Saperi

Religiosità e agricoltura

Alla base della scelta compiuta da Emilio Sereni e Manlio Rossi-Doria, nello studiare i problemi dell’agricoltura, vi fu l’esperienza religiosa in cui restarono temporaneamente coinvolti entrambi da giovani. I due si sono occupati entrambi di politica agraria e di ruralità nelle sue innumerevoli sfaccettature (scientifica, storica, sociologica, antropologica, economica, ecc.) con ruoli diversi ma sempre di primo piano

Alfonso Pascale

Religiosità e agricoltura

L’esperienza religiosa per Emilio Sereni coincise con la decisione di abbracciare il movimento sionista e di prepararsi con gli studi agrari al suo trasferimento in Eretz-Israel per compiere la propria “aliàh”. Per Manlio Rossi-Doria maturò nelle sue frequentazioni con il sacerdote modernista Ernesto Buonaiuti, ricercando una maggiore pienezza di vita nella professione della fede cattolica e individuando nella battaglia meridionalista di Sturzo un esempio di impegno civile coerente in quella che un po’ pateticamente appariva, alla vigilia del fascismo, una sorta di ripresa democratica della vita politica nazionale. Entrambi di Roma, Sereni e Rossi-Doria erano diventati amici nel 1919 frequentando il liceo Mamiani. Un’amicizia che Manlio ha considerato nelle sue memorie (La gioia tranquilla del ricordo, 1991) tra quelle che hanno avuto maggiore importanza e durata nella sua vita. Un sodalizio che Mimmo, come Sereni veniva chiamato dagli amici, visse alternando lunghi periodi di fraternità e drammatiche rotture, sul piano personale e politico, amorevolmente raccontati dalla figlia Clara in un bel libro sulla famiglia Sereni (Il gioco dei regni, 1993).

Ebbene, i due ragazzi seguivano le vicende politiche dell’epoca e si informavano assiduamente sulla crisi industriale al Nord, la disoccupazione galoppante, l’inflazione raddoppiata, le odiose violenze dello squadrismo fascista, le vicende internazionali, dalla NEP del regime di Lenin all’assassinio di Rathenau in Germania. Erano mossi da una forte passione civile.

Sereni apparteneva a un’antica famiglia ebrea romana, una di quelle “i cui antenati avevano vissuto sulle sponde del Tevere da tempo immemorabile”. Uno zio di Mimmo, Angelo, era il presidente della Comunità israelitica romana e consigliere comunale della città. Ma i genitori possedevano una cultura interamente laica e praticavano l’ebraismo solo in rare occasioni.
Partecipando per pura curiosità al Congresso sionistico internazionale che si svolse a Karlsbad, in Germania, il fratello Enrico restò “attratto e conquistato dal fervore di vita e dalla immediatezza ebraica” e influenzò la scelta sionista dell’intera famiglia e, dunque, anche di Emilio.

Il carattere immediato e definitivo della decisione testimonia quanto avesse operato in profondità nei Sereni la presa di coscienza di quel che stava avvenendo nel mondo e quanto fosse in loro presente la spinta verso qualcosa di assoluto, di irrevocabile, verso una dedizione completa e coerente ai valori profondi della loro coscienza, insiti nelle proprie radici, nella propria tradizione familiare e storica.
Emilio incominciò così a frequentare Dante Lattes, Alfonso Pacifici e, una volta che venne a Roma, anche Martin Buber. E prese a studiare l’ebraico e l’aramaico per appropriarsi dei testi di una tradizione sino a poco prima del tutto estranei alla sua formazione.

La straordinaria decisione sionista di Sereni operò in profondità anche in Rossi-Doria. Testimone quotidiano dell’impegno e della coerenza dell’amico, Manlio provava, oltre che ammirazione e rispetto, anche invidia per l’approdo di Emilio in un movimento volto a ridare identità, unità e dignità di nazione e a restituire una terra e una patria al popolo ebraico disperso, diviso e perseguitato.

“C’era nella visione di Mimmo – osserva Rossi-Doria – qualcosa di più alto dello spirito che aveva animato e altrove animava i movimenti per l’indipendenza nazionale e che a noi aveva dato unità e vigore al Risorgimento”.
Si potrebbe dire che Manlio fu allora “plagiato” dall’esempio dell’amico: la scelta politica e civile, che maturò in lui, di dedicarsi al Mezzogiorno d’Italia fu l’esatto corrispondente della decisione di Mimmo di trasferirsi in Palestina. La decisione di studiare agricoltura era identica nei due ragazzi per prepararsi al lavoro in regioni diverse da quelle dove vivevano. Il proposito maturato in Rossi-Doria di tornare alla pratica di cattolico militante prendeva a modello la coerente decisione di Sereni di un’osservanza scrupolosa delle proprie tradizioni religiose e culturali.

“La mia conversione maturò – racconta Manlio – perché l’approccio laico e ateo mi apparve troppo povero, ossia tale da inaridire la vita interiore, da escluderne sentimenti e solidarietà che intimamente mi apparivano essenziali”.
E’ un altro fratello di Sereni, Enzo, a procurare l’incontro di Rossi-Doria con Buonaiuti che, in contrasto con la gerarchia cattolica ma comunque in un quadro di fedeltà alla Chiesa, svolgeva la sua missione di innovatore dello spirito religioso orientandosi a “vivere la vita evangelica nella sua plenitudine”.

Manlio ne restò enormemente affascinato e da quel sodalizio nacque l’interesse e il gusto per la storia del cristianesimo e per gli autori di ispirazione religiosa. E’ in quel periodo che lesse avidamente “La vie de Jésus” e i “Souvenirs d’enfance et de jeunnesse” di Ernest Renan, il “San Francesco d’Assisi” di Paul Sabatier, i “Pensieri” di Pascal e “L’Action” di Blondel.
Ma la scomunica che colpì Buonaiuti per la seconda volta nel 1924 (la prima era avvenuta nel 1921), aprì in Manlio una crisi dolorosissima perché dimostrò quanto fosse illusorio mantenere insieme – così come voleva lo stesso insegnamento dell’amico sacerdote – la pratica dello spirito evangelico e l’appartenenza alla Chiesa di Roma. E si chiuse così la breve parentesi religiosa nel giovane Rossi-Doria, che tornò al suo ateismo.

Tra il 1924 e il 1927 Mimmo e Manlio frequentano il corso universitario di Scienze agrarie a Portici. Il primo si laurea con una tesi su “La colonizzazione ebraica in Palestina”. Il secondo con una su “Bestiame di razza podalica in Basilicata”. Si concretizza così il loro desiderio di appropriarsi degli strumenti culturali e professionali necessari per seguire la propria vocazione.

Ma anche in Mimmo si conclude l’esperienza religiosa a cui subentra l’adesione al marxismo-leninismo. Tra il 1926 e il 1927 egli matura la sua conversione dal sionismo al comunismo e scrive da Roma una lunga lettera all’amico, con la quale, sulla ispirazione del “Che fare?” di Lenin, espone i motivi della sua decisione. Seguendo le orme di Mimmo, anche Manlio entra nel partito comunista e insieme avviano un’intensa attività clandestina fino al momento dell’arresto, che avviene nel 1930, e alla condanna da parte del tribunale speciale fascista a quindici anni di prigione per ricostituzione, appartenenza e propaganda di un partito disciolto.

Uscirono di prigione dopo cinque anni ma le loro strade si erano separate. Sereni era rimasto comunista e preferì partire per l’esilio. Rossì-Doria aveva abbandonato l’ideologia comunista e, pur restando antifascista e di sinistra, decise di restare in Italia.

Nel dopoguerra si sono occupati entrambi di politica agraria e di ruralità nelle sue innumerevoli sfaccettature (scientifica, storica, sociologica, antropologica, economica, ecc.) con ruoli diversi ma sempre di primo piano. Emilio nel Pci e Manlio nel Psi si sono seguiti da lontano. Uno leggeva sempre con grande attenzione le cose che scriveva l’altro. Ma in quarant’anni si sono incontrati solo una volta per non dirsi nulla.

Al funerale di Sereni nel 1977 Rossi-Doria ha confessato: “Benché il colloquio per molti anni non è stato facile, il rapporto di affetto e di stima è sempre rimasto così intenso e vivo che ogni volta ci sembrava che dovesse riprendere come se fosse stato interrotto poche ore prima”.

Ritengo che la sinistra italiana non abbia potuto dare il meglio di sé anche per le fratture ideologiche che hanno caratterizzato i rapporti di personalità siffatte. Le proposte di politica agricola dei comunisti e dei socialisti e la loro iniziativa nelle campagne, benché sempre di grande respiro, sarebbero state più efficaci se uomini come Sereni e Rossi-Doria avessero collaborato; se rigidità e risentimenti avessero fatto posto alla comprensione reciproca e all’impegno solidale.

Guardando alla loro vicenda complessiva, mi vien da dire che forse è l’esperienza religiosa avuta in età giovanile, più ancora delle ideologie politiche, a segnare in entrambi il modo di affrontare i problemi dell’agricoltura.
Essi erano attratti dalle persone in carne ed ossa, dai contadini e le loro comunità, dal loro modo di vivere e di pensare, dai loro valori e dalle loro radici. Un rispetto profondo verso tutto quello che negli uomini potesse ricondurre alla ricerca delle proprie radici.

Sia Sereni che Rossi-Doria hanno affiancato all’attività scientifica una costante iniziativa politica e sociale nelle campagne. Sono andati controcorrente rispetto alle visioni operaiste dei loro partiti. Non hanno mai irriso – come altri intellettuali di sinistra invece hanno fatto – gli studi sulla “civiltà contadina” mentre si preparava il “boom” economico e prendeva piede il mito industrialista. Anzi a tali filoni culturali hanno assicurato il loro sostegno politico e intellettuale e la loro collaborazione. Guardavano alla modernizzazione delle campagne, nutrendo speranza nel progresso tecnologico-scientifico, ma sempre ponendo al centro la persona umana.
E’ facendo politica con tale approccio che hanno potuto comunque assecondare il bisogno di trascendenza rimasto a covare nel profondo delle loro coscienze.

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