Saperi

Requiem

“Si erano amati sicuramente anche per le mani. Lei gli aveva chiesto più volte di lasciargliele in dono, se lui, un giorno, per un qualunque motivo, l’avesse abbandonata”. Ad A. che vive altrove, perché trovi il coraggio di osare come “il falco alto levato”

Mariapia Frigerio

Requiem

Era morto. Se ne era accorta svegliandosi improvvisamente (quasi funesto presagio) durante la notte. Si era alzata e, dopo istanti di angoscia e terrore, aveva deciso di non chiamare nessuno, per restare sola con lui, per tentare, ancora una volta, di parlargli.

Prese la seggiola dello scrittoio. La accostò alla sua parte del letto.

Ecco! Ora era lì, fermo, immobile per sempre. Mai più le avrebbe potuto fare del male.

Aveva pensato più volte, aveva quasi desiderato, di ucciderlo nel sonno; aveva assaporato la gioia di ammazzarlo con le sue stesse mani, di fracassare quella sua testa, quel suo cervello, quella macchina diabolica che tesseva le fila del suo inferno terreno e che gli alterava perfino i tratti del viso in tratti satanici.

Aveva avuto paura di lui, paura del male che era in lui.

Ora, invece, non lui, ma l’idea della morte le dava angoscia e terrore.

No, lui no, non le incuteva timore, ma tanta, infinita tenerezza.

Era stato il suo bambino e il suo amante, il padre dei suoi figli e, anche, suo marito.

Lei era stata per lui – come ogni donna – amica, madre, amante. Mai moglie.

«Non c’è niente da fare con te: non saprai mai essere una moglie».
«Cosa vuol dire essere una moglie? Non ti cresco i figli, non bado a te, non curo la casa, non allieto l’aria lugubre che ti circonda?».

«Io volevo una moglie vera, e volevo te come moglie».

Ora era lì e lei, la moglie-non moglie, lo guardava.

Fuori era buio. Dalle imposte aperte entrava solo l’oscurità notturna.

La stanza era visibile per la luce dell’abat-jour che lei aveva acceso, svegliandosi di soprassalto.

Lui giaceva nella penombra. Lei lasciò quella penombra per non indagare il mistero della morte.

Ugualmente la poca luce le lasciava intravedere, chiaramente, le grandi, immense mani dalla pelle scura a contrasto con la sovraccoperta di piquet bianco. Quelle mani che erano a lui d’impaccio, così grosse, così poco nobili, così pronte a distruggere e a sciupare (e lui ne soffriva), quelle mani che lei aveva amato infinitamente e che sembravano poterla raccogliere tutta.


Si erano amati sicuramente anche per le mani.

Lei gli aveva chiesto più volte di lasciargliele in dono, se lui, un giorno, per un qualunque motivo, l’avesse abbandonata.

Lui, d’altro canto, voleva la forza dalle mani di lei: «Non ti so dire se hai delle belle mani, ma le tue mani, quando stringono le mie, mi danno sicurezza, mi ridanno fiducia nella vita».

E ora, se con la sua mano, avesse stretto la grossa mano di lui, avrebbe potuto cambiare il destino ignoto che incombeva su di loro?

Non lo toccò e continuò a fissarlo.


«Chissà cosa faresti se io morissi» le diceva spesso lui «qui, nel mio letto, con un altro uomo».

«Sei così sicuro che mi risposerei»?

«Sposata o no, tu non puoi stare senza un uomo».

«Perché dici questo? Hai una così bassa stima di me?»

«E chi ti dice che sia poca stima? Non ha niente a che vedere con la stima. Dico solo che è così, che tu nel giro di due mesi avresti un altro».

«E se morissi io?»

«Ma, non so, forse per convenienza: un uomo fatica a star solo …».

«A me non importa nulla di quello che farai, se avrai mille donne o una a cui essere fedele: non sono gelosa, lo sai. So di essere sostituibile, ma non sarà mai un’altra come me. Io lo so e tu lo sai e questo mi basta. Ma i bambini non devono vedere, non devono sapere. Sono i miei figli: fingerebbero, ma non accetterebbero mai. Vi perdereste. Lasciagli i loro giusti incanti, separali da te».

Osservò la fede al grande anulare dell’immensa mano.

Quella fede conteneva – comoda – la sua. Loro lo sapevano e più volte ne avevano riso, prima soli, poi con i loro figli.

«Lo schiavo negro e la principessa bianca» diceva la bambina. E pure lei, la piccola, amava quelle mani. «Quando mi accarezza la mano grande del mio babbo…» aveva scritto in un tema.

L’oscurità era sempre presente e lui sempre lì, finalmente lì, solo per lei.

Ora la moglie faticava a riconoscere in quel corpo la fonte dei suoi dolori. Succedeva, alla donna, che la memoria le giocasse strani scherzi: le faceva ricordare le cose più sciocche e inutili della sua vita, qualche avvenimento allegro, ma oscurava, annebbiandoli, i tanti avvenimenti tetri, certi orrori vissuti, così che quando diceva di detestare qualcuno – e sapeva di averne validi motivi –  non riusciva però a ricordare quali fossero i torti subiti e perché il suo disprezzo si accanisse tanto.

Così l’uomo, adesso, era per lei solo il grande amore.

Aveva ragione l’amico che le aveva detto, solo poco tempo prima: «Sarà anche una testa di cazzo, ma per te è stato il grande amore. Tu ormai l’hai provato il grande amore».

Era vero: qui, nella luce incerta, lei aveva la certezza che era così.

Del resto, a parte “tutto”, in questi anni, non c’era stata una notte in cui lui non l’avesse cercata, non si fosse addormentato, non avesse dormito tutta la notte abbracciato a lei.

Tutto. Ma cos’era questo “tutto”? Il pensiero, il ricordo si fecero pressanti. E lei riviveva.

Il suono del campanello era solo un avvertimento: la tensione era finita. Ora si apriva la porta sulla reale paura.

Lui ora sarebbe entrato. Volto spiritato, occhi carichi di follia, poche parole dal tono grave.

L’angoscia prendeva possesso dell’aria che si respirava in modo così imperativo e inquietante che si finiva per respirare non più aria, ma l’angoscia stessa.

I bambini dovevano sparire perché avrebbero turbato il suo pasto impestato di silenzio greve. Tutto doveva essere pronto, perfetto per rendere omaggio al “signore”. Ma al signore di cosa?

Non c’era alcun dubbio: lui era il signore del male. E chi era Satana, se non l’angelo più bello, l’unico che aveva osato porsi in diretto antagonismo con Dio? Lui era stato bello, bello nel senso greco del termine, kalos kai agathos, bello fuori e bello dentro.

O così, almeno, era parso a lei, quando aveva visto nell’uomo quei tratti che sempre aveva ricercato in un eventuale consorte.

Di sicuro possedeva una sensibilità fuori dal comune e una conseguente libertà di movimento nelle convenzioni sociali. Aveva saputo abbattere tabù e liberarsi dal giudizio della gente.

Genio e sregolatezza. No, lui era, forse, bello e dannato. Ma dannati, condannati, erano anche coloro che, per sorte, gli si accostavano.

Quella penombra, quel corpo ormai non più pericoloso facevano sentire, ora, la donna tranquilla – con mille dubbi –  ma ora, finalmente, tranquilla  e calma.

Iniziò a parlargli.


«Perché non hai voluto che fossimo felici? Perché hai fatto tutto per distruggermi, per farmi soffrire? Perché hai avuto così paura di me?
Perché questa stima, questa ammirazione sconsiderata? Che ambizione smodata la tua: voler qualcosa di cui poi non crederti all’altezza!
Ma tutto ti perdonerei, tutto credimi, ma non di non aver voluto essere felice con me. Sì, è vero, in alcuni momenti mi hai detto di esserlo, quando io ti rinfacciavo certe cose e tu mi dicevi che vivere con me era sublime.
Ma se eri felice, lo eri per te stesso, perché vivevi qualcosa che ti faceva piacere. E io sapevo di darti piacere, ma erano, i nostri, piaceri separati.
Io ti raccontavo (quanto ti raccontavo!), ma ti dicevo ciò che vivevo senza di te e tu, dopo la rabbia, eri contento.
Che forse fosse anche questo un modo per essere uniti?
Eppure tu avevi già chiaro fin dall’inizio quello che io, solo col tempo, avrei capito».

A questo punto la donna si alzò. Andò al cassettone (un curioso enorme mobile di chiesa in realtà) e ne aprì l’anta laterale dove teneva i suoi scritti di ragazza e dove – in una scatola di legno, per non mescolarli – teneva gli scritti di lui.

Aprì con difficoltà. Prese quanto aveva in mente. Cercò di richiudere.

La chiave girava a vuoto nella vecchia serratura. Avrebbe lasciato lo sportello aperto… Poi ci ripensò e ritentò, riprovò tre, quattro, cinque volte, finché si richiuse. Era meglio così. Doveva essere così. Lui, seppur disordinato, non avrebbe sopportato la vista dell’anta aperta.

Tornò a sedersi.

«Ecco» disse «queste parole le hai scritte tu con la macchina per scrivere che mi portasti (che magnifica sorpresa fu!) in uno dei primi giorni della nostra vita coniugale. Io ero felice, ma tu (ti rivedo) più ancora di me. Ricordi chi iniziò a usarla di noi? No, non io che cercavo di fare la moglie: fosti tu. Ascolta cosa scrivevi: Sono amato da una persona che sembra esattamente il mio contrario e trova ragione di vita in cose da me sconosciute. […] Come si può essere legati profondamente se uno è come me e lei è come detto? Passate le emozioni, le gioie, le passioni che succederà? La paura è molta. […] Tu sei ancora una bambina che non conosce tutta la sua forza e quanto valga. Percorri le strade al minimo della velocità, ma che succederà il giorno che affonderai il pedale nell’acceleratore? Sei insicura, però, se vuoi, dura e penetrante. […] Più ti voglio bene e più lontana ti sento.

Avevi paura.

Poi, guarda, c’è anche questo. Me lo scrivesti nel nostro primo fine settimana trascorso lontani l’uno dall’altra, mentre ci avvicinavamo alla nascita di nostra figlia. Mi amavi. Cara moglie, il desiderare la tua vicinanza è cosa bella e struggente. Il desiderio di vederti è grande. […] Ho avuto troppo del superfluo e niente del vero.

Dopo breve tempo dalla nascita della bambina mi ritrovai di nuovo incinta. Poi nacque nostro figlio e qualcosa si ruppe tra noi.

Perché?

Ascolta, ascolta, ti prego, le tue parole, mozziconi di frasi che tu battevi nel foglio inframmezzandole ai miei scritti. Le donne sono bugiarde, tranne mia moglie che lo è ancora di più […]  Quanti santi, quanti mostri si nascondono nei meandri del mio cervello.

Ecco, anche questo tu sapevi, che in te viveva il mostro. E il mostro iniziò a prendere posto nella mia vita, la sconvolse, godette di distruggermi».

Ora gli stava parlando, si stava sfogando e, volendo il cielo, gli stava dicendo tutto quanto le aveva pesato in quegli anni. Finalmente senza interruzioni.

No, lì steso, non poteva più interromperla, non poteva più ferirla, non poteva ancora avvelenarla col fiele delle sue parole che le avevano annientato la sensibilità e che, per quel mistero della psiche che influisce sul corpo, le aveva a lungo alterato le pulsazioni cardiache.

Ora no! Zitto, muto, quasi condiscendente l’ascoltava. Lei aveva parlato, lui annuito.

Adesso la moglie si accorgeva che lui le dava ragione. Chissà che forse non gliel’avesse sempre data e che solo ora, nel silenzio della morte, potesse dargliela esplicitamente.

Un debole tramestio interruppe i pensieri della donna. «Già!» si disse «la piccola Spica: ci sarà un altro problema».  Nella cesta la cagnolina si rigirava.

Ecco, su quello si erano sempre trovati d’accordo: sull’amore, sulla tenerezza per quella bestiolina. Rarissimamente lui aveva avuto gesti d’affetto per i figli, rarissimamente se ne era interessato. I figli, che lui e solo lui aveva voluto, li considerava di lei. E questo aveva creato una famiglia formata da tre persone più una: lui, il più delle volte latitante.

C’era, prima di tutto, il suo essere uomo giovane che doveva vivere ad ogni costo. Che la moglie ne soffrisse e ne invecchiasse non era cosa che lo riguardava. Voleva una famiglia e quella c’era, per il suo orgoglio, per la sua ambizione. Ma c’era per lei, non per lui. Lei, come una statua inamovibile, era rimasta al suo posto, con un senso del dovere smodato e forse sbagliato. Ma la famiglia era rimasta, per le volte che lui avesse voluto goderne.

La bestiolina era invece “figlia” di entrambi, anche se, naturalmente, era stato lui ad imporla a lei, che non ne voleva sapere.

Ecco, la piccola Spica preoccupava ora la donna: come sarebbe stata senza di lui? Per quanto tempo ancora l’avrebbe aspettato sul tappeto davanti all’ ingresso, all’orario del suo presunto ritorno?

Poi i bambini: era pur sempre loro padre e, come tutti i padri che non ci sono, forse più amato di altri.

E la vita della donna come sarebbe continuata? Era lei che ora avrebbe dovuto guidare il tutto, ma questo non la spaventava.

Certo, ora, per prima cosa, avrebbe dovuto prendere le decisioni pratiche del momento: chiamare i genitori di lui, dirlo alla sorella…

Lei continuava a stare sulla sua seggiola, al suo fianco, al fianco di lui, ma l’emozione che, fino ad allora aveva provato, iniziò lentamente a tramutarsi in qualcosa di diverso, qualcosa che ora risultava anche per lei difficile definire.

Iniziò, come per gioco, a immaginarsi come sarebbe stata la sua vita se lui non fosse morto, quali gli accadimenti.

Pensò al crescere dei figli, ai problemi che avrebbe avuto con un uomo che le era e le sarebbe stato sempre ostile, irrecuperabilmente ostile. Si vide sola, in casa col nemico (se lui non fosse morto), con un uomo che non l’avrebbe minimamente appoggiata, che anzi avrebbe girato il coltello nella piaga di quelle che sono le sofferenze che possono dare i figli quando diventano adolescenti e poi, a fatica, adulti.

Pensò che lei sarebbe prima o poi diventata vecchia e diventarlo vicino a un uomo come lui sarebbe stato umiliante e lui non le avrebbe risparmiato offese di ogni genere.

Arrivò anche a immaginare (e non era nella sua natura) se le fosse, nel tempo, successo qualcosa di imprevisto, che so?… un qualcosa di grave alla testa, un intervento improvviso con apertura di scatola cranica. L’immaginare della donna era così, come dire, intenso, che quello che immaginava quasi lo viveva già. E in effetti già si vedeva in ospedale, con la testa aperta, poi richiusa e i solchi e i buchi, ad memoriam, sul suo cuoio capelluto. E la disperazione di lei, il suo sentirsi finita. E lui distaccato, sprezzante. Sì, immaginava perfino che sarebbe giunta a chiedergli, in un momento di debolezza, di bisogno estremo di tenerezza, se lui avesse voluto sentire, con le sue dita (le dita delle sue mani grandi), quei buchi e quei solchi. E lo vide di nuovo, davanti a sé, vivo e cattivo, guardarla con commiserazione e dirle, con totale distacco: «No, mi fa impressione!»

Giunse a immaginare di  chiedere la stessa cosa ad un altro uomo, un uomo che, per un qualunque motivo, si sarebbe potuto interessare a lei. E il suo immaginare si fece sempre più forte, talmente forte, che sentì come se delle mani di un altro uomo, dopo averle accarezzato la chioma folta, e averla accostata a sé, infilasse le dita a toccare ciò che restava del suo intervento.

E quel tocco così dolce, quella sensazione immaginata, desiderata, fu per la donna così penetrante, che dovette allontanare sé stessa e la seggiola dal corpo del marito morto.

Mancavano ancora diverse ore al mattino. Avrebbe abbandonato tutti i problemi e le incombenze sino a quel momento. Ora… ora era presa di nuovo da un sogno, aveva un sogno da inseguire, non poteva certo lasciarlo così.

E non poteva neppure più stare accanto al corpo di lui, né sulla seggiola né, per un’ultima volta, al suo fianco, nel letto.

Prese allora il suo guanciale e, dopo aver spento la luce del comodino nella stanza dove giaceva il marito morto, che ormai non voleva più vedere, con cui ormai non avrebbe avuto più nulla da spartire, si mise, in attesa del nuovo giorno, in compagnia di quel nuovo sogno, lontana da lui, a dormire su un divano dello studio.

 

Fiumetto-Lucca, 1988-2003 (settembre)

 

In apertura, foto di Mariapia Frigerio

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