Sala d’aspetto
Una rapida occhiata gli bastò per accorgersi dello squallore del luogo. Il palazzo era un bel palazzo, signorile, ma quella stanza, adibita a sala d’aspetto, aveva qualcosa di tetro… poi con quella finestra che non si capiva su dove si affacciasse. Sigillata e polverosa. Neppure un po’ di luce che filtrava. C’erano, invece, delle luci al neon, quelle che uniformano tutto e la voce urlata e sgradevole delle pubblicità radiofoniche… «Che posto» pensò il vecchio commercialista
Erano le sedici quando Giuseppe Pinto si sedette nella sala d’attesa del dottor Ferrante. Caso strano non c’era nessuno. Dalla parete la targa luminosa con i nomi dei medici dei diversi ambulatori segnava «Dottor Ferrante: occupato». Si chiese per quanto avrebbe dovuto aspettare che quell’«occupato» si trasformasse in «avanti». Tirò fuori dalla tasca del giubbotto il giornale e si mise a leggere la cronaca cittadina.
Franco Tabarrani entrò giusto un quarto d’ora dopo.
«O guarda chi si vede! Beppe!» disse non appena scorse Giuseppe Pinto seduto in un angolo, sotto la finestra.
«Toh, il Tabarrani. Non ti ci facevo proprio!».
«Che vuoi, da quando la Michela non cammina più, toccano a me tutte le sue incombenze».
«Proprio non si muove?».
«No, se non ha l’aiuto di qualcuno. Fortuna che c’è la mia figliola che viene il mattino prima di andare al lavoro e se riesce anche la sera… Ma è dura quando i soldi sono pochi».
«Già, i quattrini… importanti i quattrini, ma tu almeno ce l’hai ancora la tu’ moglie. Tu due parole almeno le puoi fare, la sera e anche il giorno. Io senza l’Ave sono ancora più rincoglionito. Sono cinque anni che se n’è andata. Settantasette anni … ora ne ho ottantadue e fra pressione alta e prostata c’è poco da stare allegri».
«Sempre meglio pressione e prostata… a noi uomini si sa che prima o poi ci tocca. Ma per chi deve fare i conti col diabete… è una dannazione, credimi Beppe, specie se si arriva a un’età come la mia. Ottantasette, mica pochi. E la Michela conciata così. Certo, se non l’avessi, sarei solo. Malato e solo. Però…».
«Tu fino a pochi anni fa correvi ancora. Eh, se lo ricordo. Fare il rappresentante ti fa stare con la gente. Da quando io, invece, ho lasciato il lavoro e sono pensionato, mi sento finito. Pomeriggi al barino, una partita a scopa, un bicchierino e, ora, neanche più quello… «A regime» non fa che dirmi il Ferrante, «deve stare a regime». Lui, però, le sue sigarette se le fuma e a me con ‘sto regime fa venire in mente il fascismo…».
«Certo non potevi fare il muratore tutta la vita. Con l’età si deve smettere…».
«Magari ce l’avessi fatta a continuare. Invece, con la storia dell’Ave… ho mollato baracca e burattini».
«Non hai mai pensato di tornare a Napoli? Se io, come te, non avessi legami di figli, me ne andrei da qui. Hai sempre detto che i napoletani sono più calorosi di noi toscani…».
«E chi c’è più a Napoli? Son tutti morti. Ormai me ne resto qui. Sarei un napoletano bastardo, dopo tutti questi anni, e sono un toscano bastardo. Bastardo ovunque… Dio bono, se quello che è dal Ferrante si decidesse a uscire… È già venti minuti che è dentro…».
Sulla porta comparve, alto e sempre elegante, Philippe Ducray. Una rapida occhiata gli bastò per accorgersi dello squallore del luogo. Il palazzo era un bel palazzo, signorile, ma quella stanza, adibita a sala d’aspetto, aveva qualcosa di tetro… poi con quella finestra che non si capiva su dove si affacciasse. Sigillata e polverosa. Neppure un po’ di luce che filtrava. C’erano, invece, delle luci al neon, quelle che uniformano tutto e la voce urlata e sgradevole delle pubblicità radiofoniche… «Che posto» pensò il vecchio commercialista.
Franco Tabarrani si accorse subito del suo arrivo. «Tu qui?! Mandi sempre il tuo fedele Anselmo».
«È il suo giorno libero… anche lui ha le sue esigenze».
«Sono proprio cambiati i tempi… i servitori a tempo pieno non ci sono più per nessuno».
«Servitori? E che siamo al tempo degli schiavi?» s’intromise Beppe Pinto. Poi dopo aver squadrato il nuovo venuto: «Forse per chi ha i soldi i tempi non cambiano».
«Ma che dici, Beppe!» lo interruppe bruscamente Franco Tabarrani «lui è Philippe Ducray, il mio compagno di liceo. Certo, la vita ha poi separato le nostre strade. Io rappresentante di vernici. Lui università, viaggi, e poi nello studio del padre. Dottor Philippe Ducray, commercialista. La vedo sempre la targa in ottone quando vengo in città, fuori dal portone in Piazza delle Grazie. Però, Philippe, sei sempre in forma. Se penso che abbiamo la stessa età…».
Beppe Pinto vide la scritta alla parete accendersi e, finalmente, apparire «Dottor Ferrante: avanti». Si alzò, ripose il giornale nel giubbotto, salutò l’amico e quando Ducray gli tese la mano presentandosi, lui si prodigò in un mezzo inchino. Poi, rivolgendosi nuovamente al Tabarrani: «Salutami tanto la Michela».
«Già, la Michela. Bella figliola, la Michela».
«Senti chi parla! Tu che fin dal liceo te ne stavi con Julie. Una donna di razza. Tutti ti abbiamo invidiato. Troppo bella per noi. Troppo di classe. La Michela, invece, è semiparalizzata. Lo dicevo prima a Beppe. Anzi, scusami per lui. Un povero muratore senza moglie. Napoletano, qui da una vita, ma ora, senza l’Ave, proprio solo. E poi la salute, i soldi… non ha capito che tu sei uno dei pochi che ha un occhio anche per noi poveracci. Che capisce i nostri problemi. Ma la bella Julie come sta? Sempre con te nella tua grande casa? Nel tuo rifugio sul poggio?».
«Anch’io sono solo. Julie se n’è andata da due anni… ora c’è…».
«Chi c’è?»
«Nessuno, e chi ci deve essere? Non c’è nessuno per un vecchio… tranne… tranne Anselmo. È una vita che si occupa della mia casa e di me.».
«Guarda che sei tu che hai detto: “Ora c’è…”».
«Io? Devo essere proprio essere rimbecillito se non mi accorgo neanche di quello che dico…».
Dalla parete l’insegna luminosa segnalò «Dottor Ferrante: avanti».
«Ciao, Philippe. È il mio turno. Beppe se ne sta già andando… e qui iniziano ad arrivare i pazienti. Sono stato contento di averti visto e… sempre in gamba!».
«Sì, sì, ma anche tu stammi bene».
Le altre sedie della sala erano state occupate, nel frattempo, da una vecchia con bastone, da una ragazza ossigenata in jeans attillatissimi e da un uomo di mezza età.
Ducray pensò a questa umanità così diversa da quella che lui era solito frequentare quando lavorava. Ora poi non era più abituato a vedere nessuno, proprio nessun tipo di umanità, da quando stava lassù, nel suo eremo.
Squillò il suo cellulare. A fatica lo prese dalla tasca interna del pesante cappotto in tweed. Lo ispezionò con una certa riluttanza fino a che trovò il tasto da premere.
«Phil, ma dove sei?».
Un sorriso gli distese le labbra.
«O cara, cara Giulia… sono qui, nella sala d’aspetto del dottor Ferrante».
«Stai male?».
«No, cara, aspetta… aspetta che vado nel corridoio…».
«Ma sei dal dottore o in una discoteca? Cos’è questa musica?».
«È insopportabile, lo so. Mi dicevano che la tengono a volume alto per via della privacy…».
«Mi dici perché sei lì tu e non Anselmo?».
«È il suo giorno libero e io, dopotutto, avevo solo bisogno della ricetta per il sonnifero… Se no lo sai che Anselmo fa sempre venire il dottore se sto male e non mi lascia certo uscire».
«Che spavento comunque, Phil, quando mi hai detto del dottore. Per un attimo non ho saputo cosa pensare.».
«Ma via, cara! E poi non dici sempre che sono un privilegiato? Oggi, invece, sono sceso in mezzo alla gente… anche per far piacere a te… per far piacere alla mia giovane amica… per far piacere alla Giulia».
«Giulia, ecco chi c’è ora! Certo che non hai molta fantasia con i nomi. Scappo, Philippe» disse Franco Tabarrani che aveva colto al volo il nome mentre usciva dall’ambulatorio.
Nel frattempo la vecchia col bastone aveva chiesto con sguardo implorante di poter entrare dal dottore. Ducray aveva acconsentito.
«Ma, Phil, chi ti stava parlando?»
«Un amico, un vecchio compagno di liceo. Ora è uscito e, se tu sei più tranquilla, torno in sala d’aspetto».
«Appena hai la ricetta vai subito a casa e non prendere freddo, mi raccomando.».
«E dove vuoi che vada, cara? La mia vita è fatta solo di sale d’attesa: questa del medico, quella di casa mia dove aspetto, di martedì in martedì, il tuo arrivo per il pranzo e…».
«E?».
«No, Giulia, questa non te la voglio dire».
«Perché?».
«Perché non ti farebbe piacere, ma c’è comunque, cara, e io ci devo fare i conti».
«Ah, no, Phil, questa non me la devi dire. Questa proprio non la voglio sapere».
Lucca, 16 febbraio 2010
In apertura, foto di Mariapia Frigerio
Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui
Commenta la notizia
Devi essere connesso per inviare un commento.