto migliore di quello di Liebig, ed è con i guadagni di quel concime che ha promosso le ricerche che hanno dimostrato la fame di azoto dei cereali.

Invece di accettare l’onore di ispiratore dei due agronomi inglesi, che riconoscono nella sua teoria la matrice delle proprie ricerche, Liebig, che non accetta di assistere all’insuccesso del suo fertilizzante, si impegna a demolire le tesi dei concorrenti, fondate sui risultati di un piano sperimentale realizzato con un imponente dispiegamento di mezzi economici e le più organiche coordinate sperimentali, impiega tutti gli argomenti della polemica, quando questi si dimostrano insufficienti trascende nell’insulto, fino a costringere la più autorevole rivista agronomica britannica a rifiutare i suoi articoli: è il tramonto del suo prestigio nel paese i cui circoli scientifici, demandandolo del rapporto sulla chimica organica, lo hanno instradato sul viale del successo.

Il ciclo dell’azoto

A sospingere Liebig a varcare, nel sostenere la propria dottrina della concimazione fosfatica, i limiti dell’etichetta accademica, è un convincimento fondato su  un’intuizione brillante e su alcuni riscontri sperimentali, che,  proposti nella Chimica organica, lo scienziato tedesco, assorbito dalla ricerca di brevetti fruttuosi, non si è preoccupato di sottoporre ad indagini più minuziose, che si rivela, quindi, ipotesi aleatoria. Chiedendosi, mentre compone il proprio saggio sulla chimica e l’agricoltura, da quali fonti le piante traggano l’azoto necessario al proprio sviluppo, Liebig ha pensato di sottoporre ad analisi acqua di pioggia e neve, e vi ha trovato tracce di ammoniaca, si è convinto quindi, che i  fenomeni elettrici che accompagnano le perturbazioni meteorologiche convertano in ammoniaca l’azoto elementare dell’atmosfera, che l’acqua trasferirebbe al suolo. Siccome, peraltro, le riserve di azoto dell’atmosfera sono illimitate, e i fenomeni meteorologici cui attribuisce la conversione si ripetono continuamente, il chimico tedesco è convinto che l’azoto fluisca al terreno sistematicamente e illimitatamente. All’errore di chimica dell’atmosfera aggiunge un errore di fisiologia ritenendo che le piante possano assorbire direttamente l’ammoniaca disciolta nell’acqua di pioggia: componendosi i due errori lo inducono alla difesa più scomposta di un’opinione del tutto priva di fondamenta.

Ma tutta la parabola del chimico tedesco insegna al cultore di storia della scienza che l’uomo dotato della più duttile abilità sperimentale, della più feconda intuizione scientifica e del più felice talento divulgativo può siglare qualche pagina di alto rilievo, non può scrivere un capitolo intero della storia della conoscenza, se alle doti naturali non unisca la perseveranza che è il complemento necessario del genio per il compiersi di ogni autentica avventura scientifica. I grandi contemporanei di Liebig,  basti ricordare Pasteur e Koch, dedicano alla scienza ogni energia, nelle proprie indagini profondono  la vita con la dedizione di autentici monaci, non sacrificano mai la verità al successo di un brevetto, legano il proprio nome  a bacilli e lieviti, non al dado da brodo che ha assicurato al barone von Liebig la ricchezza sognata fino da studente,  e una fama imperitura nella sfera degli articoli di drogheria

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