Saperi

Ogni riferimento a fatti, luoghi e persone è puramente casuale

Un atto unico per il teatro. Palcoscenico praticamente vuoto, solo una seggiola, qualche libro per terra, una fila di scarpe e, da un lato, un tavolino con una abat-jour. La scena si svolge alla luce di quest’ultima e di un faro che segue, per illuminare, i pochi spostamenti della protagonista

Mariapia Frigerio

Ogni riferimento a fatti, luoghi e persone è puramente casuale

OGNI RIFERIMENTO A FATTI, LUOGHI E PERSONE È PURAMENTE CASUALE

ATTO UNICO DI E CON MARIAPIA FRIGERIO

Palcoscenico praticamente vuoto, solo una seggiola, qualche libro per terra, una fila di scarpe e, da un lato, un tavolino con una abat-jour.

La scena si svolge alla luce di quest’ultima e di un faro che segue, per illuminare, i pochi spostamenti della protagonista.

«No… no… no, per favore, vi siete sbagliati, la spalliera della seggiola non verso il pubblico!

Io, come potete vedere, non sono Marlène Dietrich! Vi immaginate se mi mettessi a sedere a cavalcioni? Le mie cosce grasse, flaccide, cellulitiche si affloscerebbero in maniera impietosa e, credetemi, non ho intenzione di darvi uno spettacolo così degradante di me.

Allora è meglio girare la seggiola… ecco, proprio così! in modo che io possa guardare i miei spettatori vis-à-vis, seduta, composta, come una signora comme il faut.

Cosa… cosa state guardando? ah, ho capito, lemie scarpe! Ne ho tante lo so, forse… forse troppe. Sono, del resto, il capo d’abbigliamento, l’accessorio, diciamo, che più amo e poi… nelle mie scarpe c’è la mia personalità… Queste verdi, ad esempio, vedete, hanno un non so che di settecentesco, “alla Fragonard”, come disse un mio amico artista. E quelle, guardate, con la punta lunga, affusolata e il tacco alto a rocchetto: viola! Aggressive, da donna in carriera, personaggio che peraltro non mi corrisponde, ma che a volte desidererei essere. Un po’ di sicurezza in più non farebbe male!

Poi le romantiche per eccellenza: in camoscio nero con nastro e drappeggio posteriore, sensuali come i passi del tango, avvolgenti e… coinvolgenti!

E là, in fondo, quelle argentate che io, con la mia mania di catalogare e classificare, ho chiamato “bambola d’argento”!

Infine queste che indosso, che non saprei proprio come definire… una specie di pianelle, di babbucce, di ballerine, che aderiscono completamente alla forma del mio piede…

Del resto, pensando a quali parti siano quelle più sensuali nel corpo di una donna, ho sempre pensato che fossero quelle che stanno alle estremità opposte: i piedi da un lato, la testa dall’altro.

Vedo, tra il pubblico maschile, alcuni risolini mascherati e che forse non esplodono in fragorose risate solo perché costoro non sono soli (tutti hanno una sorella, una compagna, una moglie, una madre) … ma io sono fermamente convinta di quello che dico!

E… penso di avervi fatto venire qui, tutto sommato, proprio per raccontarvi della mia testa.

Io ho convissuto tanto bene con la mia testa. Ho sempre coltivato i miei pensieri, me li sono coccolati e mi sono fatta coccolare da loro. Sono stati, comunque, la mia costante compagnia.

Forse sono matta… e forse è giusto che mi abbiano fatto quello che mi hanno fatto!

Del resto, non sono sempre stata rimproverata per questo?

«Hai sempre la testa tra le nuvole», mi dicevano i miei genitori.

«Non puoi vivere di arte e di poesia», mio marito.

Lo stesso medico, quando gli dissi che perdevo la memoria:

«Perde la memoria, signora, o si abbandona ai suoi pensieri?».

Caspita! Aveva capito anche lui… però… però la memoria io la perdevo davvero!

Quando penso alla noia che pervade i nostri ragazzi, ma anche i ragazzi di ieri e i bambini di oggi, mi sembra di impazzire. Ma come è possibile, mi dico, se tutti abbiamo una testa! Io fatico perfino a capire chi si fa le canne per noia. Io – capirete bene – alla mia tenera età non me ne sono ancora fatta una! Ho bisogno di canne, io, con la testa che ho?

Che la testa sia una parte molto erotica, non sono poi la sola a sostenerlo.

Negli anni Settanta – gli anni della mia giovinezza – un bellone di Hollywood, Warren Beatty, girò un film dal titolo Shampoo che non vidi solo perché in quel periodo era tassativo vedere esclusivamente film impegnati e, probabilmente, quello non lo era. In quel film, Warren Beatty, sosteneva che i parrucchieri hanno, con le loro clienti, un rapporto estremamente erotico, in quanto, toccando loro la testa, creano il contatto più intimo che ci possa essere tra uomo e donna. Beh, detto da lui, non era male!

Del resto non si spiegherebbe altrimenti la ritrosia mostrata da quasi tutte le donne nel farsi toccare la testa: sicuramente una forma di pudore per una parte, diciamo, intima e non solo strenua difesa di pettinature più o meno a carciofo. Né, peraltro, si comprenderebbe il mio desiderio, al contrario, di capigliature mai rigide, anzi sempre naturali, tali da permettere a qualunque uomo, in qualunque momento, di poterci infilare impunemente le mani.

Io, questo contatto intimo, lo ebbi con la persona che mi operò.

Ma, dimenticavo! Non vi ho detto che qualche mese fa ho subito un grande intervento alla testa.

Tutto era cominciato con un attacco epilettico.

«Un male nobile!» mi disse il mio amico filosofo. Ma…! Sempre meglio un male nobile di uno volgare… Quanto meno è più chic.

Ora, voi sapete, che chi è epilettico lo è, di solito, dalla nascita. Per una come me, però, che ha da tempo lasciato la giovinezza, un attacco del genere, peraltro improvviso, è quanto meno inquietante.

Ah, scusate, vi presento: questa è Apua, il mio amore, la mia cagnolina, la “persona” che mi è sempre vicina, – e non è un lapsus freudiano –, la mia ombra. Lei mi segue ovunque ed è ormai il mio segno di riconoscimento. La gente della mia città mi riconosce per lei. Quante volte mi sento chiamare:

«Mariapia, Mariapia: abbiamo visto lei… poi te!». A volte mi chiedo: «E il giorno che non ci sarà più, avrò io, ancora, un’identità»?

Mi dispiace, ammetto, essere miscredente e non credere nei santi e non poter diventare santa io stessa… solo… solo perché non potrò avere lei come mio attributo.

Pensate quanti splendidi dipinti con Santa Lucia e i suoi occhi, San Sebastiano e le sue frecce, Santa Caterina e la sua ruota…

Ammetto, mi mancherà Santa Mariapia… e la sua Apua!

Ma torniamo al discorso sul mio intervento, intervento di sette ore con apertura di scatola cranica di ben 28 cm.! (misurati peraltro da mia madre).

Ebbene, l’uomo che mi operò ebbe in mano la parte più intima di me ed aprendola entrò nei miei pensieri.

Ma prima, stesa su quel tavolo di metallo gelido, mi aveva preso il volto tra le mani e mi aveva chiesto: «Ha paura?».

«No», avevo risposto, «ho solo tanto freddo».

E lui, in modo maldestro, mi aveva coperta con un telo termico.

Ma non solo me l’aprì, la mia testa! Me la richiuse pure! Con perni e colla fisiologica! (ho letto le cartelle cliniche: «Fatto quattro buchi col trapano…», una scena da film horror!).

Mi disse che ero giovane e avevo dei bei capelli e forse… forse per questo non mi rasò.

Io, tonta e fuori dal mondo come sempre, non avevo pensato che un intervento alla testa richiedesse la rasatura. Me lo ricordò mio marito che aggiunse: «Dovremo pensare alle parrucche…».

Le parrucche?!? Ma che orrore! Mi sentivo parte di uno scritto verghiano: la moglie di compare Turiddu… con la parrucca!

I miei figli optarono invece per una bella pelata, con orecchini estrosi e un bel trucco. «Sei abbastanza matta, mamma, per stare benissimo».

Avevano ragione e, in ogni caso, mi rincuorarono molto.

Le previsioni risultarono, per mia fortuna, errate, perché lui, il medico, quando mi vide, mi disse: «Lei è giovane, ha dei bei capelli e io non la raso».

«Che banalità!» direte voi. E no, no, signori miei! Vi sembra cosa da poco sentirsi dire di essere giovane da un uomo più o meno della mia età, mentre sono circondata da gente che pensa solo agli anni, che non vive, che consuma tutto in tempi brevi e che è perennemente insoddisfatta?

Io, in effetti, continuo ad essere, se non una donna giovane, una bambina invecchiata ed è questa una delle poche doti che possiedo: non aver mai abbandonato completamente il mondo dell’infanzia.

«Lei è giovane e ha dei bei capelli».

Dei bei capelli, io? Io ho i capelli che ho, come potete vedere: ricci, anche un po’ crespi e, come già vi dissi, sono stata ragazza negli anni Settanta, quando erano di rigore i capelli lisci, alla cosiddetta “svedese”. Io sono sempre stata in lotta con i miei capelli: con spazzole, phon, … perfino col ferro da stiro!

Una lotta improba! Ma, alla fine, … ha vinto il riccio!

Ed ora… ora io lo amo questo riccio e lo terrò sempre, dopo che lui, non solo mi ha detto che avevo dei bei capelli, ma… me li ha pure pettinati, questi capelli… davanti agli occhi esterrefatti della Filomena.

E qui devo aprire un nuovo capitolo: la Filomena.

Quando venni ricoverata scelsi, anziché la camera a pagamento, di andare in corsia. Fu, in verità, vista la gravità dell’intervento, una corsia privilegiata, di due soli letti: quello della Filomena e il mio.

Io sono quella che sono, mi vedete: non posso nascondere di avere una certa cultura e una certa educazione.

La Filomena è quella che un tempo si sarebbe definita “una donna semplice”. Semplice sì, ma nello stesso tempo eccezionale! Come sono stata bene con la Filomena… come mi sono divertita! Lei era lì, con la sua milza spappolata, eppure sempre disponibile con me, sempre pronta ad aiutarmi e, in un certo senso, a proteggermi.

Dovete sapere che io non amo disturbare e che vorrei passare anonima nella vita. Con lei questo non era possibile.

Bastava le dicessi: «Ah, Filomena, che male di schiena ho!».

E lei: «Cara, si chiama l’infermiera e le si fa portare un guanciale».

«No, Filomena, non è il caso», ma lei, tacchete, si appendeva al campanello e l’infermiera arrivava.

Oppure: «Filomena, come è fastidiosa quella luce della finestra per la mia testa».

«Cara, chiamiamo subito l’infermiera e le facciamo abbassare la tapparella».

«No, no, Filomena, posso provare a girarmi dall’altra parte». Ma lei, tacchete, aveva già suonato il campanello.

Era un tesoro perché, pur senza farmene cenno, aveva capito il mio dramma, la mia sofferenza.

Il suo comodino, poi, era una specie di altarolo dedicato a Padre Pio.

Ce n’erano di tutte le fogge e di tutti tipi e uno… uno se lo portava pure appeso al collo e Padre Pio fu da lei pregato per me. Eppure mi aveva conosciuta solo da un giorno… Ma lei pregò tutto il tempo in cui fui in sala operatoria, tutta la notte in cui fui in rianimazione.

Qualcuno di voi è mai stato in sala rianimazione?

Io trascorsi quella notte – la notte di San Lorenzo – con davanti agli occhi, separato solo da un vetro (gli infermieri pensandomi sempre sotto anestesia avevano tralasciato di calare la veneziana), il corpo nudo di un uomo immenso, una vera e propria montagna di carne umana: un tentato suicidio.

Contro costui gli infermieri inveivano con improperi e volgarità. Passai la notte con quella tragica immagine nei miei occhi, con i suoi bestiali lamenti nelle mie orecchie, con l’angoscia che quanto mi avevano fatto alla testa non fosse, come dire, riuscito.

Mi resi conto che quel “X agosto” di letteraria, pascoliana memoria, quella notte di San Lorenzo senza stelle cadenti, ma a fianco di un’umanità sofferente per cui forse era valsa la pena esprimere qualche desiderio, fu un giorno per me importantissimo. In quel giorno, o meglio, in quella lunga notte, capii quanto sarebbe stato importante per me toccare quel corpo, poterlo carezzare con le mie mani… nude, potergli ridare forza e vita…

Il corpo incontinente di un uomo non più padrone di sé, eppure… eppure credetemi, l’avrei toccato senza alcun senso di schifo, io schizzinosissima peraltro, che per mettere un pesce in padella, o anche solo per pelare le patate, mi infilo… i guanti di gomma!

Tornai dalla mia Filomena come drogata, con cannelli che mi uscivano dalla testa… e non solo. Ero esaltata, eccitata. Ripeto, drogata.

Dissi, alle persone che mi circondavano, che non me la sarei sentita di dormire sola.

Scelsi, tra i tanti, mio figlio, il più adatto essendo, diciamo, giovane e forte, a dormire su una poltrona tre me e la mia compagna di stanza e, naturalmente, chiesi a quest’ultima se non avesse avuto nulla in contrario che un giovane uomo dormisse tra noi.

«Figuriamoci, cara!» rispose lei.

Spegnemmo le luci prestissimo. Solo lui leggeva alla fioca luce dell’ospedale. Mi svegliai durante la notte. Ero disperata. Tutta la tensione, l’angoscia, la paura che avevo nascosto nei dieci giorni prima dell’intervento (e se fossi morta? e se fossi finita in carrozzella? e se fossi rimasta cretina?) ora non mi era più possibile contenerla.

Piansi a lungo con mio figlio, gli dissi la mia disperazione, il mio sentirmi finita.

Piansi come avrebbe pianto una donna, non una madre di fronte al proprio figlio e lui… lui mi consolò come un uomo, non come un figlio di fronte alla propria madre.

La vita in ospedale procedeva monotona e uniforme, con – diciamo –scadenze fisse e appuntamenti regolari. Una vita disciplinata da orari che non mi era mai stato possibile realizzare al di fuori di quelle mura.

«Siete dei grandi disordinati!» tuonava spesso mio nonno contro tutti i componenti della mia famiglia. E aveva ragione: venivo da una famiglia senza orari e avevo io stessa dei figli senza la nozione del tempo.

Del resto, sia mio nonno che io, avremmo voluto la puntualità per potere poi avere del tempo a nostra disposizione, per potere, ad esempio, catalogare… e non solo le scarpe, come faccio io, o i film che vedeva, come faceva lui!

Eravamo, la Filomena ed io, in balia degli umori di infermiere non sempre disponibili, a volte perfino rozze e cafone. Ma mentre io mi calavo nel più totale anonimato, la mia compagna, ogni volta che costoro comparivano, le accoglieva con un inconfondibile: «Buon giorno, cara!».

I riti quotidiani erano poi sempre gli stessi: sveglia il mattino, toilette con gran scorrere di acqua per la Filomena, con latti detergenti, tonici e creme per me, colazione, cambio di flebo, visita di medici e parenti, pranzo, riposo, merenda, di nuovo parenti, cena.

E dopo questa, la mia compagna, che durante tutta la giornata non aveva fatto altro che descrivermi con particolari estremamente realistici tutte le sue esigenze fisiologiche, si lasciava trasportare da una inaspettata vena poetica.

«Guardi, cara» mi diceva «che meraviglia quella nuvoletta rosa!». Ed entrambe allora commentavamo la meraviglia di quel quadrato di cielo che vedevamo sopra uno squallido muro, fuori dalla nostra finestra.

La Filomena aveva – Padre Pio a parte – una visione totalmente laica della vita e fu per me, nel tempo trascorso con lei, come se avessi vissuto in una novella del Boccaccio, perché lei aveva un’umanità totale che sapeva passare dagli aspetti più infimi della vita, senza timore, senza vergogna, alle vette più alte dello spirito.

Nel ripetersi sempre uguale delle nostre giornate, lui, il mio dottore, rappresentava l’elemento sorpresa.

Giungeva infatti inaspettato a qualunque ora del giorno e della notte. Entrava con estrema autorevolezza, si sedeva sul mio letto (cosa proibitissima sia per medici che per infermieri), mi parlava in tono pacato e rassicurante, mi levava la pelle morta dal braccio con la flebite, rispondeva a tutte le domande che io, scrupolosamente, gli preparavo scritte su un quadernino.

La Filomena seguiva tutto, pur girandoci le spalle, per grande discrezione. In una sua visita notturna – come sempre inaspettata – mi trovò in lacrime. Cercai, per quanto possibile di nascondermi sotto le coperte, ma fu una inutile fatica.

Lui non mi fece domande, solamente disse: «Pensi se le avessi tagliato i capelli!».

La mattina seguente fece il suo ingresso nella nostra camera con la solita irruenza e mi chiese se mi fossi pettinata.

«Ma, dottore, col taglio che ho e tutta la coroncina di garza… mi creda, io non mi toccherò mai più la testa!».

«E perché crede le abbia lasciato i capelli? Mi dia un pettine!».

Presi, dal comodino, il mio pettine, naturalmente viola, e glielo diedi.

Lui iniziò a pettinarmi: da destra a sinistra, di sopra e di sotto. Io ero in preda a una vergogna sovrumana. Ma vi rendete conto che sotto il pettine lui pettinava, smuoveva, vedeva i miei ricci?!? Questi ricci di cui sempre mi ero vergognata e che sempre avevo umiliato – come già vi dicevo – stirandoli con spazzole, phon e ferri da stiro!

Lui continuava instancabile: «Dove lo vuole il ciuffo? A destra? a sinistra? vuole… la riga nel mezzo?».

Con quel suo pettinarmi aveva posto fine non solo alla guerra tra me e il riccio e mi aveva fatto accettare una parte di me che indiscutibilmente mi appartiene, ma mi aveva riportato alla mia infanzia, a quando mia nonna mi pettinava e io, bambina viziatissima, urlavo e mi ribellavo senza alcun ritegno.

La mia nonna allora mi prendeva in giro (cosa che mi faceva andare su tutte le furie!) cantandomi una canzone del periodo La donna riccia: «No…no…no, perché per ogni riccio c’è sotto un capriccio, la donna riccia non la voglio, no!».

So che a chi mi conosce potrà sembrar strano, so che le persone mi vedono come una donna piuttosto austera e severa, di certo non frivola.

Ma questa mia immagine, peraltro reale, è frutto di una severa educazione e di una rigida disciplina.

Posso dire ora, dall’alto della mia età e del mio intervento – senza più timori – che quella che appaio e che la vita mi ha imposto di essere, è una persona totalmente diversa dalla mia vera essenza che si rispecchia completamente nella mia capigliatura e che è quindi quella di una donna capricciosissima.

Dopo il medico, l’unica persona che fu autorizzata a pettinarmi fu mia madre. Iniziava a pettinarmi con garbo e delicatezza, descrivendomi quello che vedeva: il taglio, i solchi, i buchi.

Io la lasciavo fare ed ero felice e questa operazione avveniva ogni giorno, in ogni sua visita, e durava un tempo interminabile, non per necessità… o meglio… per la grande necessità che avevo io di amore, del suo amore, in modo esclusivo.

Un giorno le dissi persino che quella era l’estate più bella della mia vita. Lei scoppiò in un pianto a dirotto.

Ma io non ero impazzita! Ero semplicemente cosciente che la “disgrazia” mi aveva permesso di rivendicare dei diritti per me irrinunciabili e a cui avevo sempre rinunciato per rispetto, educazione, devozione.

In effetti in ospedale avevo tutte quelle attenzioni che, salvo nella mia primissima infanzia, mi erano state negate in seguito per quelle forme di moralismo per cui la vita è un dovere ecc. ecc., per cui è preferibile dare piuttosto che ricevere and so on.

Ma io, che ormai mi sono svelata come capricciosa e viziata («Ma mamma, non ti descrivere come un mostro!» direbbe mia figlia), vi posso dire che in quell’ospedale sporco, con le lenzuola bucate, dove colazione, pranzo e cena mi venivano offerte con ben tre possibilità di scelta, là, tra quelle mura maleodoranti che però mi proteggevano e isolavano da tutti i miei problemi, con la mia Filomena fedele e protettiva, fui quasi felice.

Mi accorgevo con terrore che “l’estate più bella della mia vita”stava per finire e ne ebbi la certezza quando il mio dottore mi disse, pensando di darmi una splendida notizia, che mi avrebbe dimessa «venerdì o sabato». Presi subito tempo e, dopo aver guardato la Filomena, ebbi la prontezza di dirgli: «Meglio sabato».

Lasciai, come era stato stabilito, la mia Filomena, il mio ospedale e anche il mio dottore, di sabato, e di colpo, con una violenza che mi parve inaudita la luce e il sole mi investirono. Quella stessa luce e quello stesso sole sotto i quali avevo avuto il mio attacco epilettico.

Mi sentivo violentata, oltraggiata.

Le chiuse mura dell’ospedale ora non avrebbero più potuto proteggermi ed io di nuovo sarei stata in balia del mondo. Non fu certo una bella sensazione.

Ebbi – in seguito – la presenza quotidiana di amici, alcuni totalmente inaspettati, ma non per questo meno cari. Cercai di mantenere i miei orari ospedalieri, non solo per necessità, ma soprattutto “ad memoriam”; telefonai a giorni alterni alla Filomena, chiedendo della camera C, letto 42; ricevetti io stessa telefonate regolari – e quotidiane addirittura – dal mio amico Paolo.

«Ora» mi diceva «devi pensare solo a te. Ora, ricordati, sei una donna di vetro».

Sì, ero una donna di vetro che nessuno però cercava di preservare dalle bufere e queste, quanto prima, bussarono di nuovo alla mia porta.

Io, come donna di vetro, non seppi resistere alla loro violenza e andai in frantumi.

In pezzi, in frantumi mi disperai.

Poi, un giorno, trovai nella cassetta delle lettere questo scritto.

Scusate, lasciate che prenda i miei occhiali dalla borsetta e vi legga. Un attimo solo… ecco… dunque: «Cara Mariapia, come stai? Io ti penso forte e guerriera con il mondo contro. Con “bambole d’argento” ai piedi e i libri sotto al braccio. Ma soprattutto ti penso sorridente, con quel tuo unico sorriso che apre finestre e pagine e sogni. Ti prego, non farti sopraffare dal quotidiano che devi solo rendere “infraordinario” e leggero. Resta unica e imprevedibile, con le scarpe e i libri e così resterai invulnerabile. Un abbraccio per ogni volta che ti penso. Tuo ***».

Dopo un simile scritto – vi chiedo – voi che avreste fatto?

Io penso che per me non esistano alternative. Ecco, allora, levo queste babbucce per indossare… oh là… oh là là… fatto! “bambole d’argento”.

Prendo, diciamo raccolgo, i miei libri: il mio Don Rigoberto, il mio giudice e, naturalmente, il mio Jules [e, raccogliendoli da terra, mostra al pubblico I quaderni don Rigoberto di Vargas Llosa, Lettera al mio giudice di Simenon, Jules et Jimdi Roché].

Sfodero il migliore dei miei sorrisi e, concedetemi, vi prego, mi do una ravviata ai ricci e, seguendo i consigli dell’anonimo amico, vi lascio per andare forte e guerriera con il mondo contro, dove? Ma… chi lo sa! Forse… forse alla ricerca di un mio Stige che mi renda definitivamente invulnerabile.

Si alza, mette i libri sotto il braccio – come ai tempi del liceo – si avvicina al tavolino, spegne l’abat-jour e se ne va.

Rientrerà per dire: «Questo monologo è dedicato a mio fratello Alfonso. Lui sa perché».

Lucca, marzo 2002

La foto in apertura è di Mariapia Frigerio

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