L’olio di Rama Pura. A suo tempo utilizzato per eliminare il malocchio
Da una varietà di olive ricavate da una pianta selvatica di olivastro molto diffusa in Sicilia, nel messinese, si ricava un olio particolare, dal fruttato poco intenso e tracce di amaro e piccante. La salvaguardia e la valorizzazione di questo patrimonio vegetale è di notevole importanza per mantenere vivi gli interessi culturali, ambientali e scientifici. La strada da seguire è la produzione di oli monovarietali e Dop
Mario Portera
Quest’anno, nel periodo di raccolta delle olive, in una delle mie visite quasi quotidiane in frantoio mi sono imbattuto in una varietà particolare di olive: l’oliva di olivastro, una cultivar molto diffusa nel nostro territorio. Si tratta di un arbusto selvatico della stessa famiglia degli ulivi che fa parte della macchia mediterranea. Questa pianta selvatica era diffusa già tra i popoli Greci e Romani che utilizzavano le olive per produrre un olio che aveva per lo più scopi medicinali o religiosi. Gli antichi greci erano soliti coltivare l’olivastro, trattandolo come un albero sacro, di cui era proibito il danneggiamento.
Riconoscere l’oliva di olivastro ha risvegliato ricordi legati alla mia infanzia e nella mia mente sono risuonate le parole di mio padre quando, in campagna, raccoglievamo le olive: “con le olive di olivastro si produce olio non per la tavola ma per le lampade dell’altare”. Forte di questo ricordo chiedo al frantoiano come mai avesse raccolto queste olive e prodotto quest’olio. La risposta è stata immediata. Si tratta di una richiesta della sorella che voleva realizzare un olio particolare da regalare per Natale ai suoi amici.
Incuriosito non posso non assaggiare l’olio e rimango esterrefatto. Mi trovo di fronte a un fruttato poco intenso con tracce di amaro e piccante. E allora mi chiedo che uso possa farsi di quest’olio. Il mio amico frantoiano mi dice che sua sorella ha fatto una ricerca: quell’olio è di Rama Pura e il suo uso è riportato nella preghiera del cerimoniale per eliminare il malocchio.
Rientrato a casa ho tirato fuori dalla libreria del mio studio il libro Muddicati, pubblicato nel 1988, sulle tradizioni popolari del mio territorio e ho trovato un intero capitolo sullo scongiuro per il malocchio.
Oggi è molto importante il passaggio di conoscenze alla generazione Z che è la prima generazione a essersi sviluppata godendo dell’accesso a Internet sin dall’infanzia, e su come questi metodi abbiano inciso sui loro processi di socializzazione. E su come loro, nativi digitali si comporteranno rispetto a noi baby boomers che abbiamo vissuto la trasmissione orale come mezzo utilizzato per tramandare la cultura e le tradizioni del mondo contadino.
Mi rendo conto che l’olio di Rama Pura rappresenta oggi un ponte di collegamento generazionale che fa conoscere alla generazione Z i valori nella cultura popolare e su come essi oggi possano essere attualizzati.
Ancora oggi la guarigione è il superamento di un disagio fisico psichico che può avvenire anche per grazia divina, ma la grazia deve essere mediata da riti particolari e da persone iniziate agli stessi riti.
Nella tradizione popolare per tutti i mali sia di natura fisica, sia di natura psichica, c’è uno scongiuro specifico. Oggi la pratica dello scongiuro non è più consueta come nel passato, ma sicuramente il comportamento delle generazioni Z oggi si trova al confine di quanto viene tramandato nella tradizione e di quanto si trova nel web come notizie e informazioni di pratiche ormai inusuali.
La sorella del mio amico frantoiano ha esaltato questa componente tradizionale del nostro terroir accompagnando la confezione con una breve descrizione che racchiude il percorso evolutivo di questo pensiero sociale che testualmente vi riporto:
“In passato, quando qualcuno attraversava un periodo particolarmente sfortunato per uno o più motivi, in Sicilia si iniziava a pensare che avesse una “Ucchiatura”, ossia che qualcuno di malevolo gli avesse di fatto gettato il “Malocchio”. In questi casi, il malcapitato “Ucchiato” poteva rivolgersi a delle sapienti donne capaci di eliminare il malocchio con un rito tramandato in segreto. Il rito prevedeva l’uso di un piatto posto sulla testa dell’Ucchiato o Ucchiata, dell’acqua, del sale e dell’olio estratto da olive selvatiche. In Sicilia a queste cose ormai credono in pochi, ma anche chi non ci crede non può restare affascinato e incuriosito da questi riti e usanze misteriose. Ed allora eccovi l’olio estratto da olive selvatiche, olio di Rama Pura. Fatene buon uso.”
Nella pratica dello scongiuro il cerimoniale più utilizzato è quello della “prova dell’olio”. Si riempie una ciotola di acqua e si pone sul capo dello “iettato”. Vi si aggiungono tre gocce d’olio di Rama Pura e dopo aver recitato una formula e fatto il segno della croce sulla fronte del malcapitato si mescolano i due liquidi e si aspetta. Se le gocce d’olio nell’acqua si allargano o si dividono, il malocchio c’è, se rimangono compatte, non c’è. La preghiera recitata da chi fa lo scongiuro è un mistero. Si tramanda da madre in figlia, da nonna a nipote, e si può imparare a memoria solo durante la notte di Natale o di Pasqua. Non può essere scritta o rivelata a terzi.
Nel libro Muddicati (1988) vi sono diverse preghiere raccolte dall’autore da persone iniziate alla pratica dello scongiuro.
Qui vi voglio riportarne una delle più comuni:
L’Orazziòni pu Maluòcchio
Li to uocchi stritti e liati
Cuòmo ncuòccio ri-raranatu;
tri-ffuòru chiddi chi t’assartaru;
cu-lluòcchi,cu la menti e –cculu cori;
e-tri fuòru chiddi chi ti sarvaru:
u Patri,u Figghiu e u spiritussantu.
Si recita il Credo e poi si aggiunge:
Santu piètru ri-Roma cinìa;
parma r’aulivu ali manu purtava;
ìu a la fonti e la bbiniricia;
ìu all’artari e la missa cantava;
cacciàu l’uocchi a-ccu mali facia.
Seguono: n-patrinuostru e ttri lloriapatri.
Condizione necessaria e comune a tutti gli scongiuri è la fede: chi lo riceve, come chi lo pratica, deve credere nella sua azione taumaturgica. È interessante notare come il sacro si mescoli al profano e come elementi pagani siano sopravvissuti all’incalzare del tempo.
Un celebre detto dice: “Non è vero, ma ci credo”. La superstizione perdura nonostante il cambiamento dei tempi e la crescita delle nuove generazioni. Molte di queste pratiche sono andate perdute e ai giovani non rimane che essere testimoni di un retaggio che ha dato vita alle nostre radici. Da questa ultima considerazione si potrebbe dedurre che l’atteggiamento verso i vari fenomeni della superstizione non sarebbero legati alla trasmissibilità da una generazione all’altra, ma sarebbero legati ad altri fattori. Probabilmente ad una attenuata dose di razionalità che contraddistingue il modo di essere e di pensare dei giovani e il loro inesperto atteggiamento di fronte allo sconosciuto e all’imponderabile.
Ma di sicuro questi momenti tradizionali arricchiscono il terroir di una zona tradizionalmente olivicola con varietà autoctone in cui i vetusti esemplari di olivo con la loro longevità e con le loro ragguardevoli dimensioni rappresentano un segno non certo trascurabile per la comprensione del territorio che li ospita e della società che li ha voluti conservare. Questi alberi costituiscono anche un prezioso patrimonio genetico e conservano i ricordi di generazioni, immagini oggi sbiadite di epoche passate.
La salvaguardia e la valorizzazione di questo patrimonio vegetale è di notevole importanza per mantenere vivi gli interessi culturali, ambientali e scientifici del territorio.
Di sicuro un mezzo di valorizzazione di essi è la produzione di oli monovarietali e di Dop locali. Applicando i vari disciplinari di tutela della produzione degli oli, si valorizzano le caratteristiche chimiche, organolettiche, nutrizionali e se ne definisce meglio il profilo sensoriale e organolettico.
Varietà–Territorio–Clima rendono l’olio monovarietale unico al mondo, impossibile da riprodurre in altre zone, con una identità (chimica e sensoriale) chiara e ripetibile, dalle caratteristiche organolettiche distintive molto precise, arricchito dal contesto paesaggistico, storico, culturale della zona di produzione.
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