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Perché il terrorismo islamico

Nessuno si stupisca, ha poco a che vedere con la religione musulmana. Ha invece molto in comune con le filosofie e i movimenti romantici, irrazionalisti e nazionalisti partoriti in passato in Europa. Il culto totalitario della morte è figlio dell’Occidente. Siamo ancora una volta, in forme nuove, allo scontro frontale tra spirito di autodistruzione - figlio del vecchio continente, esportato altrove - e i valori fondanti dell’Illuminismo. Come uscirne? C’è la via dell’interazione, del multiculturalismo o dell’assimilazione

Alfonso Pascale

Perché il terrorismo islamico

Gli attacchi terroristici avvenuti in Francia ancora una volta colpiscono cittadini inermi. Si spande terrore a Parigi per colpire i valori della rivoluzione francese e, con essi, i valori della democrazia in Occidente. Alcuni testimoni hanno raccontato che gli attentatori sparavano inneggiando ad Allah. Ma il terrorismo islamico ha poco a che vedere con la religione musulmana. Ha, invece, molto in comune con le filosofie e i movimenti romantici, irrazionalisti e nazionalisti partoriti in Europa tra la seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento e che hanno dato vita ai totalitarismi (stalinismo, fascismo, nazismo).

Non siamo in presenza di uno scontro di civiltà tra il Sud e il Nord del mondo o tra Occidente e Oriente. Siamo ancora una volta, in forme nuove, allo scontro frontale tra lo spirito di autodistruzione, che è figlio dell’Europa e che dal vecchio continente è stato esportato altrove, e i valori fondanti dell’Illuminismo che hanno portato nel tempo al riconoscimento dei diritti umani, all’idea della democrazia come processo in divenire di errori e correzioni di errori, all’importanza dello sviluppo scientifico-tecnologico e degli scambi, guidato da una politica responsabile, e all’idea che una singola vita umana non debba mai essere sacrificata per un ideale politico o un sentimento religioso o un’esigenza comunitaria.

È per questo che il terrorismo islamico incrocia ovunque un’area estesa di connivenza e di simpatia in individui e gruppi che continuano a coltivare pulsioni e idee autodistruttive e palingenetiche.
Dinanzi all’incrudire di questo scontro, la battaglia culturale, etica e morale da condurre è contro la riesumazione di queste pulsioni e idee in cui alle vecchie contrapposizioni di classe, di razza o di religione si aggiungono nuovi binomi: oppressi/oppressori, imprese locali/multinazionali, naturale/artificiale, nord/sud. Conflitti generalizzati costruiti astrattamente e mai verificati e differenziati, caso per caso, nelle situazioni concrete.

Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in concomitanza con lo sviluppo delle culture europee che hanno dato vita ai totalitarismi, nascono in Medio Oriente e si espandono nel mondo arabo i movimenti fondamentalisti che si richiamano all’identità di razza e/o di religione. Essi sono figli dei primi movimenti di massa europei.

Uno dei maggiori analisti americani del terrorismo islamico, Paul Berman, nel saggio Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista ha raccontato in modo puntuale i legami culturali e politici tra i primi movimenti di massa europei e le organizzazioni fondamentaliste ancora oggi attive nel mondo.
Negli anni Trenta del secolo scorso, si sviluppa in tutte le maggiori città del mondo arabo una presenza comunista significativa collegata a Stalin e alla sua concezione totalitaria del potere. Il socialismo Ba’th è una branca del grande movimento panarabo fondato negli anni successivi alla prima guerra mondiale da Satia al-Husri, sulla base dei suoi studi filosofici, condotti in Occidente e focalizzati su Fichte e sui romantici tedeschi: i filosofi del destino nazionale, della razza e dell’integrità delle culture nazionali. I suoi interlocutori in Europa sono i fascisti e i nazisti.

Uno dei testi più in voga nei paesi arabi è I fondamenti del diciannovesimo secolo di H. S. Chamberlain, che tratta la questione razziale. Il fondamentalismo che si sviluppa in Pakistan sorge negli anni trenta (con un’organizzazione nel 1941). I Fratelli Musulmani nascono come setta politica in Egitto nel 1928. E questi movimenti hanno contatti molto stretti con il franchismo e con il nazismo. I “Fratelli Musulmani” chiamano le loro unità organizzative “Falangi”.

Gli scrittori islamici di quel periodo si abbeverano alle idee di Heidegger. Lo scrittore più influente della tradizione fondamentalista è l’egiziano Sayyid Qutb che nasce nel 1906, sette anni prima di Camus. Egli riceve nell’infanzia una rigorosa educazione religiosa. Ma ben presto accarezza l’idea del socialismo e si immerge nella letteratura occidentale, va a studiare negli Stati Uniti, ottenendo un master in pedagogia presso l’University of Northern Colorado, a Greeley. Torna in Egitto ed entra nei “Fratelli Musulmani”. Egli scrive una gigantesca opera di esegesi in trenta volumi dal titolo All’ombra del Corano. Emerge in quest’opera il concetto dell’islam come “totalità”. Anche per George Lukacs, il marxismo si distingue dal pensiero borghese per “il primato della categoria della totalità”.

Come perspicuamente ha rilevato di recente il giornalista Giuseppe Sarcina, nel testo sacro dell’islam i riferimenti espliciti alla dimensione politica sono solo due. Il primo è il “versetto dei potenti” (Sura delle Donne, 4, 58-59): «Iddio vi comanda… quando giudicate fra gli uomini, di giudicare secondo giustizia… O voi che credete! Obbedite a Dio, al suo Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorità».

L’altro passaggio, brevissimo, si trova nella Sura della Consultazione, la 42ª, versetto 38: «Coloro che obbediscono al loro Signore… delle loro faccende decidono consultandosi tra di loro». Tutta la costruzione teorica di Qutb e dei fondamentalisti islamici sull’identificazione tra politica e religione sembra poggiare su questi esigui dettati coranici. Ma in realtà poggia sul mito biblico della guerra dell’Armageddon, secondo il quale gli abitanti ricchi, corrotti e sovversivi di Babilonia saranno sterminati e con loro verranno soppresse tutte le loro abominazioni. Terminato il terribile sterminio di queste “forze sataniche”, si stabilirà il regno di Cristo e il popolo di Dio vivrà nella purezza.

Si possono riconoscere in questo mito i temi di base e lo spirito di questo mito in poeti come Rimbaud e ancor più in Rubén Darìo. Dopo la prima guerra mondiale, dalla letteratura e dalla poesia, il mito primordiale di Armageddon e di Babilonia passa alla teoria politica in versioni aggiornate: una “parte sana” della società che si vede minacciata dal “male”, il quale deve venire eliminato – a tutti i costi – e, per rendere possibile questa eliminazione, è necessario il sacrificio che si traduce di fatto in “licenza di uccidere”.

A comporre la “parte sana” sono i proletari o le masse russe per i bolscevichi di Lenin e gli stalinisti, i figli della lupa romana per i fascisti di Mussolini, la razza ariana per Hitler, i guerriglieri di Cristo re per la Falange di Franco, i musulmani per Qutb. Mentre gli abitanti corrotti e sovversivi di Babilonia, che commerciano beni di tutto il mondo e corrompono la società coi loro abomini, sono la borghesia e i kulak per i bolscevichi e gli stalinisti, sono i massoni e le tecnocrazie cosmopolite per i fascisti e i falangisti, sono gli ebrei per i nazisti, e in misura minore per gli altri fascisti, e infine anche per Stalin, e sono i falsi musulmani, gli “ipocriti”, in combutta con gli ebrei e i “crociati” cristiani per Qutb.

In ogni versione del mito avviene sempre il bagno di sangue dello sterminio totale per raggiungere il regno, cioè una società perfetta, unita su tutta la faccia della terra, ripulita dagli elementi corrotti e dagli abomini, capace di durare mille anni. La gihad non è altro che lo sterminio totale del mito biblico della guerra dell’Armageddon. Il culto totalitario della morte è figlio dell’occidente.

L’attacco all’idea di libertà e di democrazia da parte del fondamentalismo islamico coincide con la critica radicale al capitalismo che deriva dalle culture originarie dei totalitarismi del Novecento e che ancora oggi imperversano. Ma il capitalismo non è più quello descritto da Karl Marx. Esso si è trasformato nella “società aperta”, secondo la più appropriata definizione data da Karl Popper agli attuali meccanismi economici, sociali e politici presenti nei paesi occidentali, in cui i sistemi giuridici, da perfezionare continuamente attraverso la democrazia, regolano il mercato e il libero scambio. E la società aperta è tale perché tutti nel mondo possono concorrervi e orientarla mediante procedure democratiche.

Dovremmo finirla una volta per tutte con il senso di colpa dell’Occidente, che produce un pacifismo autolesionista. Basta con il multiculturalismo banale, relativista, privo di principi. C’è in questo atteggiamento dimesso il senso di sfiducia nella democrazia e l’idea che la messa in campo di nuovi soggetti mondiali possa riaprire la strada per un sovvertimento totale.

Non si ha l’ardire di richiamare l’idea di sterminio o il bagno di sangue, ma l’antefatto è quello. In un mondo di grandi migrazioni, la battaglia politica e culturale per difendere la “società aperta” è oggi tutt’uno con quella per il reciproco riconoscimento tra persone e gruppi di diversa cultura o fede religiosa.

La via della interazione, ideata ma poco praticata in Italia, è quella più promettente per realizzare questo reciproco riconoscimento, rispetto all’idea del multiculturalismo britannico e dell’assimilazione francese. Una interazione da fondare però sulla base di valori e diritti comuni, e a patto che non comporti la rinuncia alla propria identità, il relativismo culturale o la superbia intellettuale.

Accanto alla sfida della sicurezza, della pacificazione e della cooperazione allo sviluppo, dobbiamo ripartire insieme in Europa e in Italia dall’educazione e dalla cultura inclusive, fondandole su valori di una comune dignità e libertà, sui diritti umani scolpiti nella Carta dell’Onu e sulla capacità di creare fraternità.

In apertura una illustrazione di Valerio Marini

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