Olga, Livia e Zoe
Narrazioni, un atto unico. Mi sono sempre chiesta perché mia madre avesse così bisogno di amore… di amore di persone esterne alla famiglia. Avrei voluto che dedicasse più tempo a noi figli o ai suoi nipoti e non a generi, nuore e amici. Quando le dissi che la sua era una specie di prostituzione lei, come sempre, pianse
OLGA, LIVIA E ZOE
ATTO UNICO
Personaggi
Olga: la nonna
Livia: la nipote
Zoe: la pronipote
A sipario aperto, sul palcoscenico, stanno in fila (da sinistra a destra) tre donne. Olga, di circa ottant’anni, è vestita con un elegante abito nero, attillato, che segna la sua figura ancora armoniosa e porta al collo un’antica collana d’argento con mascheroni. È seduta in poltrona, con un libro in mano, a fianco di un tavolino. Livia, la nipote trentenne, fa ginnastica in body a righine coloratissime, con dei pesi, su di un tappetino. Posati di fianco ci sono un quaderno, un paio di jeans, delle t-shirt, una mela e una bottiglia d’acqua. Zoe, la pronipote di cinque anni, ha uno scamiciato in velluto rosso e alterna i giochi con una bambola di stoffa appoggiata a una seggiolina impagliata alle costruzioni col Lego che tiene in una cesta insieme ad altri oggetti. Un cono di luce illuminerà ora l’una ora l’altra, a seconda di quella che parla. La figlia di Olga (madre di Livia e nonna di Zoe) non ha nome e siede in un palchetto in alto, vicino al boccascena, ma poco visibile al pubblico. Anche lei verrà illuminata, ma la sua immagine non sarà completamente visibile a tutti. Di lei avrà importanza soprattutto la voce.
OLGA: (Chiude il libro che ha tra le mani e, dopo essersi levata gli occhiali, inizia a parlare) Quando sono stanca dormo su questa poltrona. A qualunque ora del giorno. E la sera non vado mai a letto prima delle due. Per me dormire è un po’ morire. Mia figlia si dispera. Dice che il corpo ha bisogno di distendersi, per riposarsi veramente. Soprattutto alla mia età. Dice che per lei dormire è sognare. Dice… dice… dice sempre tante cose. Credo che non voglia capire. Non voglia capire che faccio questo pensando a mio padre. (Riapre il libro e riprende a leggere)
LA FIGLIA DI OLGA: Non mi vuole ascoltare. Io, invece, l’ho sempre ascoltata. Forse troppo. Ho amato molto anche suo padre, un nonno mai conosciuto. Lei me lo rendeva vivo con i suoi racconti. Ora lo vedo con occhi diversi. Vedo tutto il suo egoismo. Credo che abbia rovinato la vita di mia madre. Ma a lei non lo dirò mai. Del resto sono sempre stata reticente con lei.
LIVIA: (Sdraiata incrocia le braccia con i pesi sul petto. Poi, con elasticità, si mette a sedere con le gambe all’indiana e appoggia i pesi da un lato) Da ragazza dormivo in un letto che era stato di mio padre. Un grande letto a barca. Ora, nella mia casa, quando cucino penso a lui. Per lui è sempre stato importante il cibo. Non sono una grande cuoca, ma anch’io amo molto mangiare. Anche in questo gli somiglio. No… no, per mia madre il cibo non ha mai avuto importanza. Ha sempre detto: «Vorrei delle pillole che mi risolvessero il problema del cucinare». Ha sempre comprato l’insalata in buste. Io me la preparo. Senza sforzo. Come piace al babbo. (Sempre da seduta fa esercizi con i pesi per le spalle)
ZOE: (È impegnata a cercare di mettere sulla seggiolina la bambola. Poi, come se parlasse a se stessa, si volge al pubblico) Il mio papà dorme spesso sul divano. È bello il mio papà. La nonna ha una grande foto di me, della mamma e del papà. Quando vado dalla nonna sono contenta. La nonna mi vuole bene. Io, per scherzo, le dico che gliene voglio poco poco. Lei piange e allora io le dico che è uno scherzo.
OLGA: (Con gli occhi socchiusi come se sognasse) Ero una bambina timidissima. Mai avrei dimostrato dell’affetto a mio padre. La timidezza me lo avrebbe impedito. Così, mentre lui sedeva a tavola, io gli baciavo la schiena. Lui non se ne accorgeva. Erano baci delicati, i miei. La tata mi diceva: «Olga, ungi la giacca al tuo papà. Poi bisogna mandarla a lavare».
LIVIA: (Smettendo gli esercizi con i pesi) Da piccola ero molto timida. Eppure ero attratta da lui. Avevo pochi anni quando gli portavo a letto il caffè con il giornale. Mi piacevano le sue grandi mani. Aspettavo che mi accarezzassero.
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ZOE: (Sovrappensiero) Io mi vergogno e non saluto. Quando la nonna mi ha portato dove racconta le fiabe, io ho fatto tutto il tempo: «Mmm… mmm… mmm». Non volevo che parlasse agli altri bambini.
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OLGA: (Con gli occhi nuovamente aperti) Era un uomo solo. Io una bambina di nove anni senza mamma. Per questo mi voleva con sé. A volte mi portava a fare le visite con lui. Lui saliva dai pazienti. Io restavo in macchina. Crollavo per la stanchezza. Sui cuscini appoggiati al sedile posteriore, in quelle auto-salotto degli anni Quaranta, io, nel sonno, facevo pipì. Quando rientravamo a casa informava la tata dell’accaduto. A me, però, non diceva niente. (Riprende la lettura)
LIVIA: (Con tono deciso) Un uomo che dava importanza ai ruoli. E io ero femmina. Gli somigliavo molto. Avevo il suo stesso bisogno di libertà. Femmina. Così iniziarono le nostre liti. Non era un padre diplomatico. La sua irruenza e le sue furie, i suoi malumori e le sue insicurezze si riversavano su di me. Allora diventava crudele. Psicologicamente crudele.
LA MADRE DI LIVIA: (Con voce sommessa) C’è una malinconia in Livia che non l’abbandona. Neppure quando sembra felice. Gliela si legge in fondo agli occhi. Ai suoi occhi d’oro. Io ne soffro. Mi chiedo se non sia colpa mia. Colpa di non aver avuto il coraggio di difenderla dalle aggressioni verbali di suo padre. Vorrei tanto che si amassero. So che si stimano. Al di là delle apparenze.
ZOE: (Leva la bambola dalla seggiolina e si mette lei a sedere) Il papà dice che chi comanda è lui. Vuole che stia a tavola accanto a lui, quando andiamo insieme dalla nonna. Lo voglio anch’io. Ogni volta la nonna deve spostare il mio piatto dal posto accanto al suo.
OLGA: (Alzando gli occhi dal libro) Mi sembrava enorme la poltrona di marocchino. Qualcosa tra un divano e un letto. Dormivo lì. Mio padre non rientrava mai prima delle nove di sera. Voleva che lo aspettassi per fargli compagnia mentre cenava. Io mi addormentavo e, anche su quella poltrona, sovente facevo pipì.
LIVIA: (Smettendo un esercizio di stretching) Un libro enorme, quello che mi portò mio padre una volta che ero a letto malata. «La Divina Commedia» illustrata da Doré. Avevo sei o sette anni. Mi misi a leggerlo. Quando il babbo mi domandò se mi piacesse, gli dissi: «Ho letto cinque pagine. Mi piace molto anche se non lo capisco».
ZOE: (Mentre leva dalla cesta i pezzi di Lego) Il letto della nonna è altissimo. A volte, per salirci da sola, mi aggrappo alle lenzuola. La nonna dice di non disfarlo, se no non mi porta a Parigi. Io voglio andare con la nonna a Parigi. Ma non so cos’è Parigi.
OLGA: Ha sempre preteso molto da me. Proprio in quanto donna. Potevo studiare come i miei fratelli, ma dovevo, innanzitutto, essere la padrona di casa. Al posto di mia madre. Non era facile. Si può forse sostituire una madre, mitizzata perché morta?
LIVIA: Non mi ha mai considerata. Proprio in quanto donna. Ero brava a scuola, ma lui diceva che non ero intelligente. Solo molto studiosa. Non era una situazione allegra per me. Che tutte le mie insicurezze vengano da lì?
ZOE: Vuole che mi pettini come dice lui. A lui non piace la mia frangetta.
OLGA: Usava frasi lapidarie. Quando mi innamorai di un modesto impiegato, mi disse: «Mia figlia guarda nel fango».
LIVIA: Se un ragazzo entrava in casa, mio padre non lo salutava. Una volta, con la scusa di innaffiare il giardino al mare, bagnò tutta la moto di un mio amico.
ZOE: Il papà dice che se la nonna mi vuole deve chiedere il permesso a lui e non alla mamma.
LA FIGLIA DI OLGA (NONNA DI ZOE): Dico spesso a Zoe: «Tu sei il mio grande amore». Ma la verità è che il mio grande amore è mia figlia Livia. Le dico una bugia. Ma è una bugia d’amore. Amore… Chi non mi ama è il padre di Zoe. L’ho capito da tempo. Un giorno non mi amerà più neppure lei. Spero che quel giorno sia ancora lontano.
OLGA: Credo di essermi “prostituita” per amore. Sì, ho sempre fatto di tutto perché mi amassero. Avrei voluto essere una suocera amata. Non credo di esserci riuscita.
LA FIGLIA DI OLGA: Mi sono sempre chiesta perché mia madre avesse così bisogno di amore… di amore di persone esterne alla famiglia. Avrei voluto che dedicasse più tempo a noi figli o ai suoi nipoti e non a generi, nuore e amici. Quando le dissi che la sua era una specie di prostituzione lei, come sempre, pianse. Poi, con il solito tono, disse: «Ma pensi mai a che vita ho avuto?». Certo che ci pensavo. Ci ho sempre pensato. La verità è che con mia madre è impossibile parlare se hai un’opinione diversa dalla sua. Sono, come sempre, stata zitta.
LIVIA: C’è stato un momento in cui cambiavo spesso ragazzo. Nonna Olga mi disse: «Nessuno dei tuoi zii avrebbe voluto una ragazza come te».
«Ti voglio bene, nonna, c’è confidenza tra noi, ma non ti permettere più di interferire nella mia vita privata». È stata zitta.
LA MADRE DI LIVIA: Quando Livia mi ha raccontato della sua risposta decisa alla nonna ho provato invidia per lei. A lei era permesso quello che a me, sua figlia, non sarebbe mai stato possibile dire. Mi sono anche detta: «Ma che frase di cattivo gusto». Poi mi sono ricordata che era cresciuta con un padre che le diceva: «Mia figlia guarda nel fango». L’ho spiegato a Livia.
ZOE: A me piace molto il mio papà. Mi piace anche il mio nonno e lo zio. E anche il mio bisnonno.
LA NONNA DI ZOE: (Parlando dal palchetto alla nipotina pur sapendo benissimo che non la può sentire) Piccola Zoe, anche a me piaceva molto il mio papà. Adoravo anche suo padre, il mio unico nonno, ed ero innamorata di suo fratello, uno zio bellissimo. Ma avevo cinque anni. Come te. E nessuno può credere che a cinque anni si possa amare. Io fingevo così di giocare con lui. Fingevo di fare la bambina, ma dentro di me provavo emozioni da donna. … Eh no, cara, quanto a bisnonni io non avevo bisnonni.
OLGA: La casa di mio padre è stata la mia unica casa. Anche quando mi sono sposata e ne ho avute altre, quella è rimasta la mia casa di riferimento. Mio padre era morto. C’era però il suo spirito. Ho cercato di ricrearne l’atmosfera nelle altre in cui ho vissuto. Come se quella fosse l’unica casa degna di essere abitata. (Si alza ed esce)
LIVIA: Non ho amato la casa di mio padre. Troppi oggetti. Troppe tende. Troppi tappeti. Troppi quadri. Troppi libri. Troppa infelicità. Una casa molto grande che lui riempiva di agitazione e malumore. Ricordo, però, una volta… avrò avuto circa sedici anni… non so come, ma lui accettò l’idea di mia madre di invitare a cena, dopo lo spettacolo serale, un’intera compagnia di attori. Erano circa una ventina quelli che recitavano nell’ «Ispettore generale» di Gogol. La casa si riempì. Chi in sala da pranzo, chi in salotto, chi nello studio, chi in cucina. Dissi a mia madre che era stato, quello, il più bel giorno della mia vita. Ora vivo in una casa piccola, che guarda il mare. Non vorrei vivere altrove.
LA MADRE DI LIVIA: Mi ricorderò sempre quello che mi disse mia figlia: «Questo è il più bel giorno della mia vita». Ma non fu solo la volta in cui venne l’intera compagnia dell’«Ispettore generale» a casa nostra. Credo abbia avuto altri momenti di felicità. E credo che ogni volta dipendessero dalla venuta di persone da noi. Soprattutto quando ospitavo attori. I miei amici attori.
ZOE: (Che ha appena terminato una specie di torre coloratissima col Lego) Il mio papà ha dipinto la nostra casa. Di rosa, di arancio, di verde e di azzurro. Ho promesso che non scriverò più sui muri. Così la casa è sempre bella. L’ho detto anche al mio fratellino di non scrivere più sui muri. Ma Vasco rompe tutte le mie cose.
OLGA: (Rientrata si mette nuovamente sulla poltrona e si dà il rossetto sulle labbra. Si osserva con un piccolo specchietto. Poi, rattristata, lo posa sul tavolino a fianco del libro) Sono proprio invecchiata… E non è per l’età. È per mio figlio. Credo di essere stata una bella ragazza… ma come potevo rendermene conto? I miei fratelli non facevano che dirmi che ero brutta. Si prendevano gioco di me. Si facevano forti delle mie insicurezze. Per divertirsi… per ridere di una bambina senza mamma.
LA FIGLIA DI OLGA: La bellezza era bandita in casa di mia madre. Non era un valore. Suo padre le diceva che contava solo la bellezza dell’anima. I miei nonni paterni, invece, mi dicevano che ero “la più bella”. Di chi? Non ha importanza. Importante era che si interessassero a me anche per il mio aspetto esteriore. Anch’io dico a Zoe che è bellissima. Credo che faccia bene a una bambina sentirselo dire. Forse non l’ho fatto abbastanza con Livia… In ogni caso mia madre era veramente bella. Talmente bella da mettere in imbarazzo una bambina timida come me… In quel periodo l’avrei preferita anonima, come tante madri di miei amici. Da ragazza, invece, ne andavo orgogliosa. La sua bellezza mi rassicurava.
LIVIA: (Si passa la mano sul ventre per controllare che sia piatto. Poi si accarezza le cosce) Ho ossessionato per anni mia madre con la cellulite. Ogni sera andavo accanto al suo letto e la imploravo di controllarmi le cosce. Capivo che lei avrebbe voluto leggere prima di addormentarsi, mentre io la costringevo ad esaminarmi e a tranquillizzarmi. Non ho cellulite. Sono sempre stata sportiva. Ma in quella casa piena di tutto, mio padre una volta mi disse che ero brutta. Mio fratello me lo dice ancora. Mi chiedo perché sia sempre così astioso con me… Io, invece, sarei stata felice di avere un fratello complice.
ZOE: (Fingendo di mettere a dormire la bambola di pezza sul pavimento)
Vasco ha rotto la mia Barbie. Io non rompo i suoi giochi.
OLGA: (Passandosi una mano nei capelli ancora folti e scuri nonostante gli anni) Credo di aver amato in tutti questi anni mio marito perché ha sempre continuato a corteggiarmi. Per il resto mi ha schiavizzata… beh, mi ha schiavizzata da uomo innamorato. Mi ha levato comunque la mia indipendenza.
LA FIGLIA DI OLGA: Ho sempre pensato che mia madre fosse stata fortunata ad avere trovato un uomo come mio padre. Un uomo che, nonostante gli anni, continuasse ad amarla. Lei non se lo è mai voluto sentir dire. Per lei mio padre è pieno di difetti. A volte mi sconvolge questo suo vivere nelle nuvole. Non sa proprio come possano essere gli altri mariti. Vive in un mondo immaginario. Un mondo solo suo e ha la presunzione di credere che sia quello vero.
OLGA: (Di soprassalto) La mia indipendenza!
LA FIGLIA DI OLGA: Povera mamma. Mi fa rabbia e pena al tempo stesso. Non sopporto più le sue certezze lapidarie… poi mi fa pena vederla così debole con mio padre… forse… forse ha ragione… forse lui le sta levando la sua indipendenza.
LIVIA
Quando conobbi Diego telefonai a nonna Olga e le dissi: «Mi sono innamorata. Lui assomiglia al nonno».
Un doppio cono di luce illumina contemporaneamente Olga e Livia che, a questo punto, dialogano tra loro.
OLGA: (Rivolta a Livia che sta mangiando una mela a morsi) Sempre con le mele. Sì… sì, mi ricordo la tua telefonata da Madrid. Com’eri felice!
LIVIA: Oggi lo sono un po’ meno… È difficile sai, nonna, tanto difficile. Zoe e Vasco mi impegnano tantissimo. E lui, forse, non è proprio come il nonno…
OLGA: Anche il nonno… non credere…
LIVIA: Nonna, per favore! Ma ti sei mai chiesta come sono i mariti comuni?
OLGA: Non incominciare anche tu. C’è già tua madre…
LIVIA: Questa volta sono d’accordo con lei. Ha ragione lei.
OLGA: Certo! Perché lo confronta con il suo…
LIVIA: Basta, nonna. Basta col babbo. Non darle sempre addosso per la sua scelta. Poi… dopo tutto questo tempo…
OLGA: Ho taciuto per tanti anni. Con tutti. Adesso esigo che mi si lasci parlare. Hai capito, Livia?
LIVIA: Ma nonna… hai sempre detto tutto quello che volevi… direttamente o indirettamente… (Con tono distaccato) Comunque ora torno a fare ginnastica. (Il cono di luce si spegnerà su di lei. Resterà solo quello su Olga)
OLGA: (Si asciuga le lacrime con un fazzoletto) Nessuno mi vuole capire… sono sempre più sola…
LA MADRE DI LIVIA: (Come se la figlia potesse sentirla) Non voglio che tu faccia piangere la nonna. Hai ragione. Hai perfettamente ragione, lo so. Innervosisce anche me, ma non posso vederla così. È la mia mamma.
ZOE: Vasco dice che da grande vuole giocare al pallone. Io da grande voglio studiare. Poi voglio un marito come lo zio. Forse sposo lo zio Lucio. E allora mi metto un vestito tutto rosa.
OLGA: (Trasognata) Mio figlio… sì, il pensiero di mio figlio mi tormenta. Non viene più a trovarmi. L’ultima volta che lo sentii al telefono gli dissi: «Che bello sentire la voce del mio Luchino». Lui mi rispose: «Non sono più il tuo Luchino. Sono Luca e basta». (Riprende a piangere)
LA FIGLIA DI OLGA: Non fa altro che piangere. Ha sempre pianto. Questo mi ha impedito di parlare liberamente con lei… sì, ero spaventata all’idea che lei piangesse. Ora non riesco più ad essere diplomatica. Le dico anch’io quello che penso. E la faccio piangere. Anche riguardo a mio fratello Luca. Io capisco Luca. Luca soffre. Non riesce ad uscire serenamente dalla sua separazione. Mia madre, invece, non capisce. È astiosa. Sia con me che con lui. Le colpe per lei sono solo dei coniugi. Di mio marito e della sua ex moglie. Così come i difetti dei suoi fratelli erano da imputare solo alle loro mogli. Non riesce ad avere uno sguardo oggettivo sulle situazioni. Men che meno sulle persone.
OLGA: Era, dei miei figli, quello che più mi assomigliava. Era come me. Mi sbagliavo.
LA FIGLIA DI OLGA: (Come se la madre potesse sentirla) Ma che presunzione, mamma! Come se essere uguale a te fosse un merito. Livia è diversissima da me. E forse è proprio per questo che la amo tanto. Luca… Luca è il migliore dei tuoi figli. Dopo di lui, forse, ci sono io. Ma tu ti commuovi sempre e solo per gli altri. Che, tranquillamente, si sono fatti la loro vita. Luca ed io, invece, per troppi anni abbiamo vissuto la tua di vita. Ora vogliamo, nel bene o nel male, vivere la nostra.
OLGA: (Come se l’avesse sentita) Credi che non me ne sia accorta? (Continua a piangere)
LA FIGLIA DI OLGA: C’era un tempo in cui anch’io piangevo sempre. Per la minima cosa. È mio marito che mi ha fatto smettere. Lui non lo tollerava. Mi diceva: «Insultami, se vuoi, ma smettila di piangere». Gliene sono grata. Mia madre direbbe che mi ha levato sensibilità. Non è vero. Vorrei però, a parte tutto, che Luca fosse un po’ più tenero con lei.
LIVIA: (Dopo aver bevuto direttamente dalla bottiglia) So solo io quanto ho voluto Vasco. Zoe era piccola. In quel periodo le cose non andavano troppo bene con Diego. Il fatto che io aspettassi un bambino creò altri problemi tra noi. Lui era indifferente al fatto che lo tenessi o meno. So che lo volli con tutte le mie forze. È dolce Vasco. Un cucciolo tenero. Però sovente dice: «Io sono un maschio». Mi chiedo come diventerà da grande. Quando maschio diventerà davvero.
LA MADRE DI LIVIA: Era dolcissimo Lucio da piccolo. Per anni mi sono appoggiata a lui. Avevamo i nostri piccoli segreti. No, Livia era troppo indipendente. Fin da bambina ha fatto la sua vita. Poi Lucio è cresciuto e io sono stata solo oggetto delle sue critiche. Appoggiava il padre nel criticarmi. Ne ho sofferto molto.
LIVIA: Una volta trovai uno scritto di mia madre. Avevo circa sedici anni. Mi colpì, anche se non lo capii completamente. Ne ricopiai un pezzo sul mio diario perché non si accorgesse che avevo curiosato sul suo scrittoio. Ora lo capisco… ora mi sono spiegata tante cose. (Legge dal diario) […] «La vita di ogni donna è costellata di uomini. Tutte hanno un padre. Molte un fratello. Tante un marito. Troppe un figlio. Poi ci sono gli altri. Ogni donna soffre. Dell’essere figlia in primo luogo. Quindi della nascita di un fratello. In seguito di avere un marito. Infine di partorire un figlio. La donna circondata da uomini (padre, fratello, marito, figlio) non può pensare che esistano gli altri. Non li cerca. Pensa che tutti i suoi uomini le procurino già abbastanza sofferenze. Pensa che vorrà, un giorno, pensare solo a se stessa» […]
LA MADRE DI LIVIA: Mi accorsi benissimo che Livia era stata sul mio scrittoio. Una maniaca dell’ordine come me! Sperai che non capisse la disperazione che mi aveva portato a scrivere quello che intitolai «Delirio al femminile».
ZOE: Da grande voglio tre bambine. Le voglio chiamare Rosa, Aurora e Serena. Non voglio dei maschi perché urlano sempre e rompono tutto.
Ora tre coni di luce (molto soffusa) illumineranno contemporaneamente le tre donne in scena mentre, dalla quinta di sinistra, entrerà e si siederà sulla scaletta che dal proscenio porta alla platea, illuminata da un intenso cono di luce, la figlia di Olga
LA FIGLIA DI OLGA: (Indosserà un completo di velluto prugna, con gonna lunga, di vago sapore preraffaellita. Ignorando madre, figlia e nipote si rivolgerà direttamente al pubblico) Penso sovente ai rapporti di mia madre, di mia figlia, di mia nipote con i loro padri. Poi penso a quello col mio. C’è una foto di me bambina che piango mentre faccio il bagnetto in un lavandino. Mi è sempre stato detto che ero una bambina capricciosa. Per me è il mio “Urlo” di Munch. Un grido esistenziale. Di disperazione. Di solitudine. Dov’era mio padre quando nacqui? Perché non era con mia madre Olga? Forse lo amavo anch’io, come Zoe ama il suo, per la sua assenza? (Indicando le donne in scena) Tre donne. Olga, mia madre, Livia, mia figlia, Zoe, mia nipote. Poi io. Quattro donne che hanno in comune la scelta del padre.
OLGA: (Nuovamente colpita da un cono di luce intensa che si smorzerà non appena avrà finito di parlare) Non ricordo di aver avuto nemmeno una carezza da mia madre.
LA FIGLIA DI OLGA: E quel libro che solo ora si è decisa a leggere? Me lo regalò molti anni fa.
OLGA: (Nuovamente colpita da un cono di luce intensa che si smorzerà non appena avrà finito di parlare. Ricordando come in sogno) «Questo è il libro che stava leggendo mia madre quando morì. Lo vuoi? Non so cosa amasse leggere mia madre».
LA FIGLIA DI OLGA: Fui felice di quel dono. Perché, per molti anni, la mia vita fu solo un rivivere la vita di mia madre. La sua infanzia dolorosa. Lessi il libro. All’epoca la cosa non mi turbò. Non mi turbò, intendo, il fatto che me lo avesse dato. Oggi mi chiedo: perché darlo a me? Io, se avessi perso una mamma a nove anni, avrei cercato di scoprire tutto di lei. Avrei letto io il libro. Oh no, no. Anch’io con queste diaboliche certezze! No. Chissà cosa avrei fatto, invece, io… Ora, però, lo ha sempre tra le mani… Gliel’ho riportato. Vedete? (La indica al pubblico) È quello che sta leggendo. Ha amato, invece, gli autori del padre…i russi … i tedeschi… Ce ne ha sempre parlato.
OLGA: (Nuovamente colpita da un cono di luce intensa che si smorzerà non appena avrà finito di parlare) Non mi piace «Maria Zef». Chissà perché mia madre lo leggeva.
LA FIGLIA DI OLGA: Trovai, lo scorso anno, Paola Drigo, l’autrice di «Maria Zef», in un’antologia scolastica. Citata, insieme a Verga e Capuana, tra gli scrittori veristi. Una scrittrice verista friulana. Mi commossi. Mi ero già commossa pensando a quella donna morta giovane, alle soglie dei cinquant’anni. Pensando a quella mia nonna. Avrei voluto conoscerla. Al di là dei miti familiari.
LIVIA: (Colpita da un cono di luce intensa che si smorzerà appena avrà finito di parlare. Si rivolge a Zoe che nello stesso tempo verrà illuminata) Leva immediatamente il libro che mi ha regalato il nonno dalla cesta dei tuoi giochi.
LA MADRE DI LIVIA: Già… il suo Vangelo rilegato in avorio. Glielo regalò suo padre per la prima Comunione. A una ribelle poco religiosa come lei. Eppure… eppure ci tiene a quel dono. I miei doni hanno fatto tutti – immancabilmente – una brutta fine. Ma io non sono suo padre.
ZOE: (Colpita da un cono di luce intensa che si smorzerà appena avrà finito di parlare. Piange) Vasco ha strappato «Cenicienta» che mi aveva portato il papà da Madrid. (Mostra al pubblico le pagine strappate di «Cenerentola»)
LA NONNA DI ZOE: Anche per lei una reliquia il dono di Diego. E tutte le fiabe che le ha sempre regalato Livia? Del resto anch’io… non so perché… ma scelgo mio padre… Lo proteggo e lo giustifico. Sempre… o quasi. Sul mio comodino ho la sua foto. Non quella di mia madre. Forse tutte noi amiamo il sogno di un padre che non esiste. Un sogno irrealizzato. Forse per questo più amato. Che sia questo quello che, nonostante tutto, continua a tenerci unite?
Di nuovo, alternatamente, il cono di luce colpirà Olga, Livia e Zoe. La figlia di Olga (madre di Livia e nonna di Zoe) osserverà quanto avviene restando seduta sulla scaletta.
OLGA: (Mentre sente suonare il campanello) Sono in ritardo. Devo ancora pettinarmi. Dirà che, come sempre, gli faccio fare tardi a teatro. (Si tocca il collo) La collana… per fortuna ho già messo la collana.
LA FIGLIA DI OLGA: Come mi piacevano quei mascheroni da bambina! Uno che piange, uno che ride, uno che… Dimenticavo! Un regalo di suo padre. Naturalmente.
LIVIA: (Mentre sente suonare il campanello) Oddio! Diego e Vasco che ritornano dalla passeggiata e io non ho ancora preparato cena. (Si infila velocemente i jeans sul body e si mette la t-shirt grigia con la scritta rossa “Grazie a Dio sono ateo, Buñuel”. Poi, dopo un attimo, se la leva)
Lucio… un regalo di mio fratello Lucio. Aveva sedici anni. Io diciassette. Tornava da un corso estivo a Londra… allora forse mi amava… eravamo così uniti lui ed io… ma non posso tenerla… Diego è così religioso… (Se la leva e indossa l’altra, quella blu, con la scritta fucsia “Cerco un centro di gravità permanente, Battiato”) Questa forse è meglio… anche se andai al concerto di Battiato prima di conoscerlo… E lui è geloso. Ma è tardi, ormai. (Rivolgendosi a Zoe, che nel frattempo verrà illuminata) Sbrigati a mettere a posto. E vai ad aprire la porta mentre io preparo.
ZOE: (Che sente il campanello in differita) Il papà e Vasco stanno tornando. (Cerca qualcosa nella cesta. Prende un cerchietto dorato) Adesso mi metto il cerchietto perché il papà non vuole vedermi con la frangetta. Uffa! Vasco toccherà tutte le mie cose.
LA FIGLIA DI OLGA: (Mentre osserva le tre figure che si allontanano) Ecco, vedete, basta un campanello… il suono di un campanello e la loro vita riprende come sempre. Mi spiace lasciarle. Mi mancheranno. Ma anch’io devo andare. Abbandono questo sogno a quattro e me ne torno a casa. No. Io non aspetto campanelli. Io mi aprirò da sola la porta. Mi siederò allo scrittoio. Penserò a loro. Guarderò le loro foto. E, nella mia solitudine, riprenderò a scrivere «Delirio al femminile». (Scende in platea, l’attraversa, ed esce)
Buio in sala.
Lucca, 26 aprile 2009
La foto di apertura è dell’Autrice
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