Stagioni
Racconto. Due donne, Marie e Nicole, e una casa condivisa. Nicole, dalle radicate abitudini contadine, impegnata a coltivare l’orto e a curare le poche galline. L’altra, più giovane, con una vita in fuga: dall’obbedienza e dagli uomini. La vecchia si lamentava sempre di essere sola. Però se Marie l’andava a trovare mostrava indifferenza
Quando Marie vide quello strano insetto girare intorno alla lampada, entrare sotto il grande paralume di vetro, riuscire e posarcisi sopra, ripensò alle formiche.
Con l’arrivo della bella stagione le formiche avrebbero di nuovo invaso il tavolo della cucina, il barattolo dello zucchero, l’armadio dove stava il vaso del miele. Poi sarebbe iniziato il caldo.
A Marie sembrava di sentire già il frinire delle cicale nell’ora della massima calura pomeridiana. Un frinire che verso la sera avrebbe lasciato il posto al cri-cri dei grilli.
Ma prima – prima dell’estate vera e propria – avrebbe visto dalla finestra della sua camera, in casa della vecchia, le lucine intermittenti delle lucciole.
Quante volte aveva chiamato Nicole per fargliele vedere, ma lei, dopocena, se ne stava sdraiata sul suo letto a dire le orazioni.
Bisbigliava sommessamente. Marie la spiava dalla porta socchiusa. La vedeva aprire il libro, leggere muovendo appena le labbra, richiuderlo.
Poi sarebbe arrivato il caldo insopportabile, quello che levava ogni energia alla vecchia.
Per cinque anni – da quando si era stabilita in campagna – quello era il periodo in cui la vecchia iniziava a boccheggiare. Da luglio a tutto agosto.
Marie non era mai riuscita a fare niente per lei. Niente contro la sua testardaggine.
Non poteva certo parlarle di condizionatori. «Figurarsi!» le avrebbe risposto Nicole. Con quel tono impositivo che non ammetteva repliche.
Era stata Marie a volerla più vicina, in quella piccola casa di Baldissero Torinese comprata a poco prezzo con i soldi di una prima liquidazione, quando aveva cambiato lavoro, terminando la sua collaborazione nella farmacia di corso Vittorio.
Nicole non ne era stata particolarmente contenta. Amava la Bretagna. E bretone era fino al midollo. Una vera, dura contadina bretone. Ma, dopo essere rimasta vedova, non aveva saputo dire di no a Marie.
Nicole se ne stava sola in quella casa che Marie aveva pensato come buen ritiro per quando anche lei sarebbe diventata vecchia. Quasi ogni fine settimana, però, quando terminava il lavoro, la raggiungeva. E ogni sera, dalla sua casa di via Camerana, le telefonava. Pronta ad ascoltarne tutte le lamentele. Annoiata e insofferente. Ugualmente pensava fosse suo dovere farlo.
A Marie era sempre piaciuta Torino, fino da quando vi si era stabilita per l’università. Tempi duri, certo. Studiare e lavorare. Però con la sua libertà, finalmente lontana da quella famiglia che poco le corrispondeva. Una libertà che valeva qualunque sacrificio.
Era riuscita a laurearsi in tempo e aveva collaborato all’inizio con aziende farmaceutiche di Milano. Poi era tornata a Torino entrando in società nella farmacia Garrone di corso Vittorio.
La casa di via Camerana aveva coronato anni di rinunce. Piccola, ma in un antico palazzo e con un fazzoletto di giardino. Lei ne era felice. Felice in quella Torino un po’ sottotono, signorile e rionale al tempo stesso.
La vecchia aveva mantenuto anche a Baldissero le sue abitudini contadine. Coltivava l’orto. Curava le poche galline. E non voleva aiuti.
Marie le aveva regalato prima un cane, poi un gatto. Nicole aveva brontolato. Come sempre. Poi cane e gatto erano morti nel giro di breve tempo. E Nicole aveva detto che lo sapeva, sì, lo sapeva, che con gli animali c’era sempre da soffrire. Però per qualche anno erano stati per lei la sola compagnia sicura.
Con l’estate e la pausa dal lavoro Marie la raggiungeva.
Dormiva in una stanza non vicinissima a quella della vecchia. Ugualmente la sentiva trafficare fino a tardi prima di dormire. Sapeva che faticava a prendere sonno. Del resto le era impossibile senza l’aiuto di tranquillanti.
«Non dimenticarti il Tavor» le diceva con la sua voce stridula al telefono.
Il mattino però si alzava presto per raggiungere la piccola chiesa del paese.
Nel periodo che Marie trascorreva con lei le urlava dalla cucina, prima di uscire: «Sei sicura di non volere venire con me?».
«Sono stanca, Nicole» le rispondeva Marie con tono basso. Odiava quel gracchiare della vecchia, il mattino soprattutto, quando avrebbe desiderato stare nel suo letto in silenzio.
«Come?»
Era costretta, allora, ad alzare la voce. Con fatica.
«Ti ho detto di no. Lo sai che non vado mai in chiesa».
«E ti chiami come la Madonna! Che nome sprecato!»
Nervosa allora Marie a sua volta le urlava dal parapetto della scala: «L’ho scelto forse io il mio nome?».
La vecchia riusciva sempre nel suo intento: farla alzare e innervosire.
Nicole aveva l’abitudine, dopopranzo, di appisolarsi in poltrona, giù in cucina – i piedi su uno sgabello – col rosario tra le dita.
In estate metteva degli orribili calzini grigi da uomo per via della circolazione che le lasciava i piedi sempre freddi. Anche quando freddo non era.
Marie aveva provato a regalargliene di più femminili con un grazioso pon pon alla caviglia. Ma la vecchia niente. L’aveva ringraziata, con parsimonia come era da lei. Poi aveva fatto qualche battuta ironica. Marie, come sempre, si era innervosita.
Marie sapeva che superata l’angoscia del caldo sarebbe iniziata quella del freddo. Allora Nicole avrebbe messo un golf sopra l’altro e una sciarpetta intorno al collo. Sempre la stessa, per non dargliela vinta. Per non darla vinta a Marie che negli anni gliene aveva regalate diverse. Avrebbe poi acceso il fuoco nel camino già dalla fine di settembre appestando la casa di fumo.
La vecchia si lamentava sempre di essere sola. Però se Marie l’andava a trovare mostrava indifferenza.
Del resto Marie non aveva impegni d’altro tipo. Sposata… non era sposata. Certo aveva avuto degli uomini, ma non erano durati. E non per noia o altro… per… sì, perché Marie, in fondo, ne aveva paura. Una paura folle. Una paura che la inebetiva. Le era sempre successo così. Fin da ragazza.
Gli uomini all’inizio erano cortesi, innamorati, appassionati. Poi di colpo la parola sbagliata, il gesto sgarbato, la voce che si alzava per insofferenza…
Marie era insopportabile a volte, lo sapeva bene, e sapeva di farli uscire dai gangheri… Ugualmente una nota stonata la gettava a terra. La prostrava.
Aveva tuttavia un grande controllo di sé. Era stata educata all’ubbidienza… Maledetta ubbidienza! Quella stessa ubbidienza che gli uomini, tutti, le avevano rinfacciato: «Si può sapere perché sei sempre così obbediente?».
Se il tono della domanda non era quello giusto Marie si rinchiudeva in un silenzio glaciale. Se, invece, era scherzoso allora rispondeva: «Una disciplina di tipo militare fin dalla prima infanzia. Si ubbidisce e non ci si fa domande».
In ogni caso sapeva che l’obbedienza era la cosa che più le pesava. E, ubbidiente nella forma, rimaneva ribelle nell’animo.
Con Nicole parlava spesso dei suoi uomini. L’unico argomento che appassionava la vecchia. Le sue vicende amorose. Le piaceva soprattutto ascoltarle al telefono. Quando Marie, da Torino, la chiamava a Baldissero. Ma ancora quando era in Bretagna le telefonate con Marie erano solo per parlare di uomini. Altrimenti litigavano. Per tutto.
C’era, da parte di Nicole, una specie di astio, quasi di competizione nei confronti della giovane. Che ormai giovane non era più tanto.
E quando Marie le raccontava di un nuovo amore, Nicole, dopo averne riso, commentava: «E a sposarci non ci pensi? Guarda che ti stai facendo vecchia!».
Marie taceva. Taceva e soffriva.
A volte la vecchia ci dava proprio dentro. «E i figli? Quanto tempo pensi di poter avere ancora?».
Marie sapeva che di tempo non ne aveva più. Ma non lo avrebbe mai detto alla vecchia. Alla vecchia che ancora – non sapeva bene perché – la tormentava con i suoi calori improvvisi, con quelle che lei chiamava “scalmane”.
Ai figli Marie non aveva mai pensato. Come se la sua infanzia non fosse mai trascorsa. Nella sua testa sapeva che non era solo l’età anagrafica a non permetterle più di concepire, ma – da sempre – quella psicologica. Qualcosa aveva interrotto la sua crescita… qualcosa che neppure lei sapeva a chi imputare. O forse…
No, non le mancavano dei figli. Non mancano figli a chi non ha la maturità per averne.
Poi quella maledetta paura degli uomini… Una vita in fuga, la sua: dall’obbedienza e dagli uomini.
Loro ci restavano di stucco quando lei spariva. Quando il suo cellulare squillava a vuoto. E riusciva, per sparire, a mettere di mezzo un viaggio (un tempo andare a trovare in Bretagna Nicole era perfetto), a sparire persino dalla farmacia. Prima da quella di corso Vittorio dove era entrata in società con quei due vecchi avari dei Garrone, poi da quella che aveva rilevato dal sardo di via Sacchi.
Ma le sue fughe erano iniziate già ai tempi dell’università, dalla facoltà di via Pietro Giuria. Lei allora raggiungeva il Po. Saliva in canoa e iniziava a remare.
Remava lungo la corrente del fiume allontanandosi da tutto. Soprattutto in primavera.
Adorava la primavera a Torino. Non c’era, per lei, città paragonabile per bellezza in quella stagione. Per lei che, oltretutto, non amava la primavera!
Ma quando era stufa di uomini o la vita le pesava troppo era immergendosi nella natura che trovava conforto. La natura era la sua sola amica. Per quello era felice di avere in pieno centro a Torino un piccolissimo giardino. Per quello aveva investito risparmi e liquidazione nella minuscola casa di Baldissero.
Le piaceva immaginarsi vecchia circondata da piante, da colline, magari anche da animali. In un posto dove, come le capitava andando in visita da Nicole, il succedersi delle stagioni si potesse assaporare meglio.
L’ultimo suo amore risaliva solo a pochi mesi prima. Era durato cioè fino a pochi mesi prima. Ed era stato il più lungo. Due anni interi. Un vero record nella sua vita.
Gherardo era entrato nella farmacia di via Sacchi per una scatola di Tavor. Marie era scoppiata a ridere. Aveva risentito, nella sua testa, la voce stridula di Nicole: «Non dimenticarti il Tavor». Il cliente era rimasto in un primo momento stupito. Poi, pure lui, aveva riso.
«Molto poco professionale, mi perdoni» si era scusata Marie.
«Finalmente qualcuno che ride delle mie nevrosi e non mi consiglia farmaci alternativi» aveva ribattuto l’uomo.
Marie avrebbe voluto incartare le piccole scatole, ma con mano veloce Gherardo le aveva fatte sparire dentro una tracolla.
«Odio lo spreco di carta».
Poi aveva messo i soldi sul banco. Marie non era riuscita a fargli il resto…
Lui era stato pronto a dirle la cifra.
«Per fortuna non ci sono altre persone. Che figura altrimenti!».
«Ci sono io però… ».
«Ha ragione. Non ho dato il meglio di me neppure con lei…».
«Però mi ha divertito».
Marie era rimasta senza parole mentre lui usciva.
La sera, sul divano, aveva cercato di leggere. Ma il suo pensiero fuggiva dalle righe del libro e la portava a lui. Gli piaceva. Gli piaceva che fosse su per giù della sua età. Gli piaceva quella testa di ricci rossi un po’ brizzolati e quella barba incolta.
Poi come vestiva. La giacca di tweed, il foulard con disegni cachemere al collo, i pantaloni in velluto a coste. E quelle scalcagnate Clark ai piedi. Una meraviglia.
Il giorno dopo se lo era rivisto comparire in farmacia.
Non le aveva dato tempo di parlare.
«Allora è lei che ha rilevato l’attività del mio amico Salvatore…».
«Sì. Ne ho mantenuto però il nome. Mi sarebbe spiaciuto cambiarlo. L’insegna è così bella. Quel Farmacia Frogheri in oro su sfondo nero… Un esteta il suo amico. Ora se n’è tornato felice a Nuoro. Mi ha promesso però di non abbandonarmi, nel caso avessi avuto bisogno del suo aiuto. Eh, sì, una decisione forse precipitosa la mia… forse anche azzardata… ma sa, quando ho pensato a me ho pensato a tutti. Per questo mi sono buttata con una certa incoscienza… ».
«Sola?».
«Sì, fortunatamente, ma dovrei dire – chiunque lo direbbe – sfortunatamente.»
«Allora non farò ingelosire nessuno se le chiedo di cenare con me in una di queste sere… ».
«No, stia tranquillo. Nessuno può rivendicare diritti su di me».
Tra loro era iniziato così, banalmente, andando a cena. Ma presto lui si era fermato a dormire da lei in via Camerana. Poi lei da lui in corso Marconi, sopra la libreria Cortina. Più spesso lei da lui.
Piaceva molto a Marie fermarsi a guardare le vetrine dei libri, la sera, dopo il lavoro, prima di salire. E le piaceva pure, uscendo presto il mattino per essere puntuale nella farmacia di via Sacchi, prima dell’apertura, gettare uno sguardo al Castello del Valentino.
Era bello con quella nebbiolina che ne addolciva i contorni in autunno, bello vederlo attraverso il primo verde dei rami in primavera o sotto la neve in inverno.
Gherardo restava a letto più a lungo. Poi anche lui usciva per fare lezione all’università. Gli bastava attraversare corso Massimo. La sua facoltà – quella di architettura – era lì, nel Castello.
Erano stati due anni belli. Due anni di felicità. Per due anni si erano rincorsi. Avevano viaggiato insieme. Marie lo aveva anche presentato a Nicole. Nicole era stata acida: «Sei una bella donna. Che ci troverai in quel rospo?».
Bella donna… Marie conosceva abbastanza bene Nicole per sapere che quel “bella donna” era solo per far risaltare la poca avvenenza dell’altro. «Ma a te piace che sia architetto e magari… come dici? Intelligente?».
«Intellettuale, Nicole, intellettuale!».
Marie sapeva che c’era una cosa – più di ogni altra – che la univa a Gherardo. Ed era quel miracolo che si chiama attrazione fisica e che supera i canoni di qualsiasi tipo di bellezza.
Si erano amati e si erano desiderati. Gherardo sempre garbato. Certo con le sue idee da scapolo incallito. Idee pienamente condivise da Marie. Una meraviglia non dover fuggire da proposte di matrimonio, da progetti di famiglie…
Poi però, negli ultimi tre mesi, Gherardo era esploso, per una stupidaggine, in una scena disumana. Marie si era ribellata. Il letto li aveva, comunque, riuniti.
Ce n’era stata un’altra di scena. Inspiegabile. Poi un’altra ancora. Marie aveva finto una totale abnegazione e si era scusata. Ma dentro di sé una rabbia feroce aveva iniziato a possederla. Zitta e composta, ma con il cuore che le esplodeva. «Maledetto drogato di Tavor» aveva pensato. Intanto calava in lei sempre più quel gelo che già aveva provato con altri. Una coltre di ghiaccio che, quando si formava, rendeva a chiunque inaccessibile il suo cuore.
Aveva ripreso con finte scuse a dormire a casa sua. Entrare dal cancello nel piccolo giardino, salire i pochi gradini e sdraiarsi sul divano per leggere le ridava un senso di grande libertà. Aveva a poco a poco ripreso la sua vita. E non le mancava per nulla né la libreria Cortina né il Castello nelle varie stagioni. Gherardo ancora meno. Era stato lui, del resto, con le sue stesse mani, a cancellarsi dalla mente di Marie.
Infine il cellulare della donna era rimasto – come per altri – muto anche per lui.
Francesca, la giovane praticante della farmacia, aveva ripetuto quanto le era stato richiesto. Senza una parola di più.
«La dottoressa ha preso un periodo di riposo. Troppo lavoro».
Brava Francesca! Decisa e chiara. Nel magazzino adiacente Marie aveva ascoltato senza essere vista.
Gherardo era andato allora a Baldissero, da Nicole.
«E chi la vede più quella? Marie va e viene come le pare. Neanche la sera mi telefona… ».
Ma da Nicole Marie era tornata.
«Finito. Finito anche con Gherardo».
«Ti vedo agitata… Perché non prendi una mezza pastiglia di Tavor?».
«È una vita che me lo proponi. È una vita che non ti ascolto».
«Brava! Cosa vuoi dimostrare? Una donna non sposata e senza figli…».
«Meglio tu! Una figlia da padre ignoto… una vita di liti con quello che ti ha sposata… per poi ritrovarti vedova. Ma lasciamo perdere».
Lo strano insetto sul paralume… Lì, mentre lei, in quella sera di febbraio, cenava con Nicole.
Tutto era partito da lì…
Il suo ripercorrere le stagioni con i profumi, i canti degli uccelli, i rumori degli insetti, lo stormire delle foglie… Poi il cadere delle foglie e il loro mulinello alle raffiche di vento autunnale. E tra i rami il comparire improvviso e l’immediato scomparire degli scoiattoli. Poi ancora i rami spogli e la neve sulle colline.
Come dei quadri quelle immagini passavano ora nei pensieri di Marie. Tutte le stagioni le scorrevano davanti.
E, come in un film, anche quelle della sua vita.
L’infanzia non vissuta, la giovinezza abortita, l’età adulta incerta e, tra non molto, la vecchiaia ignota. Lì, pronta a bussare alla sua porta.
Marie sapeva che di stagioni non ce ne sarebbero state più molte per la vecchia. Per questo aveva impiegato gli ultimi anni ad abituarsi all’idea che prima o poi Nicole se ne sarebbe andata. Doveva… voleva abituarsi a quell’idea. Non poteva avere tempo per gli uomini e le loro bizzarrie. Per questo non le era spiaciuto più di tanto rompere con Gherardo.
Doveva avere tempo per pensare. Per abituarsi a convivere con l’idea della morte. Di quella altrui. E con l’idea della solitudine. Quella vera. Quella incolmabile. Quella che gli uomini non capiscono. Perché no, gli uomini non capiscono. Anche quelli che dormono accanto a te, come per due anni aveva fatto Gherardo.
La voce della canzone di Mina le risuonava dentro. Del resto quali parole avrebbero potuto spiegare meglio quello che lei aveva provato nel lungo periodo in cui non aveva più dormito sola? « …per la paura della solitudine/paura che non mi ha lasciato mai/ nemmeno adesso che sei qui e dormi accanto a me/ma sento che i tuoi sogni ti allontanano/perché per quelli che si amano non c’è, non c’è/ lo stesso sogno da sognare in due.»
Quelle scene inspiegabili di Gherardo… Ci ripensava Marie. E ripensava che lui non aveva mai saputo niente di lei. Che forse neanche gli era mai interessato sapere qualcosa di lei. Di lei bambina. Della sua paura della solitudine.
Continuò con le parole della canzone. Le facevano compagnia.
«…Una donna è più sola quando l’uomo che ha vicino/non riesce a leggere nei suoi pensieri/…adesso io vorrei, vorrei sognare quel che stai sognando tu».
Ora non sarebbe stato più possibile. Ora che Gherardo era uscito dalla sua vita. Entrare nei sogni di un altro… Impossibile.
Nuovamente sola, Marie avrebbe sognato solo per se stessa. E avrebbe dedicato di nuovo i suoi pensieri alla morte, dormendo sola, senza nessuno accanto.
Ci erano voluti degli anni. Un lento allenamento. Una prova continua. Un esercizio quotidiano.
Ora, però, si sentiva pronta. O almeno credeva.
Pronta a perdere Nicole.
Pronta a rimanere sola.
Perché questo le sarebbe capitato quando Nicole sarebbe morta: restare definitivamente sola.
Sola senza sua madre.
Lucca, 1 aprile 2011
La foto di apertura è di Mariapia Frigerio
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