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Putin: il delirio di onnipotenza tra filosofia politica e teologia

Ciò a cui stiamo assistendo è già stato tratteggiato in passato da una serie di figure, tutte contrassegnate dal convincimento di possedere un autentico arbitrio sul decorso della storia. Ripercorrere le vicende che hanno segnato momenti precisi ci porta a una comprensione puntuale del presente, perché il complicato e difficile scenario attuale merita una analisi che scenda quanto più possibile nel profondo

Antonio Saltini

Putin: il delirio di onnipotenza tra filosofia politica e teologia

Oltre a suscitare emozioni profonde nella sfera umanitaria e di fronte all’evidenza dello scontro militare tra entità politiche di dimensioni del tutto incomparabili, il fallito blitz-krieg di sognata efficacia nazista per il possesso della minuscola regione del Globo denominata Ucraina induce, con irresistibile cogenza, a riflessioni sul terreno della storiografia, dell’etica politica, della teologia.

Il tema sul quale l’analisi si impone, nelle tre sfere diverse, è quello del delirio di onnipotenza, un fenomeno che, nel corso delle vicende umane, ha conosciuto un numero cospicuo di repliche, tutte contrassegnate dall’assoluto convincimento di un essere umano, fornito, indiscutibilmente, di eccezionali doti di imperio su popoli interi, di possedere un autentico arbitrio sul decorso della storia, sulle cui vicende i grandi dominatori immaginarono, in successione, di disporre di un potere semidivino, o addirittura, divino.

Un potere di cui non può disconoscersi la pretesa della divinità ove si esamini l’impulso motore delle gesta di Alessandro, di Gengis Khan, di Hitler, di Stalin, il preteso potere di dominare il Pianeta.

Non v’è dubbio che della prepotente passione per il dominio della Terra, e di quanti la abitino, Vladimir Putin costituisca l’ultimo esempio, e ciò nonostante le evidenti connotazioni tragicomiche che lo distinguono dai predecessori, i quali alla meta bramata si avvicinarono avvalendosi di uomini di capacità straordinarie, si pensi alla levatura dei ministri di cui si attorniò Napoleone, menziono Talleyrand e Chaptal, e alle capacità, in campo dei suoi generali, ricordo Massena e Murat.

In radicale dissonanza con il grande Corso il despota russo si è attorniato di autentici grassatori, con i quali ha spartito le immense ricchezze naturali della Russia tanto da impoverire l’erario fino a renderlo incapace, come provano i successi ucraini, persino di rinnovare gli armamenti, l’esigenza primaria di chi ambisca al dominio universale.

In questo distaccandosi dall’Olimpo dei conquistatori e iscrivendosi alla plebe in cui si collocò l’ultimo demiurgo italico, figlio di una terra per secoli contesa da castellani ferocemente impegnati a sottrarsi, vicendevolmente, un paesucolo o un ponte, discepoli fedeli del grande (?) Machiavelli, il maestro di storia politica che, non essendosi accorto che l’Europa stava generando una nuova creatura, la grande monarchia nazionale, insegnò a duchi e marchesi italioti ad unirsi, per sottomettere un piccolo vicino, ad una potenza maggiore, così da fare dei signori di Mantova, Ferrara e Milano, lacché pronti a spalancare la porta, per appropriarsi di un castello della Serenissima, a Francia o Spagna, che, conquistato il castello, avrebbero preteso, a compenso della cortesia, l’intero ducato, o marchesato, del premuroso pronubo dell’avventura.

E per asseverare i titoli di precursore, nella gang dei tiranni di serie C, del nuovo Kzar delle Russie, del despota romagnolo, reputo sufficiente ricordare che nello stuolo dei “gerarchi” che lo circondavano si distingueva, per il possesso di autentiche doti militari, un uomo solo, Italo Balbo, satrapo di Ferrara, tanto ardito e tanto cinico che il padrone, considerandone determinazione e freddezza pregiudiziali per la propria incolumità, ordinò fosse abbattuto, sul caccia tricolore, nel corso dell’atterraggio sulla pista di un aeroporto dell’Africa “italiana”.

Ma, avendo acceso il computer, non è trascorsa mezz’ora, per sviluppare una riflessione sul tema del “delirio di onnipotenza”, vergate le righe introduttive, all’argomento dedicherò, meticolosamente, quelle che seguiranno.

Righe ispirate dalla riflessione su due narrazioni ugualmente impressionanti, e, motivatamente, ugualmente famose, della letteratura dell’Antichità.

La prima, il confronto, narrato da Tucidide di Alimunte, tra gli ambasciatori di Atene e i rappresentanti dell’isola di Melo, il secondo la cena tra una donna ebrea, Giudith, con un generale assiro, Oloferne, di cui la donna, invitata ad una notte d’amore, recide, preventivamente, la testa.

I due brani non sono coevi, essendo databile, la seconda vicenda, come precedente, di numerosi secoli, alla seconda, e la loro verosimiglianza storica è, altresì, alquanto dissimile: la consistenza storicistica del secondo episodio è stata reputata dubbia, infatti, da una pluralità di studiosi dell’età Assiro-Babilonese.

La loro suggestiva comparabilità prende corpo, peraltro, inequivocabile, dai propositi di entrambi gli autori di desumere, dalle relative narrazioni, insegnamenti storici che trascendano i connotati delle due cronache, connotati nel primo brano di natura filosofica, più precisamente di filosofia della storia, nel secondo di ispirazione teologica, precisamente di teologia della storia.

La prima narrazione: nel capolavoro della storiografia ellenica, La guerra del Peloponneso, Tucidide narra l’apogeo ed il crollo del potere di Atene che, protagonista della lotta della minuscola Grecia contro l’immenso Impero persiano, si appropria dei frutti dell’impresa comune pretendendo di asservire a sé l’intera Ellade, costringendone le cento e cento città che la compongono ad un’autentica soggezione.

Impostasi quale arbitro delle scelte della Lega di Delo, originariamente creata per prevenire eventuali sussulti di rivalsa del grande Impero, converte la federazione nello strumento per la propria assoluta supremazia politica ed economica.

Artefice dell’impresa è l’uomo politico più famoso della storia della città, Pericle, che opera la conversione con accortezza suprema, violando, consapevolmente, due cardini capitali dell’etica ellenica.

Il primo, politico, l’assoluta priorità, nella sfera civile, della città, la polis, la sola, autentica patria della cultura ellenica, la cui storia ci narra di cento e cento contese cittadine, di rivalità insanabili tra ceti diversi, della frequenza di alleanze e di tradimenti tra città e città, avversioni e tradimenti che non incrinarono mai il legame, autenticamente viscerale, tra il cittadino e la propria polis.

Il secondo è principio, insieme, civile e religioso: seppure, ardente mediterraneo, la violasse quotidianamente, l’uomo greco onorava, incondizionatamente, un assioma etico inequivocabile, il principio della moderazione, uno dei postulati chiave della filosofia greca.

La moderazione, seppure mai praticata, costituiva l’autentico, supremo ideale dello spirito ellenico.

Il suo contrario è identificato dal vocabolo ybris, la cui impossibile traduzione letterale impone il ricorso a concetti diversi, tutti parzialmente necessari, nessuno sufficiente, dalla prepotenza all’intemperanza, dall’incapacità di autocontrollo all’autentica protervia, universalmente (e astrattamente) reputata ragione di disonore per chiunque vi si abbandonasse.

La sua idea era comprensiva, si deve sottolineare, di un inequivocabile significato religioso: l’odio degli dei (gli dei dell’Olimpo, ricordiamo, capaci di qualsiasi nequizia, prepotenza, pratica viziosa) per l’uomo intemperante, del quale avrebbero provveduto alla più severa umiliazione.

Imponendo un tributo, espressione di assoggettamento, a centosettanta città di uomini liberi, Pericle calpesta entrambi i caposaldi dell’etica ellenica: viola il principio della libertà cittadina, si eleva al di sopra delle facoltà dell’uomo, arrogandosi un potere cui all’uomo non è dato ambire.

E Tucidide, collaboratore solerte dello stratega politico, si propone, nella pagina più famosa del proprio capolavoro, di giustificarne, la pretesa, nel nome di un “realismo” che possiamo definire “machiavellico”, enunciando il postulato chiave di una nuova filosofia della storia.

L’occasione è il confronto tra i messi di Atene ed i magistrati di Melos, tra le cento città disseminate sulle isole egee la sola che avesse rifiutato di aderire alla lega, che gli ambasciatori informano che se la città non aderisse alla confederazione entro i termini stabiliti da Atene, la flotta del Pireo la avrebbe investita, tutti gli uomini sarebbero stati sterminati, donne e fanciulli portati ad Atene quali schiavi.

La risposta è che anche gli Ateniesi, essendo mortali, non possono, sfidando gli dei, presumere di violare le supreme leggi della giustizia, incorrendo nella punizione degli dei medesimi, un’asserzione di cui i legati ateniesi proclamano l’inconsistenza, siccome, rilevano, anche tra gli dei sussistono rivalità nelle quali le credenze greche narrano il sistematico prevalere del più forte, sussistendo una inderogabile legge di natura, imperativa tanto per gli uomini quanto per gli dei, che assegna al più forte il potere di prevalere sul più debole, imponendogli il proprio dominio.

Imbarcatisi gli ambasciatori ateniesi, la città di Melos si affiderà alla giustizia divina, una grande flotta di Ateniesi e alleati la raggiungerò, uomini, donne e bambini subiranno la brutale sopraffazione loro promessa dall’ambasciata.

Atene, possiamo annotare, combatterà un’interminabile, difficile guerra contro le città “libere” unitesi alla storica nemica, Sparta, che risulterà invincibile per il sostegno assicuratole dalle fiorenti città doriche di Sicilia.

Sarà un anno dopo che, per elidere quel supporto, la più poderosa flotta che avesse mai solcato il Mediterraneo, comandata dal più ambizioso dei successori di Pericle, Alcibiade, sarà stata annientata, che le ultime unità, pressoché ridotte a relitti, tratte in secco, secondo alcune fonti, sulla sabbia nera della costa siracusana, saranno incendiate nel rogo con cui la Grecia “libera” celebrerà la propria vittoria sulla tirannide ateniese.

Vittoria senza chances di rivincita: assoggettata da Filippo il Macedone, la più splendida tra le città greche conoscerà, in un arco brevissimo di anni, il giogo che aveva imposto a centosettanta città di uomini “liberi”.

La supplica ai numi dei cittadini di Melos apparirà, seppure dopo il loro annientamento, essere stata esaudita

Non mi pare si possa tralasciare, nel riferire la vicenda, un singolare episodio di “nemesi storica”: Atene aveva imposto la propria superiorità marinara distruggendo, nello stretto di Salamina, la flotta persiana, che in quello specchio aveva attratto nella certezza che le proprie imbarcazioni, sottili e manovrabili, avrebbero speronato agevolmente, una dopo l’altra, le poderose triremi nemiche, in quello spazio incapaci di manovrare.

A Siracusa sarebbero state, invece, le più leggere imbarcazioni siracusane ad attrarre nel Porto grande, un semicerchio circondato da scogliere, le poderose triremi ateniesi per speronarle, ancora, una ad una.

L’identica tattica che aveva consacrato il potere ateniese sui flutti, quel potere avrebbe, in uno specchio d’acqua analogo, annientato

Se è consentito, a chi scrive, di aggiungere un commento personale, annoto che, accampato, sulla medesima sabbia nera, l’anno 1961 (la località era denominata, allora, Stentinello), impegnato in uno scavo diretto dal maestro indiscusso della preistoria mediterranea, Luigi Bernabò Brea, affaticato, la sera, dal lavoro di piccone e badile sotto il sole del torrido luglio siculo, l’autore di queste note trascorreva lunghe ore contemplando il mare al cui orizzonte erano apparse, un giorno, le triremi di Atene, che, sperimentati cento espedienti per sbarcare i più valenti opliti greci oltre le mura nemiche, dopo due inverni privi di manutenzione, ridotte, ormai a relitti, arsero, nel proprio rogo mutato la storia dell’Ellade.

Quale stimolo più prepotente, alla brezza di mare, per riflettere, fissando la vampa di fuoco sulla vetta dell’Etna lontano, sulle mutevoli sorti delle società umane?

La seconda narrazione: Nabucodonosor, re dell’Assiria, quindi signore di Ninive, si assicura, con una serie di conquiste prodigiose, una potenza tale da poter mirare alla conquista di tutte le terre conosciute, dall’Etiopia, attraverso l’Egitto, fino alla Persia, comprendendo l’intero Oriente.

Non mi soffermo sulle obiezioni degli storici, che, seppure le vicende di Babilonia e di Ninive siano saldate da vincoli numerosi, ricordano un solo Nabucodonosor, re di Babilonia.

Ma ho precisato di avere fissato l’attenzione al significato filosofico della narrazione, che è, chiaramente, enucleabile nell’asserzione del cronista biblico secondo la quale, mirando a impadronirsi del Mondo, il signore di Ninive avrebbe preteso di essere adorato quale unico dio della Terra, la ragione per cui avrebbe comandato al proprio generale maggiore, Oloferne, di conquistare tutti i paesi prossimi per distruggerne i templi, così che in tutte le nazioni sottomesse si adorasse una sola divinità, quella rappresentata da lui medesimo.

Tra i primi paesi assaliti vi sarebbe stata, secondo la narrazione biblica, la Palestina, i cui confini montagnosi avrebbero imposto, quale condizione dell’occupazione, la conquista della città di Bethulia, che di quei monti controllava i passi.

Assediata la città, Oloferne ordina ne siano ostruiti gli acquedotti, collegati a fonti esterne alle mura: la sete avrebbe costretto i cittadini a riconoscere che solo accettando la soggezione avrebbero salvato la vita, la scelta cui si oppone, nel nome del Dio di Israele, Giudith, giovane vedova di straordinaria bellezza e di smisurata devozione, che ammonisce i concittadini a rigettare la pusillanimità, invocando il perdono della titubanza dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, certi che le loro preghiere sarebbero state accolte dal proprio Padre misericordioso, che avrebbe assicurato la salvezza della città.

La notte, indossate vesti sfarzose, accompagnata da un’ancella che portava un’anforetta, sarebbe uscita dalle mura e si sarebbe diretta ad una delle fonti che avevano alimentato gli acquedotti.

Gli armigeri posti da Oloferne a guardia della sorgente l’avrebbero fermata, la donna avrebbe dichiarato di voler parlare con il generale, alla cui tenda sarebbe stata condotta.

Introdotta alla presenza del condottieo, gli avrebbe spiegato di essere venuta per confidargli il segreto per indurre i concittadini alla sfiducia nel proprio Dio, la sola condizione perché il medesimo Dio li abbandonasse ai nemici.

Oloferne ascolta, l’avvenenza della donna lo incanta, proclama di volerla possedere, lei mostra condiscendenza, dichiara di volere, prima di abbandonarsi a lui, banchettare gioiosamente.

Banchettando ne accetta i complimenti e, a ricambiarli, continua a ricolmargli il calice fino a quando, vedendolo ebbro, chiede di essere accompagnata al sontuoso talamo.

Si è premurata, frattanto, di invitarlo a fare allontanare servi e guardie.

Appena disteso, il grande generale si assopisce.

Ha gettato la spada, cesellata d’oro e argento, tra i cuscini.

La donna si rivolge a Dio, cui chiede la forza di attuare il proposito, afferra, con decisione la spada, la affonda nella gola all’uomo, aiutata dall’ancella ne recide il capo, che racchiude in un drappo.

Nel silenzio, quindi, orientandosi al bagliore di qualche fuoco di bivacco, lascia l’accampamento, portando la testa che, appesa, la mattina, alla porta principale di Bethulia, indurrà il terrore e la fuga dell’intero esercito ittita.

Sussiste, si è indotti a chiedersi eseguito il confronto, un ordine divino che disponga la successione degli eventi storici?

Tucidide lo nega esplicitamente, la conclusione del suo capolavoro pare, peraltro, dimostrarlo, Judith lo proclama, in un testo che ha suscitato più di un dubbio storiografico, e l’essenza del prodigio deve individuarsi, lo impone la narrazione, non tanto nella determinazione della donna di sgozzare un comandante invincibile, ma nell’avere saputo convincere i concittadini che il Dio di Abramo quel prodigio avrebbe assicurato.

Di fronte alle gesta dell’ultimo posseduto dal delirio dell’onnipotenza il quesito non è stato proposto.

Il Presidente degli Usa, cattolico quanto si voglia tiepido, è certo che il despota sanguinario sarà travolto dalle proprie stesse trame, un numero cospicuo di statisti europei, lontanissimi, ormai, dalla fede cristiana, sono insorti contro la bestialità dei novi Tartari, dimostrando, in ossequio a Tommaso d’Aquino, che l’embrione della fede cristiana si esprime, inequivocabile, nelle fondamenta della morale naturale di cui percepisce la vigenza ogni “uomo di buona volontà”.

Il Papa, che della fede cattolica dovrebbe essere l’alfiere, ha rifiutato, tra cento tergiversamenti, di schierarsi, di dichiarare che chi insigniva di una medaglia al valore un corpo di stupratori, di torturatori, di sventratori, con la baionetta, di bambini e bambine, proclamava, suggellando l’onorificenza, la più orrenda bestemmia contro il Dio del Cielo e della Terra, Creatore e Signore dell’Uomo e della Storia.

Nella forma identica a quella con cui si dimostra indifferente al secondo dei comandamenti dell’Onnipotente (il primo: amerai Dio, il secondo: amerai il prossimo tuo), nella parabola evangelica, il levita che, veduto l’uomo atterrato e ferito dai ladroni, si volge dalla parte opposta non riconoscendosi “prossimo” di quell’uomo, proclamando, cioè, di non essergli unito da alcun legame, reputandone la sventura, come insegna Tucidide, espressione della più impietosa, ma cogente, legge di natura.

In apertura, foto di Olio Officina©

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